Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 20-10-2011) 24-11-2011, n. 43317

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 10.12.2009, il Tribunale di Milano dichiarava C.F. e B.M. colpevoli dei reati di estorsione in danno di Co.Fr. (capo A della rubrica accusatoria), e tentata estorsione (in concorso con un terzo soggetto), in danno di M.M. (capo C); il solo C., inoltre, dei reati di tentata estorsione in danno di Co.Fr. (capo B) e in danno di L.R.A. (capo E), e lo condannava alla pena complessiva di anni tre e mesi otto di reclusione ed Euro 800 di multa, oltre la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.

Le modalità dei fatti contestati dall’accusa, riproponevano costantemente lo stesso schema operativo; il C. si procurava immagini fotografiche delle presunte vittime, ritenute più o meno "compromettenti", e ne offriva la restituzione agli interessati dietro compenso, perchè ne fosse evitata la pubblicazione giornalistica.

2. Su gravame dell’imputato la Corte di Appello di Milano, con sentenza del 2.12.2010, in riforma della sentenza appellata, pronunciò l’assoluzione del C. dai reati di cui ai capi A) e C) perchè il fatto non sussiste, dichiarando per questi capi l’effetto estensivo della sentenza nei confronti di B.M., la cui impugnazione era stata ritenuta inammissibile perchè non corredata da motivi a sostegno; unificati per continuazione i residui reati sotto il reato di cui al capo E), ritenuto più grave, ridusse quindi la pena inflitta al C. ad anni uno, mesi cinque di reclusione ed Euro 300 di multa, con la revoca delle pene accessorie.

3. I giudici di appello procedevano dalla ricostruzione del quadro normativo rilevante ai fini dell’identificazione dei criteri di contemperamento tra il diritto di ciascuno all’immagine, alla riservatezza, all’onore al decoro e alla reputazione, e il diritto all’informazione.

Richiamavano, quanto al diritto all’immagine, la L. 22 aprile 1941, n. 633, artt. 96 e 97 e l’art. 10 cod. civ.; quanto al diritto alla riservatezza, gli artt. 614, 615 e 615 bis c.p. sull’inviolabilità del domicilio, l’art. 14 Cost., e le più recenti normative di tutela (la L. n. 675 del 1996; il D.Lgs. n. 171 del 1998; D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, sul trattamento dei dati personali); quanto al diritto alla reputazione, gli artt. 595, 596 e 596 bis c.p., la Legge sulla Stampa 8 febbraio 1948, n. 47 e la Legge sul Sistema Radiotelevisivo 6 agosto 1990, n. 223, e sottolineavano alcuni importanti arresti della giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. 1 civile, n. 1503 del 6.2.1993; sez. 3 civile n. 8838 del 13.4.2007; 1 sez. civile 21172 del 29.9.2006; 3 sez. civile n. 6507 del 10.5.2001) che avevano definito, nel loro complesso, il sistema di interazioni tra gli opposti interessi implicati nella materia, muovendo dalla premessa fondamentale secondo cui la diffusione di immagini di persone note può ritenersi lecita soltanto se corrisponda ad esigenze di pubblica informazione.

3.1 I principi essenziali elaborati dalla giurisprudenza richiamata dalla corte territoriale sono i seguenti:

– anche gli aspetti della vita privata di persone famose nel campo dello sport o dell’economia rientrano nell’interesse pubblico che giustifica la loro diffusione qualora abbiano riflessi sull’attività dei soggetti medesimi.

– la divulgazione di immagini è lecita solo quando sia rivolta a fini di pubblica informazione e non anche, ad es., a fini pubblicitari;

– è comunque abusiva la esposizione o la pubblicazione dell’immagine quando sia tale da arrecare pregiudizio all’onore, alla reputazione o al decoro della persona ritratta;

– il diritto alla reputazione è un diritto perfetto, che va inquadrato nel sistema di tutela costituzionale della persona umana, trovando in particolare fondamento normativo nell’art. 2 Cost.. A quest’ultimo riguardo, peraltro, i giudici di appello rilevavano che il diritto alla reputazione trova importanti deroghe nella possibilità di provare la verità del fatto attribuito all’interessato, prevista dall’ari. 596 c.p. e va comunque contemperato con l’esercizio del diritto di cronaca e di critica, la cui efficacia esimente è da tempo normativamente consolidata.

