Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 25-10-2011) 24-11-2011, n. 43357

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 16.4.2010 la Corte d’appello di Napoli riformava solo in punto pena la pronuncia del Tribunale di S. Maria Capua Vetere del 16.1.2009, con cui era stata affermata la colpevolezza di B.A. e di D.A. quali concorrenti, con altri correi, del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione della cittadina marocchina E.A.H., per la cui liberazione era stato chiesto al padre della medesima un riscatto di L. dieci milioni di lire, in data 11.9.2002. Al B. veniva inflitta la pena di anni diciassette di reclusione, mentre alla D. veniva inflitta la pena di anni undici e mesi due di reclusione.

I dati probanti su cui si sono fondate I affermazioni di condanna hanno fatto perno: 1) sulla testimonianza della persona offesa che aveva descritto le fasi della rapina subita presso il negozio del padre in T., dove ella prestava attività lavorativa, quindi il suo rapimento e la condizione di privazione della libertà personale patita per diversi giorni, in cui fu condotta prima a Perugia, poi a Milano, quindi in Alessandria; 2) sui dati obiettivi risultanti dai referti medici, indicativi di cicatrici da ferita, tumefazioni al polso delle due mani, ustioni alla mano ed ai polsi, evocative di uno stato di costrizione, oltre che segni di lesioni recenti in sede vaginale; 3) sulla testimonianza del padre della stessa E.A.A., quanto alle richieste di denaro ricevute ed alla intermediazione di tale N.; 4) sui dati ottenuti dal controllo dei tabulati telefonici; 5) sulle emergenze seguite alla perquisizione presso le case di N. (in cui venne rinvenuta parte della merce sottratta dal negozio) e del B. (ove venne trovata la fotografia della sorella della sequestrata, che la stessa era solita portare con sè); 6) sul dato obiettivo dell’intervenuta identificazione della casa milanese dove la ragazza fu tenuta sequestrata, sotto la vigilanza della D.; 7) sul dato dell’intervenuto rintraccio della giovane, grazie ad una intelligente attività investigativa, presso un cugino in località (OMISSIS), in stato confusionale e totalmente assente.

In sintesi, secondo il racconto della parte offesa, il B., dopo aver sottratto con violenza la mercè dal negozio del padre, aveva condotto l’auto a bordo della quale ella H. era stata costretta a salire, sotto il controllo di W.B.A., fino alla stazione di Casetta; qui era stata presa sotto lo stretto controllo del B. e portata in treno a Perugia, presso l’abitazione della sorella di questi, dopo di che veniva prelevata sempre dal B. e condotta a Milano, dove ad attenderli vi era il W., che li accompagnò presso la casa di D.A., alla cui sorveglianza notturna venne affidata.

Sulla base di questi dati che avevano trovato significativi riscontri (quali il rinvenimento della foto della sorella della sequestrata nella disponibilità dell’imputato e l’accertata presenza dello stesso, nella zona di Perugia, ove la ragazza venne segregata, presso la sorella del menzionato), i giudici di merito ritenevano che il B. aveva offerto un significativo contributo causale all’attività di sequestro della giovane, operato a fini di estorsione, avendo fatto recapitare al padre la richiesta di pagamento di una somma di dieci milioni di lire per liberare la giovane figlia. Veniva poi conclamata l’assoluta inverosimiglianza della rappresentazione dell’imputato, sull’essere stata la giovane fanciulla dedita alla prostituzione ( dato smentito all’esito della visita ginecologica) e veniva appurato che nessun tipo di rapporto aveva unito la giovane (giunta da pochi mesi in Italia) agli imputati. Alla luce del contributo rilevante offerto dal B., veniva escluso che si potesse configurare l’ipotesi prevista dall’art. 116 cod. pen.. Quanto alla D., parimenti veniva ritenuto pacifico che la sequestrata fu tenuta in ostaggio per circa tre giorni nella di lei abitazione in Milano e che la donna ebbe contezza dell’esigenza di tenere segregata la giovane, essendo stata destinatala della consegna a non lasciarla andare via e a tenere sempre chiusa a chiave la porta di ingresso al minuscolo appartamento da lei abitato, durante la notte, quando il W. si allontanava e lasciava l’incarico di custodia della sequestrata a lei medesima.

