Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 27-10-2011) 24-11-2011, n. 43367 Lesioni colpose nesso di causalità

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Il 7 giugno 2009, verso le ore 23.00, una volante della Polizia di Stato raggiungeva una località della città di Milano ove era stata segnalata la presenza di una persona gravemente ferita da colpi di coltello. Qui giunti gli operatori trovavano sul pianerottolo del primo piano ove abitava C.S.C.M., inginocchiato accanto al corpo insanguinato di N.E., il quale decedeva poco dopo durante il trasporto in ospedale. Il predetto C., immediatamente interrogato, raccontava che da tredici anni viveva con la vittima, alla quale era legato da una relazione sentimentale e che per ragioni di gelosia del compagno poco prima i due avevano violentemente litigato, fino a quando "si era trovato un coltello in mano" con il quale aveva colpito la vittima. Resosi conto della gravità della sua azione aveva soccorso il compagno chiedendo aiuto e praticandogli la respirazione bocca a bocca.

1.2 Le indagini e gli accertamenti medico-legali consentivano di accertare che la vittima era stata colpita da tre colpi portati in rapida successione con il coltello trovato sul luogo del delitto, colpi i quali avevano prodotto una ferita al braccio sinistro e due ferite ravvicinate alla superficie anteriore dell’emitorace sinistro, in sede sottoclaveare.

La morte della vittima era da imputare, secondo gli accertamenti medico-legali, alla lesione pleuro-polmonare con conseguente perdita ematica in soggetto portatore di una grave cardiopatia, caratterizzata da esiti di infarto miocardico esteso al ventricolo sinistro e da una coronaropatia sclerotica. Concludeva il medicolegale che le lesioni polmonari da sole non apparivano di entità tale da giustificare la morte della persona offesa e che il fatto emorragico conseguente alle ferite aveva cagionato, inevitabilmente, una condizione di shock la quale, insieme alla patologia cardiaca, aveva concorso a determinare l’arresto delle funzioni vitali del soggetto.

1.3 Il C. veniva pertanto rinviato a giudizio con l’accusa di aver volontariamente cagionato la morte di N.E. colpendolo con un coltello da cucina ed all’esito del giudizio abbreviato, lo stesso veniva condannato alla pena di anni dieci e mesi otto di reclusione, concesse le attenuanti generiche e con la riduzione per il rito.

1.4 Avverso la sentenza di prime cure proponeva appello l’imputato reiterando gli argomenti difensivi già vanamente prospettati davanti al GUP e cioè che non intendeva uccidere la vittima, persona alla quale era legata da sincero affetto risalente nel tempo e che l’evento morte si era realizzato oltre la sua intenzione, che era quella di provocare lesioni al compagno per interrompere un assurdo litigio. Di qui la tesi difensiva che nella fattispecie andava riscontrata una ipotesi di omicidio preterintenzionale.

Deduceva ancora la difesa appellante che la cardiopatia accertata dal medico legale costituiva interruzione giuridicamente rilevante del nesso di causalità, ai sensi degli artt. 40 e 41 c.p., tra la condotta dell’imputato e la morte del compagno, tenuto conto che l’esame autoptico ha concluso nel senso della inidoneità della coltellata più profonda tra quelle inferte alla vittima a cagionare da sola la morte del ferito.

Domandava infine la difesa appellante una riduzione della pena inflitta dal primo giudice.

1.5 La Corte di Assise di Appello di Milano rigettava le tesi difensive sul rilievo che il colpo mortale era stato sorretto da dolo eventuale e che la ferita inferta era stata determinante dell’esito mortale.

Accoglieva però la Corte territoriale l’ultima delle istanze difensive e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, rideterminava la pena ad anni nove e mesi quattro di reclusione.

2. Avverso la pronuncia della Corte di assise di appello ha proposto ricorso di legittimità l’imputato, assistito dal difensore di fiducia, denunciando, con unico ed articolato motivo di impugnazione, plurime violazioni di legge.

2.1 Ribadisce, in primo luogo, la difesa ricorrente che, nel caso di specie, all’imputato va contestato non già l’omicidio volontario ritenuto dai giudici di merito, bensì l’omicidio preterintenzionale di cui all’art. 584 c.p., e tanto sulla base delle seguenti argomentazioni:

– l’imputato, convivente da parecchi anni della vittima, per vivere si prostituiva sulla strada, fatto noto al compagno;

– un banale episodio ebbe a suscitare un reazione di forte gelosia della vittima, la quale provocò per questo, per ragioni passionali quindi, un violento litigio;

– nel corso della colluttazione l’imputato, in preda a comprensibile agitazione, afferrò un coltello, peraltro ferendosi alla mano, con esso colpendo il compagno e ponendo fine alla lite;

– la vittima a questo punto uscì di casa senza che l’imputato si rendesse conto delle perdite di sangue, e soltanto quando, sul pianerottolo sottostante, la vittima stessa iniziò a lamentarsi, venne raggiunta dal C., il quale dette l’allarme e cercò di prestare una prima assistenza, rimanendo vicino al compagno fino all’arrivo della polizia e dei sanitari, chiamandolo ripetutamente "amore, amore";

– la dinamica in tal guisa sintetizzata comprova che l’imputato agì senza alcuna volontà omicida.