3.2 Con specifico riferimento alle modalità delle condotte di reato in contestazione, i giudici di appello rilevavano, sempre in conformità alle valutazioni del tribunale, che nelle ipotesi in cui sia offerto all’interessato il ritiro delle immagini che lo riguardano, la semplice violazione delle norme di tutela della persona sopra richiamate non è condizione nè necessaria nè sufficiente ai fini dell’integrazione del reato di estorsione. Da un lato, infatti, la condotta estorsiva potrebbe essere realizzata anche mediante immagini acquisite e pubblicabili lecitamente, qualora chi ne sia in possesso intenda utilizzarle per fini diversi dalla loro diffusione, l’utilizzo delle fotografie per la vendita alle persone coinvolte non essendo nè tutelata nè consentita dalle norme in materia; dall’altra la proposta di ritiro deve rivestire in concreto i caratteri della minaccia.

Alla stregua di tali principi, l’illecito penale si consumerebbe quindi comunque quando lo scopo perseguito non sia quello consentito, anche se la minaccia consista nella prospettazione di far valere un diritto, perchè in questo caso non è in realtà perseguita la soddisfazione del diritto, ma la realizzazione di un profitto illecito.

3.3. In applicazione del sistema di norme e di principi definito in via generale, la Corte rilevava quindi, sulle singole imputazioni;

– quanto all’estorsione di cui al capo A), che le immagini che ritraevano il Co. il atteggiamento affettuoso con una donna all’interno dell’androne dell’edifico che ospita la discoteca (OMISSIS) non potevano ritenersi particolarmente compromettenti, nè pregiudizievoli per la sua carriera o comunque per la sua immagine di calciatore, considerate le circostanze e la particolare situazione personale del Co. all’epoca dei fatti; doveva quindi ritenersi che il Co. avesse deciso di ritirare le fotografie per libera scelta, non in una situazione di effettiva coazione della sua volontà;

– analogamente doveva affermarsi quanto al reato di cui al capo B. Il M. era stato ritratto mentre si divertiva a fare il disk Jokej, le foto erano state scattate in un’occasione "pubblica", nessun pregiudizio poteva derivargli dall’essere stato ritratto in atteggiamento soltanto amichevole con una pornostar peraltro in quel caso sobriamente abbigliata, e insieme alla quale egli aveva assunto il ruolo di testimonial a favore dell’impresa di intrattenimento che aveva organizzato la serata; il collegamento tra quella serata e la non felice prestazione sportiva della persona offesa in un successivo gran premio motociclistico era oggettivamente inesistente, e la possibile insinuazione dipendeva dalla volontà dell’editore che avesse potuto comprare le foto se non fossero state ritirate.

4. La Corte territoriale confermava invece il giudizio di responsabilità dell’imputato in ordine alle altre imputazioni, ritenendo pienamente integrati gli estremi dei reati ascritti al C. per la sostanziale diversità dei fatti e per la concreta menomazione della libertà di scelta delle vittime.

4.5 Per quel che riguarda la tentata estorsione in danno del Co. di cui al capo B), la Corte di merito rilevava anzitutto l’ininfluenza della decisione della persona offesa di sottrarsi al ricatto assumendo personalmente l’iniziativa di far pubblicare su una rivista di "gossip" le foto che lo ritraevano a torso nudo all’interno di un locale notturno affiancato ad un soggetto abbigliato in modo analogo e che aveva fama di essere gay. Si trattava, secondo i giudici di appello, di immagini potenzialmente compromettenti per il calciatore, perchè potevano suscitare nel pubblico l’opinione di una vita sregolata incompatibile con l’attività sportiva, e perchè, realisticamente, nell’ambiente delle tifoserie calcistiche anche la frequentazione di un gay sarebbe stata valutata negativamente.