Veniva poi opinato dai giudici di merito nel senso che quest’ultima fosse stata a giorno della richiesta di denari per la liberazione della fanciulla, in ragione del fatto che la richiesta di pagamento del riscatto era partita da una cabina telefonica posta a poca distanza dall’abitazione dell’imputata e che la D. aveva non solo presenziato alla telefonata del 19 settembre di richiesta di pagamento del riscatto inoltrate al padre della vittima, ma aveva interloquito con lui. Veniva quindi ritenuta la D. consapevole della richiesta estorsiva, ancorchè la sua opera fosse da ritenere di modesto rilievo e quindi rientrante nella previsione di cui all’art. 114 cod. pen. 2. Avverso tale pronuncia hanno proposto ricorso per Cassazione entrambi gli imputati, pel tramite dei loro difensori.

2.1 B. deduce in primis mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, in relazione a vizi risultanti dal testo del provvedimento impugnato: viene contestato il giudizio di affidabilità che è stato riconosciuto alla testimonianza della H., parte offesa, laddove ben due profili avrebbero dovuto mettere in discussione questa valutazione. Il primo:

l’inverosimiglianza del racconto, laddove fu rappresentato che il B. avrebbe accompagnato in treno la sequestrata e l’avrebbe addirittura portata in locali pubblici, dove l’avrebbe costretta a spacciare monete false; il secondo: l’atteggiamento tenuto dalla giovane subito dopo la liberazione, allorchè si rifugiò da una parente e non contattò i genitori. Secondo la difesa, le considerazioni espresse dalla Corte territoriale, secondo cui la giovane, di cultura islamica, temeva di ritornare a casa a causa della verginità perduta, non sarebbero idonee a giustificare il contegno tenuto, avendo operato la Corte un salto logico nell’omettere di motivare in quale modo le condizioni ambientali e culturali avessero impedito la denuncia del reato ed in quale modo il mancato tentativo della stessa di sottrarsi ai rapitori fosse collegabile a dati di consuetudine. In secondo luogo viene dedotto vizio di mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione in ordine alla configurabilità dell’ipotesi di cui all’art. 116 cod. pen.: secondo la difesa l’avere fatto discendere la consapevolezza in capo al B. dell’intento estorsivo dal dato che egli depredò il negozio del padre della vittima è l’esito di un percorso illogico, nè può dedursi il nesso di causalità psichica tra la condotta e l’evento diverso voluto e cagionato dal correo, essendosi l’imputato limitato ad accompagnare la giovane a Milano, ragion per cui mancherebbero argomenti sulla prevedibilità dell’evento come sviluppo logicamente susseguente al reato concordato e voluto.

2.2 La difesa di D. deduce:

a) vizio di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per la incontrovertibile difformità tra i risultati delle prove assunte e le conseguenze che il giudice di merito ha tratto in sentenza sulla sussistenza degli elementi costitutivi del reato di sequestro di persone a scopo di estorsione.

Secondo la difesa, il convincimento della corte si è formato su un risultato probatorio incontestabilmente diverso da quello reale: se è pacifico che al padre di H. vennero effettuate due telefonate il 19 settembre 2002, una alle ore 17, 47 e l’altra alle ore 17, 51, dalla cabina telefonica di viale (OMISSIS), è altrettanto certo che nella prima telefonata intervenne la D. che rassicurò sullo stato di salute della H. che poi passò al padre, mentre fu nella seconda soltanto, non in presenza di D., che si era allontanata, ma in presenza di B.H. detta F., che venne avanzata la richiesta di riscatto di dieci milioni. Tale esatta successione dei fatti è stata confermata anche dai genitori della H. e risulta confortata dal fatto che, nel corso della prima telefonata, la madre di H. non era presente. A fronte di questo dato inequivoco, la D. non può esser chiamata a rispondere del reato di cui all’art. 630 cod. pen., perchè non ha formulato richiesta di denaro; pertanto non vi sarebbe prova in capo a lei della consapevolezza dello scopo del sequestro, ma neppure del sequestro stesso, atteso che la motivazione si basa sull’assunto che la donna era consapevole del sequestro perchè provata era la sua partecipazione nella richiesta estorsiva. La difesa insiste nel sottolineare che la Corte d’appello ha escluso il preventivo accordo (ritenuto in primo grado) tra l’imputata ed il W. e che la stessa H. aveva ricordato che, nel lasciarla dalla D., la ammonirono di non dire ad alcuno di esser stata portata lì con la forza. Detta raccomandazione quindi proverebbe che la D. doveva rimanere, come rimase, all’oscuro dello stato di soggezione della giovane. Del resto la stessa H. aveva rappresentato che la D. rimaneva sola con lei solo nella notte, poichè di giorno andava al lavoro ed il ruolo di guardiano lo assumeva il W.. Il coacervo di questi elementi avrebbe dovuto portare a ritenere l’imputata all’oscuro del piano delittuoso del W. e dei suoi accoliti. b) mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta integrazione dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 630 cod. pen., atteso che l’imputata si sarebbe limitata ad ospitare H., come richiestole dallo zio conduttore dell’appartamento e non venne mai portata a conoscenza da parte di alcuno dello stato di privazione della libertà personale in cui la persona offesa era stata costretta. La stessa non risulta essersi mai accordata con V. o B. per sequestrare la persona offesa, fu tenuta all’oscuro del piano delittuoso, mai ebbe contezza del sequestro a scopi estorsivi, di talchè si imponeva il proscioglimento;

