Cass. civ. Sez. I, Sent., 08-06-2012, n. 9375 Effetti del fallimento per i creditori

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte d’Appello di Palermo, con sentenza del 2.3.010, ha respinto i gravame proposto dal Banco di Sicilia s.p.a. (cui, in corso di causa, è succeduta Capitalia s.p.a., che ha a sua volta ceduto i crediti ad Aspra Finance s.p.a., intervenuta in giudizio per il tramite della mandataria UGC Banca s.p.a.) avverso la sentenza del Tribunale che, in accoglimento della domanda ex art. 67, comma 2, L. Fall. avanzata dal Fallimento della Caterpanta s.r.l., aveva dichiarato l’inefficacia di versamenti solutori per complessive L. 503.571.938 affluiti, nel cd. periodo sospetto, sul conto corrente intrattenuto dalla fallita presso un’agenzia della banca ed aveva condannato la stessa a restituire alla curatela la somma predetta, maggiorata degli interessi legali.

La Corte territoriale, per ciò che nella presente sede ancora rileva, ha ritenuto che la curatela avesse fornito in via presuntiva la prova della scientia decoctionis dell’istituto di credito appellante, in ragione della ridotta movimentazione del conto nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento e dell’esistenza di un ingente credito scaduto del Banco di Sicilia, derivato dalla mancata restituzione da parte di Caterpanta delle somme erogatele per finanziamenti di breve periodo. La sentenza è stata impugnata da Aspra Finance s.p.a. (e, per essa, dalla mandataria UniCredit Credit Mangement Bank s.p.a., già UGC Banca s.p.a.) con ricorso per cassazione affidato a tre motivi ed illustrato da memoria. Il Fallimento della Caterpanta ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

1) Con il primo motivo di ricorso, Aspra Finance, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 67, comma 3, lett. b) e art. 70, comma 3, L. Fall. così come modificati dal D.L. n. 35 del 2005, convertito dalla L. n. 80 del 2005, nonchè dell’art. 2, comma 2 del D.L. cit., anche in relazione alla L. n. 400 del 1988, art. 115 lamenta che la Corte d’Appello non abbia applicato alla fattispecie in esame la nuova disciplina in materia di revocatoria. Deduce che le nuove disposizioni hanno natura interpretativa, posto che, anteriormente alla loro entrata in vigore, la legge fallimentare non dettava alcuna regola per l’individuazione delle rimesse revocabili e che solo in via di interpretazione giurisprudenziale si era giunti a ritenere solutori (e quindi revocabili) i versamenti affluiti su un conto scoperto. Richiama, a sostegno del proprio assunto, alcune sentenze di merito che, sul rilievo del carattere meramente "pretorio" della predetta soluzione, hanno affermato, anche per fallimenti dichiarati anteriormente all’entrata in vigore del D.L. n. 35 del 2005, la revocabilità delle sole somme corrispondenti alla differenza fra il massimo scoperto del conto, nel cd. periodo sospetto, ed il saldo esistente alla data di chiusura del rapporto.

Solleva, in subordine, questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 35 del 2005, convenuto dalla L. n. 80 del 2005, nella parte in cui non prevede che le ipotesi di esenzione da revocatoria contemplate al comma 1 si applichino a tutti i giudizi pendenti alla data della sua entrata in vigore.

Il motivo è infondato.

Va, in primo luogo, respinta la tesi della natura interpretativa delle nuove disposizioni in tema di revocatoria (e, segnatamente, di revocatoria delle rimesse effettuate su un conto corrente bancario) introdotte dal D.L. n. 35 del 2005, art. 2, comma 1, lett. a) convenuto nella L. n. 80 del 2005.

Sotto il vigore della previgente disciplina, sulla questione della revocabilità dei versamenti eseguiti sul conto corrente bancario non si registrano contrasti giurisprudenziali, essendosi, al contrario, da tempo consolidato l’indirizzo che individua in ciascuna rimessa affluita sul conto scoperto (e non meramente passivo) un pagamento revocabile. Detto indirizzo, lungi dal costituire il punto di approdo di un’elaborazione ermeneutica di derivazione meramente "pretoria", non fa altro che applicare correttamente il disposto dell’art. 67, comma 2, L. Fall. nel testo non ancora modificato dalla legge di riforma: è evidente, infatti, che qualsiasi versamento effettuato in presenza di un debito scaduto ed immediatamente esigibile costituisce un pagamento (totale o parziale) di quel debito.