4.6 In ordine alla tentata estorsione in danno dell’ A., la Corte di merito rilevava anzitutto che la stessa iniziativa della pubblicazione sarebbe stata in sè antigiuridica, trattandosi di foto scattate all’interno della privata dimora del calciatore, e non risultando che l’interessato avesse mai prestato il proprio consenso alla pubblicazione delle immagini, constando soltanto del suo rifiuto di pagarle per sottrarle al mercato giornalistico. D’altra parte doveva ritenersi che dalla pubblicazione delle foto l’ A. avrebbe subito un effettivo pregiudizio, non tanto per l’improbabile equivoco sull’effettiva natura del sale sparso su un tavolo, che non avrebbe potuto essere scambiato per cocaina, ma per le pose in cui egli era raffigurato, seminudo nel corso di una festa con donne altrettanto succintamente abbigliate, in circostanze in cui le possibili implicazioni sessuali erano accentuate dall’immagine di una ragazza che puntava un obiettivo fotografico verso le parti intime del giocatore.

5. Ha proposto ricorso per cassazione il C. per mezzo del proprio difensore, deducendo quattro motivi.

1) Inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 629 c.p., mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell’ingiustizia del profitto. La difesa contesta la linea di demarcazione seguita dalla Corte territoriale per l’individuazione di connotati di illiceità penale nelle condotte del C. con riferimento, in particolare, alla prospettazione di conseguenze negative per l’interessato nel caso dell’eventuale pubblicazione di servizi fotografici. La questione dovrebbe essere risolta a monte, valutando se le immagini siano state ritratte nel rispetto delle condizioni che le rendessero pubblicagli. Verificata l’esistenza di dette condizioni, dovrebbe concludersene che l’immagine pubblicarle diventa senz’altro un’immagine commerciabile, indipendentemente dalla sua effettiva utilizzazione. La tesi accolta dalla Corte territoriale comporterebbe poi conseguenze paradossali, derivandone in sostanza un inammissibile obbligo di pubblicazione per il giornalista che ne entri in possesso, con l’ulteriore conseguenza della incongrua forzatura dell’interesse pubblico che giustifica la diffusione di immagini di personaggi noti, nessuna norma vietando peraltro all’interessato di riappropriarsi della propria immagine.

Nel caso del ritiro delle foto, insomma, il fotografo non fa che conseguire dall’interessato il compenso che comunque ritrarrebbe dalla testata giornalistica, senza che la destinazione finale delle immagini possa incidere sulla legittimità del profitto.

2) Inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 629 c.p., mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell’elemento della minaccia. La connotazione intimidatoria delle condotte del C. era stata ravvisata dal giudice di primo grado nell’insinuazione dell’imputato che le immagini ritratte potessero essere percepite dal pubblico in modo distorto e peggiorativo rispetto alla realtà, senza considerare che tale effetto poteva conseguire soltanto dall’iniziativa di terzi (i responsabili delle testate che avessero acquistato le foto), con la conseguente esclusione del presupposto tipico della minaccia estorsi va, cioè l’ipotesi che l’avverarsi del male minacciato dipenda dal soggetto attivo del reato.

Alla stregua delle argomentazioni del tribunale, quindi, nei fatti avrebbero potuto essere ravvisati, al più, gli estremi del reato di truffa. La Corte territoriale si era però mossa in una prospettiva radicalmente diversa, affermando che la minaccia si sostanzierebbe nella pura e semplice prospettazione della pubblicazione delle immagini, come alternativa al loro ritiro da parte dell’interessato, indipendentemente dall’ingiustizia del danno derivato o derivabile dal reato, contando solo l’ingiustizia del profitto conseguito o perseguito dall’agente.