c) mancata assunzione di prova decisiva: a fronte della decisione assunta, si rendeva oltremodo necessario rinnovare il dibattimento su varie circostanze, quali la presenza della D. sul luogo di lavoro, le caratteristiche del monolocale in uso all’imputata, le caratteristiche dell’edificio in cui era ubicato detto monolocale, l’intervenuta ospitalità della H., su richiesta del W..

Motivi della decisione

Il ricorso proposto dal B. è inammissibile, poichè si regge su motivi manifestamente infondati. In primo luogo va dato atto che i giudici di merito hanno con motivazione congrua valutato il racconto della persona offesa in termini di assoluta credibilità, poichè numerosi sono stati ritenuti gli elementi esterni a conforto del suo narrato, a cominciare dalle tumefazioni al polso destro, alla mano ed al polso sinistro presentate, significative di costrizioni, per passare al dato ginecologico, valutando poi i riscontri offerti dai tabulati telefonici, a comprova del suo coatto girovagare per l’Italia, in uno con la contraddittorietà ed inconsistenza delle versioni difensive degli imputati, da quanto rinvenuto nella abitazione del B. in sede di perquisizioni. Non potevano portare a valutazioni difformi gli argomenti spesi dalla difesa, peraltro di natura prettamente fattuale, secondo cui sarebbe incongruo il racconto della vittima, laddove ha riferito di essere stata portata su mezzi pubblici e in locali pubblici, addirittura costretta a spacciare monete false, posto che la condizione di soggezione della giovane era tale da indurre, così come è stato sottolineato nelle due sentenze di merito, i suoi carcerieri a confidare sulla sua più assoluta obbedienza agli ordini impartiti, senza temere alcuna reazione da parte di lei: nella sentenza impugnata, a pag. 16, si legge che nel corso dell’intero sequestro la giovane non fu mai lasciata sola e venne costantemente controllata ed intimidita affinchè non parlasse con alcuno. Quanto poi al fatto che la stessa, una volta liberata, abbia avuto difficoltà a tornare a casa ed abbia preferito rivolgersi ad un cugino, cui nascose la brutta esperienza vissuta, i giudici di merito hanno fornito ampia e plausibile motivazione della scelta operata dalla stessa a pag. 15 e segg. della sentenza impugnata, che non si presta ad alcuna censura di manifesta illogicità.

Il mancato riconoscimento della diminuente di cui all’art. 116 cod. pen. è stato poi adeguatamente motivato in ragione della partecipazione attiva, in prima persona dell’imputato nei vari passaggi della sequenza che ha segnato i giorni di prigionia della giovane ragazza, dal momento della consumazione della rapina presso il negozio del padre e del suo rapimento, al suo trasferimento in treno a Perugia, presso la sorella dell’imputato, all’accompagnamento a Milano, attività tutte che non possono che essere spiegate come strumentali e finalizzate alla riscossione del riscatto: dunque è del tutto errato affermare, come si sostiene, che la consapevolezza della finalità estorsiva nel B. sarebbe stata erroneamente inferita dal collegio dalla sola circostanza che il negozio del padre venne fatto oggetto di rapina, posto che la motivazione è stata molto più articolata, non presenta salti logici quale quello lamentato e risulta in piena aderenza alle emergenze processuali.