2.2 Deduce altresì la difesa ricorrente, quanto al nesso di causalità rispetto all’evento morte, che:

– l’esame autoptico ha escluso che le lesioni cagionate nel corso della lite siano state tali da giustificare, da sole, la morte della vittima;

– la vittima era affetta da una serissima patologia cardiaca, cagione dell’esiziale shok emorragico;

– una persona sana, pertanto, non sarebbe deceduta in seguito ai colpi inferti dall’imputato;

– ciò esclude il nesso di causalità tra condotta accertata e la morte della vittima.

2.3 Denuncia ancora la difesa ricorrente che nel caso in esame farebbe difetto il dolo omocidiario necessario per la contigurabilita del reato di cui all’art. 575 c.p., e questo perchè:

– l’imputato non intendeva uccidere il compagno;

– l’imputato non previde il danno mortale nè, come detto, lo volle;

– neppure è applicabile alla fattispecie la lezione ermeneutica del dolo eventuale, posto che non poteva prefigurarsi l’incidenza della cardiopatia.

2.4 Sotto altro aspetto, infine, censura la difesa ricorrente la sentenza impugnata, rilevando la inidoneità delle coltellate inferte a cagionare l’evento della morte, posto che:

– l’esame autoptico ha esplicitamente affermato che due delle tre coltellate erano innocue, mentre quella che ha attinto più in profondità i tessuti della vittima, di per sè, non ne avrebbe cagionato la morte se non avesse in modo determinato inciso la grave cardiopatia dalla quale era essa affetta, cardiopatia ignota al prevenuto.

2.5 Conclude quindi la difesa ricorrente sottolineando la imprevedibilità della morte perchè cagionata dalla decisiva concorrenza causale della cardiopatia ignota all’agente, di guisa che, in assenza della volontà omicida dell’imputato, legato da affetto sincero e consolidato al compagno, palese appare la sussistenza nella fattispecie del reato preterintenzionale, giacchè volute le lesioni ed intervenuta la morte per cause non previste e non prevedibili in capo all’agente.

3. Il ricorso è infondato.

L’impugnazione in esame pone a questa istanza di legittimità le seguenti tre questione giuridiche: A) se la condotta pacificamente accertata sia riferibile alla fattispecie tipizzata all’art. 575 c.p. ovvero a quella di cui all’art. 584 c.p.; B) se la grave cardiopatia dalla quale la vittima era affetta abbia contribuito in termini tali nel cagionare l’evento, da determinare l’esclusione del nesso di causalità tra condotta contestata e la morte della vittima; C) se la coltellata ritenuta dal medico legale più grave tra le tre inferte dall’imputato fosse o meno idonea a cagionare la morte della vittima in costanza della predetta grave patologia cardiaca.

3.1 In primo luogo ritiene la Corte di affrontare la questione relativa alla sussistenza o meno, nel caso di specie, del nesso di causalità tra la condotta consumata dall’imputato e l’evento esiziale che ha colpito la vittima della sua azione delittuosa.

Quella posta dal difensore, e cioè quella relativa al nesso di causalità, è questione giuridica tra le più dibattute dalla scienza penalistica, dall’ordinamento positivo disciplinata attraverso i principi riportati agli artt. 40 e 41 c.p., i quali ormai, per quanto qui interessa, trovano ampio consenso interpretativo nel principio secondo cui, ai fini dell’apprezzamento dell’eventuale interruzione del nesso causale tra la condotta e l’evento, la causa sopravvenuta o preesistente da sola sufficiente a determinare l’evento di cui all’art. 41 c.p., comma 2, non si riferisce solo al caso di un processo causale del tutto autonomo, giacchè, allora, la disposizione sarebbe pressochè inutile, in quanto all’esclusione del rapporto causale si perverrebbe comunque sulla base del principio condizionalistico o dell’equivalenza delle cause di cui all’art. 41 c.p., comma 1. La norma, viceversa, si applica anche nel caso di un processo non completamente avulso dall’antecedente, ma caratterizzato da un percorso causale completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale, ossia di un evento che non si verifica se non in ipotesi del tutto imprevedibili, di guisa che nel caso concreto, per escludere il nesso di causalità tra condotta ed evento, quest’ultimo deve rappresentarsi come accadimento abnorme ed assolutamente, giova ripeterlo, imprevedibile (Cass., Sez. 4, 30/01/2008, n. 13939).