In punto di diritto, tale affermazione comporterebbe l’inammissibile corollario di una diversa accezione della minaccia nelle due previsioni normative dell’art. 612 e dell’art. 629 c.p. e peraltro la giurisprudenza di legittimità non sarebbe sul punto nemmeno concorde, quella citata dai giudici di appello facendo riferimento ad un caso con caratteristiche del tutto diverse. In definitiva, la Corte di merito si sarebbe erroneamente allineata al filone giurisprudenziale che ritiene al limite compatibile, in relazione alle concrete modalità del fatto, la minaccia estorsiva con la prospettazione, da parte dell’agente, dell’esercizio di un diritto, senza avere nemmeno individuato il profilo di intrinseca ingiustizia che nella specie avrebbe dovuto caratterizzare le condotte coinvolte nel giudizio finale di condanna.

3) mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta coartazione delle vittime. I giudici di appello avevano adottato, come punto di riferimento al riguardo nella giurisprudenza di legittimità, la sentenza di questa Corte suprema, sez. 2, n. 12749 del 19.12.2008, Grandone. Sennonchè la pronuncia fissava due principi che la Corte di merito avrebbe trascurato e, cioè 1) che la minaccia non può dirsi sussistente quando non è relazionabile ad un fatto obiettivamente intimidatorio, in quanto cioè non sia riferita all’imminenza di danni o pericoli reali e diretti; 2) che il delitto di estorsione non è configurabile se il destinatario della pretesa vessatoria non si trovi nelle condizioni di dover adempiere a quanto richiesto come unico modo per evitare un pregiudizio diretto e immediato. Le foto di cui si discute avrebbero pertanto dovuto avere un contenuto talmente lesivo della reputazione dei soggetti ritratti, da risultare ictu oculi foriero di un danno o pericolo reale e diretto per gli interessati. Ma le conclusioni della Corte riguardo alla sussistenza di tali requisiti nei fatti di cui ai capi B) ed E) sarebbero illogiche e apodittiche.

Nel caso della tentata estorsione in danno del Co. (capo B) l’unica notizia oggettivamente rilevabile dalle immagini sarebbe stata quella delle abitudini notturne del giocatore di frequentatore di discoteche, abitudini peraltro notorie. Del tutto ingiustificata sarebbe invece l’affermazione della potenziale carica denigratoria, per la persona offesa, dell’essere stato ritratto a torso nudo accanto ad un amico, in assenza di atteggiamenti sessualmente caratterizzati, anche a prescindere dal rilievo che le presunte preferenze omosessuali del soggetto ritratto insieme al Co. non potevano certo considerarsi di diffusa conoscenza presso un qualunque pubblico di lettori. E proprio l’innocuità delle immagini, riprese in un contesto di assoluta trasparenza, innanzi ad una moltitudine di gente, nel corso di una festa a tema aperta al pubblico spiegherebbe l’iniziativa del Co. di vendere egli stesso le foto ad un giornale scandalistico, senza ricorrere alla denuncia dei fatti all’autorità giudiziaria. La valutazione della condotta del Co. sarebbe infine in contrasto con le opposte conclusioni a cui la Corte di merito era pervenuta nel caso che vedeva coinvolto il M., ritratto accanto ad una pornostar. Analoghe considerazioni varrebbero relativamente alla tentata estorsione in danno dell’ A., in definitiva ritratto in occasione di una innocente grigliata estiva, avendo oltretutto la Corte di merito forzato i termini concreti della vicenda con la considerazione dell’abbigliamento dei convenuti, definiti "seminudi", mentre la persona offesa e le ragazze che lo circondavano, erano abbigliati piuttosto con i capi leggeri adatti alla circostanza. I giudici di appello avrebbero inoltre trascurato che le foto furono subito esibite alla società di appartenenza del giocatore, che nella logica dell’accusa avrebbe dovuto essere tenuta all’oscuro di una riunione presuntivamente scabrosa. Ma la Corte di merito sarebbe anche incorsa in un vero e proprio travisamento dei fatti, riguardo al rilievo "sintomatico" attribuito alla particolare esosità delle richieste economiche del C., asseritamente ben maggiori che nelle altre occasioni, perchè da nessuna delle risultanze istruttorie disponibili risulterebbe che l’imputato avesse mai quantificato il corrispettivo preteso. L’importo di 30 o 40 mila Euro sarebbe stato indicato dall’imputato solo dopo il naufragio delle trattative, ala stregua di una valutazione ex post.

4) Inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 56 c.p. in punto di ritenuta idoneità degli atti. L’asserita minaccia imputata al C. non soddisferebbe la soglia minima di idoneità che la norma citata richiede, ossia che le concrete circostanze di luogo, di tempo o di mezzi evidenzino non solo che l’agente commetterà il delitto programmato a meno del sopravvenire di eventi imprevedibili indipendenti dalla sua volontà, ma che l’azione abbia la rilevante possibilità di conseguire il suo scopo. Tanto dovrebbe escludersi in entrambi i casi oggetto delle imputazioni sub B) ed E), perchè l’imputato aveva sempre lasciato in visione ai diretti interessati le immagini in suo possesso, senza nemmeno pretendere risposte immediate e d’altra parte le foto non avevano un’oggettiva valenza coercitiva, trattandosi di scatti assolutamente neutri. Ad ulteriore illustrazione di quest’ultimo motivo la difesa ha inoltre presentato motivi aggiunti.

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato.

1 La sentenza di appello ricorda le linee fondamentali dell’elaborazione giurisprudenziale sui limiti di compatibilità del diritto di cronaca con la tutela del diritto della persona all’immagine e alla reputazione e ricostruisce sinteticamente il complesso sistema di norme volto a definire e presidiare quei limiti.

La ricostruzione rimane in parte priva dei necessari approfondimenti, specie, come si vedrà, sotto il profilo del danno provocato all’interessato dalla diffusione dei suoi dati personali, ma da comunque ragione delle conclusioni dei giudici di appello sul tema della responsabilità penale riguardo ai capi di condanna (qualunque perplessità sui capi di assoluzione essendo ormai rilevabile solo incidentalmente come termine di contrapposizione logica al corretto percorso argomentativo).

1.1 I giudici territoriali, pur muovendo dalla completa considerazione del quadro normativo di riferimento, finiscono poi in sostanza per attestarsi sul criterio "tradizionale" del contenuto oggettivamente denigratorio della diffusione di notizie o immagini della vita privata di taluno, come criterio dirimente ai fini dell’identificazione di connotati di illiceità penale nella condotta del colpevole, con ciò sostanzialmente rimanendo ancorati ai predicati normativi più risalenti in materia di tutela del diritto all’immagine (vedi, soprattutto, i riferimenti alla L. 22 aprile 1941, n. 633, artt. 96 e 97; e agli artt. 595, 596 e 596 bis c.p., e alla Legge sulla Stampa 8 febbraio 1948, n. 47) E’ conseguente, nelle valutazioni della Corte di merito, l’accentuazione dell’importanza dell’aspetto del danno all’onore o alla reputazione che le persone offese avrebbero derivato dalla diffusione delle immagini che le riguardavano, che sarebbe mancato nei casi considerati dalle imputazioni sub A) e C); sarebbe ravvisabile, invece, nei fatti oggetto delle imputazioni sub D) ed E).

1.2 Peraltro, le valutazioni della Corte di merito nemmeno sembrano del tutto coerenti con la le linee guida adottate. Nel caso del M., ad es., la frequentazione di locali notturni chiaramente esplicitata dalle foto, viene infatti considerata alla stregua di un dato sostanzialmente indifferente perchè riferibile ad un evento di troppo anteriore alla gara automobilistica in cui l’interessato aveva offerto una modesta prestazione, per ritenere che l’infelice prova sportiva fosse stata condizionata da precedenti notti mondane; nel caso della tentata estorsione di cui al capo B), invece, la partecipazione del Co. ad eventi notturni viene assunta dai giudici come possibile indice di una vita sregolata, capace di compromettere la credibilità professionale del calciatore.