In tale cornice, a fronte di una partecipazione così significativa nell’economia della realizzazione delittuosa, l’apporto offerto dall’imputato non poteva essere ritenuto in termini di minima importanza, se non a costo di fare violenza ai dati processuali, correttamente recepiti dai flussi informativi riversati nei giudizi di merito .

Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso deve seguire la condanna al pagamento delle spese del procedimento e di somma che congruamente si determina in Euro 1000, 00 a favore della cassa delle ammende, giusto il disposto dell’art. 616 c.p.p., così come deve essere interpretato alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 186/2000.

Diverso è invece il discorso per la D., la cui impugnazione è fondata e va accolta. La prova decisiva su cui la Corte territoriale (e prima ancora il gup) ha fondato il suo convincimento sulla piena consapevolezza della D. che fosse in corso un sequestro di persona a danno della H., ma soprattutto che detto sequestro fosse a scopo di estorsione, è la telefonata che l’imputata avrebbe fatto al padre della sequestrata, telefonata con cui venne apertamente chiesto il pagamento del riscatto.

Va premesso che corretto è stato l’aver ritenuto che la D. ebbe ad "ospitare" la giovane, seguita a vista dal W. durante il giorno ed affidata alle sue attenzioni durante la notte;

altrettanto legittimo è stato l’aver ritenuto che la D. fosse stata responsabilizzata sulla necessità di tenere chiusa la porta di ingresso dell’abitazione, onde evitare che la giovane potesse scappare, poichè in tale senso furono le indicazioni della H., che ebbe ad ascoltare le raccomandazioni dei suoi sequestratori. Altrettanto certo è che la telefonata pervenuta al padre della vittima, il 19 settembre 2002 con l’esplicita richiesta di dieci milioni di lire per ottenere la liberazione della figlia, parti da una cabina telefonica ubicata nei pressi dell’abitazione dell’imputata, come è stato evidenziato dai giudici di merito: tutti questi dati che hanno costituito la base inferenziale del ragionamento probatorio dei giudizi di merito sono sicuramente stati correttamente recepiti dalle carte processuali.

Non così si può dire invece quanto al profilo dell’identificazione della donna che formulò la richiesta del riscatto, atteso che nel pomeriggio del 19 settembre due furono le telefonate giunte a casa dell’ A.: secondo il racconto di quest’ultimo, di cui vi è trascrizione agli atti, premesso che due furono i contatti a distanza di mezz’ora/un quarto d’ora l’uno dall’altro, la richiesta del riscatto sembra sia intervenuta nella seconda telefonata, quando l’interlocutrice parlò con la moglie e la fece parlare con la H.. Dal racconto di quest’ultima però si è appreso che la D., dopo il primo contatto di cui fu autrice e nel corso del quale chiese di parlare con la mamma della giovane che era momentaneamente assente da casa, si allontanò dalla cabina telefonica, cosicchè la seconda telefonata, quella più compromettente, venne operata da altra donna, a nome F., non in presenza della D..

Come è stato sostenuto dalla difesa e come è stato argomentato dallo stesso Procuratore generale in sede di discussione, l’attribuzione alla D. della telefonata di richiesta del riscatto non sembra trovare un riscontro nelle emergenze indicate con attitudine dimostrativa dalla sentenza impugnata; il fatto che sia stato particolarmente valorizzato il dato della telefonata – elevato a vera e propria pietra angolare dell’impalcato probatorio, addirittura decisiva sotto il profilo del fine estorsivo e illuminante degli altri indizi quanto al consapevole coinvolgimento dell’imputata nella privazione di libertà della persona offesa – laddove tale dato non risulta correttamente recepito, impone l’annullamento parziale della sentenza, per un nuovo esame della posizione dell’imputata che non ricada nel censurato travisamento della prova.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti della D. e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della corte d’Appello di Napoli.

Dichiara inammissibile il ricorso del B. che condanna al pagamento delle spese processuali ed al pagamento della somma di Euro 1.000, 00 (mille) alla cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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