Nè il fatto che il debitore abbia successivamente continuato ad operare sul conto, (traendone assegni, disponendo bonifici in favore di terzi ecc.) può far venir meno l’effetto solutorio già realizzato; invero – a meno che non via sia la prova, come accade nelle cd. "partite bilanciate", che il denaro versato sia rimasto nella disponibilità del correntista – risulterebbe del tutto improprio parlare di "riutilizzazione" da parte di quest’ultimo di somme che sono entrate definitivamente a far parte del patrimonio della banca creditrice, laddove, a ben vedere, essa, allorchè consente al cliente, rientrato in tutto o in parte dall’esposizione, di riportare il conto allo scoperto (o di far lievitare lo scoperto ancora esistente), non fa altro che erogargli nuovi prestiti, dai quali derivano altrettanti debiti, entrambi di importo corrispondente a quello di ciascuna operazione.

La regolamentazione delle partite di "dare" ed "avere" in conto corrente vale dunque a semplificare il meccanismo, evitando la materiale apprensione dei pagamenti e la materiale corresponsione delle nuove somme di denaro da parte della banca, ma non può indurre a confondere il piano operativo con quello giuridico. Del resto, se davvero i principi giurisprudenziali consolidati dai quali, secondo la ricorrente, occorrerebbe oggi discostarsi fossero frutto di un’elaborazione "creativa" di questa Corte di legittimità e delle Corti di merito, e se, dunque, come essa sostiene, le modifiche introdotte dalla L. n. 80 del 2005 all’art. 67, L. Fall., anzichè essere espressione della volontà del legislatore di restringere per il futuro la nozione di atti pregiudizievoli per la massa, non costituissero altro che norme di interpretazione autentica del previgente testo della disposizione, risulterebbe dei tutto insensata la previsione della loro applicabilità alle sole azioni revocatorie proposte nell’ambito di procedure iniziate dopo l’entrata in vigore della legge. Manifestamente infondata è, poi, la q.l.c. della norma transitoria. Questa Corte ha già avuto modo di affermare, con motivazione dalla quale non v’è ragione per discostarsi, che la prevista irretroattività della nuova disciplina ai fallimenti anteriormente dichiarati non comporta alcuna violazione del principio di uguaglianza, trattandosi di scelta legislativa che incide in modo identico per tutti i rapporti sorti dopo la riforma, allo stesso modo in cui per tutti i rapporti precedenti valeva una diversa disciplina, quale voluta alla stregua di una diversa valutazione del legislatore, consentita dal testo costituzionale (Cass. n. 5346/07). Non può porsi, infatti, dubbio di costituzionalità fra situazioni che non siano identiche anche ratione temporis, ed, avuto riguardo agli atti revocabili, tale identità non va considerata solo sotto il profilo della loro contemporaneità, ma anche dalla loro inerenza a procedure di insolvenza in ugual modo databili (Cass. n. 5962/08). Nè può scorgersi irrazionalità nella scelta del legislatore di non incidere sull’affidamento riposto dai creditori concorsuali nella ricostruzione del patrimonio del fallito in base alle regole vigenti all’atto della dichiarazione di fallimento, e di riservare perciò il mutamento (in peius) delle aspettative di reintegrazione derivante da possibili azioni revocatorie soltanto ai creditori di fallimenti aperti successivamente all’entrata in vigore della riforma.

Resta, infine, incomprensibile la deduzione di incostituzionalità della disposizione transitoria (e non delle norme sostanziali) sotto il profilo di cui all’art. 77 Cost.. Sfugge, del resto, alla ricorrente che, in mancanza di tale disposizione, atteso il principio generale di irretroattività della legge, le nuove norme non potrebbero comunque applicarsi alla fattispecie in esame, relativa a pagamenti solutori intervenuti nel 1993.