Con maggiore aderenza poi al caso specifico, non possono essere considerate cause preesistenti o sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento, ai fini della riconoscibilità del nesso di causalità di cui alle norme in commento, quelle in sinergia con la condotta dell’imputato, quando, venendo a mancare una delle due, non si sarebbe verificato l’evento (Cass., sez. 5, 13.2.2002, n. 13114).

Ciò posto quanto ai principi e tornando al caso di specie, ritiene la Corte che nel caso di lesioni personali seguite dal decesso della vittima dell’azione delittuosa, l’eventuale presenza di una grave cardiopatia che abbia concorso nella causazione della morte, non elide il nesso di causalità tra la condotta lesiva dell’agente e l’evento. La cardiopatia, infatti, non può ritenersi causa autonoma e indipendente rispetto al comportamento dell’agente che, provocando il fatto lesivo, ha cagionato la massiva emorragia cagione dello shok esiziale, in quanto siffatto fenomeno emorragico in seguito ad accoltellamento in area vitale del corpo umano riccamente vascolarizzata, costituisce un fatto tipico e prevedibile, e si inserisce perfettamente nella serie causale originata dall’azione offensiva, rispetto alla quale costituisce momento di normale evoluzione, di guisa che l’eventuale grave cardiopatia come innanzi descritta dal medico-legale, non realizza quella situazione di sufficienza della causa intervenuta a determinare l’evento, dalla quale il legislatore fa dipendere l’esclusione del rapporto di causalità (Cass., Sez. 1, 31/10/1995, n. 10815; idem 29.1.2009, n. 8419). La sentenza del giudice dell’appello ha fatto corretta applicazione dei principi esposti, peraltro di molto ridimensionando l’incidenza causale della cardiopatia nella morte della vittima, cardiopatia la quale, secondo quanto dedotto dai giudicanti di merito nella motivazione impugnata sulla scorta della lettura degli esiti medicolegali, avrebbe semplicemente accelerato il processo organico degenerativo che portò alla morte.

Giova sottolineare che rispetto a tale ultima, specifica, argomentazione articolata dalla Corte di merito, nulla ha replicato la difesa ricorrente.

3.2 Quanto appena riportato in riferimento alla motivazione impugnata risolve, altresì, la ulteriore questione giuridica posta dalla difesa ricorrente e cioè se la più incisiva delle tre pugnalate inferte dall’imputato fosse o meno idonea a provocare la morte della vittima, questione risolta dalla constatazione che la morte in concreto si verificò e che fu diretta conseguenza della pugnalata, a sua volta cagione della massiva ed esiziale emorragia. Nè vale anche in questo caso opporre, come difensivamente sperimentato, la decisività della concausa, sia perchè esclusa motivatamente dalla Corte di merito essa decisività e sia perchè in assenza della pugnalata l’evento morte non si sarebbe verificato.

3.3 Rimane da valutare le censure difensive in ordine alla qualificazione della condotta e cioè se vada essa inserita nell’ipotesi tipizzata quale omicidio volontario ovvero preterintenzionale. Secondo l’ormai consolidata lezione dottrinale, si ha dolo diretto o intenzionale quando la volontà dell’agente è diretta ad un determinato risultato.

Si ritengono altresì voluti i risultati di quei comportamenti che siano stati comunque previsti dal soggetto, anche soltanto come possibili, purchè egli ne abbia accettato il rischio, o, più semplicemente, purchè non abbia agito con la sicura convinzione che non si sarebbero verificati. In questa ipotesi il dolo viene qualificato dolo indiretto o eventuale.

Quanto a tale seconda fattispecie, dappoichè l’elemento psicologico di una condotta, per regola consolidata, in quanto realtà priva di concretezza fisica, è espressione inafferrabile del pensiero umano, il dolo eventuale ben può essere desunta, ancorchè con valutazione motiva di particolare rigore, alla significatività di determinati comportamenti.

Nel caso di specie i giudici di merito hanno illustrato congrua motivazione valorizzando l’arma utilizzata, idonea ad uccidere, il numero dei colpi inferti, esattamente tre portati in rapida successione, la parte attinta del corpo della vittima, presidiata da organi vitali, il contesto dell’azione, una colluttazione violenta con lo stato d’ira ad essa connesso.

Ne con segue, pertanto, ai fini del presente giudizio, che correttamente è stata ritenuta sussistente nel caso di specie una ipotesi di omicidio volontario e non già di omicidio preterintenzionale, giacchè la condotta consumata dall’imputata fu tale che non potè essa accompagnarsi alla consapevolezza della sua pericolosità quoad vitam.

4. Alla stregua delle anticipate considerazioni il ricorso va pertanto rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali a mente dell’art. 606 c.p.p..

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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