2) Con il secondo motivo, Aspra Finance, denunciando vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, contesta la logicità e la coerenza del ragionamento probatorio in base al quale la Corte territoriale ha ritenuto provata la sua scientia decoctionis. Da rilievo, in particolare, all’affermazione del giudice d’appello secondo cui poteva "ragionevolmente presumersi che il Banco di Sicilia ritenesse non irreversibile il dissesto e sottolinea come tale presunzione contrasti con quella di conoscenza dello stato di insolvenza. Osserva, ancora, che la Corte di merito ha ritenuto anomala l’operatività del conto pur dando atto che Caterpanta, dopo aver ritirato un libretto di assegni, l’aveva movimentato con 21 accrediti e 14 addebiti e lamenta, in conclusione, che la ricorrenza del presupposto soggettivo dell’azione proposta dal Fallimento sia stata desunta dalla sola circostanza della costante scopertura del conto, in assenza di ulteriori dati documentali (protesti, pignoramenti, decreti ingiuntivi) indicativi de dissesto della debitrice.

3) Con il terzo motivo, denunciando violazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., la ricorrente deduce che la Corte territoriale ha tratto la prova della scientia decoctionis del Banco di Sicilia da elementi presuntivi privi dei requisiti della gravità, della precisione e della concordanza, avendo ritenuto sufficiente ad integrare tale prova la natura di operatore professionale della banca e l’esistenza del debito extrafido. I motivi, che sono fra loro connessi e che possono essere congiuntamente esaminati, sono infondati e devono essere respinti.

La Corte di merito non si è limitata a prendere in considerazione i soli elementi presuntivi indicati dalla ricorrente, ma ha ritenuto raggiunta la prova della conoscenza in capo al Banco di Sicilia dello stato di insolvenza di Caterpanta in base ad un’unitaria valutazione di tutte le circostanze di fatto acquisite, in via documentale, agli atti del giudizio, fra le quali rientravano l’andamento del conto nel cd. periodo sospetto (posto che la correntista non vi trasse assegni per circa un mese e mezzo – ovvero sino al versamento di una consistente rimessa che le consentì di rientrare temporaneamente dallo scoperto – ne ridusse notevolmente la movimentazione nel semestre successivo e smise poi definitivamente di operarvi sino alla data del fallimento) e la mancata restituzione da parte della società delle somme, per circa mezzo miliardo di lire, che la banca le aveva erogato sin dal 1992 a titolo di finanziamento a sei mesi.

ti protratto inadempimento ad un’obbligazione di pagamento di rilevante ammontare costituisce segnale d’allarme per qualsiasi creditore, e non solo per un operatore bancario, mentre l’altalenante movimentazione del conto corrente (che, dopo un primo periodo di stasi, è ripresa in misura fortemente ridotta per poi cessare definitivamente e che ben può definirsi anomala rispetto al normale andamento del rapporto intrattenuto da un’impresa commerciale), è sintomo palese, se non della volontà della banca di non erogare più credito alla cliente, quantomeno della forte contrazione del volume d’affari di quest’ultima, constatai in via diretta dall’istituto. La ricorrente, che non chiarisce perchè le predette circostanze non sarebbero idonee ad integrare elementi presuntivi gravi ed univoci della scientia decoctionis, fonda dunque le proprie censure su una lettura solo parziale, o su una peculiare e del tutto soggettiva interpretazione, della sentenza impugnata.

Ad analoghe conclusioni deve giungersi per la doglianza concernente il preteso vizio di contraddittorietà della sentenza, laddove il giudice ha sostenuto che la mancata chiusura del conto non costituiva elemento atto a smentire le conclusioni raggiunte in ordine alla ricorrenza del presupposto soggettivo dell’azione, "potendo presumersi che il Banco di Sicilia ritenesse non irreversibile il dissesto". Trattasi infatti di affermazione isolata e non argomentata, inclusa in un contesto che la smentisce totalmente, e che pertanto non impedisce di comprendere l’iter logico che sorregge la decisione. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in Euro 5.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 3 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2012

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