2. In realtà, la Corte territoriale non considera che il danno alla reputazione o all’onore che possa ricollegarsi alla diffusione delle immagini di una persona senza il consenso dell’interessato, non è elemento necessariamente condizionante nè della tutela civilistica (vedi l’art. 10 c.c., che in assenza di danni per il decoro e la reputazione accorda comunque all’interessato una tutela interdittiva), nè, per quel che qui soprattutto interessa, della stessa rilevanza penale della condotta di abuso. Invero, nella più recente legislazione in materia, si è ormai affermato il principio che nessuno possa essere espropriatole non a determinate condizioni e in vista del soddisfacimento di interessi altrettanto meritevoli di tutela, del diritto esclusivo di disporre della propria immagine come di ogni altro dato personale, intesi i dati oggetto di protezione nel senso più ampio (cfr. L. 31 dicembre 1996, n. 675, art. 2, lett c, dove la precisazione che per "dato personale", debba intendersi "qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione…….". 2.1. L’ampiezza della tutela è confermata nei suoi riflessi penalistici, dalla ricognizione dei contenuti normativi del successivo art. 35, intitolato al trattamento illecito di dati personali, che punisce con la reclusione sino a due anni o, se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da tre mesi a due anni, la condotta di chi al fine di trame per sè o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli artt. 11, 20 e 27, e con la reclusione da tre mesi a due anni la condotta di chi, al fine di trame per sè o per altri profitto o di recare ad altri un danno, comunica o diffonde dati personali in violazione di quanto disposto dagli artt. 21, 22, 23 e 24, ovvero del divieto di cui all’art. 28, comma 33; stabilendo un aggravamento della pena se dai fatti "deriva nocumento". L’inserimento della prospettiva del danno (al pari del fine di profitto), negli aspetti psicologici della fattispecie, a caratterizzare una forma di dolo specifico, e la previsione come semplice circostanza aggravante del nocumento effettivo che derivi all’interessato dalla condotta incriminata, non altro stanno a significare, appunto, che nella fattispecie di reato la tutela penale è attivata già dalla sola comunicazione o diffusione non autorizzata di dati personali altrui per gli scopi tipicamente previsti dalla norma, mentre il danno rimane estraneo alla struttura oggettiva del reato, in quanto, ovviamente, inteso come conseguenza pregiudizievole della condotta del reo distinta e diversa dalla lesione del diritto alla riservatezza invariabilmente tutelato. Conviene aggiungere che a parte aspetti normativi specifici, valgono in generale tanto per la semplice comunicazione o diffusione di dati personali altrui non (altrimenti) pregiudizievoli per l’interessato, che per la diffusione di contenuti denigratori, le stesse istanze di contemperamento dei diritti della persona con altri interessi normativamente predeterminati, tra i quali, per quel che qui specificamente interessa, quelli legati al diritto all’informazione.

3. Nel sistema di tutela "avanzata" delineato nella L. 31 dicembre 1996, n. 675 e succ. modd., il trattamento di dati particolari nell’esercizio della professione di giornalista è regolato dall’art. 25, secondo cui le disposizioni relative al consenso dell’interessato e all’autorizzazione del Garante, nonchè il limite previsto dall’art. 24, non si applicano quando il trattamento dei dati di cui agli artt. 22 e 24 è effettuato nell’esercizio della professione di giornalista e per l’esclusivo perseguimento delle relative finalità.

Il giornalista rispetta i limiti del diritto di cronaca, in particolare quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico, ferma restando la possibilità di trattare i dati relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dall’interessato o attraverso i suoi comportamenti in pubblico.

3.1 La rigorosa limitazione della deroga alla tutela della privacy quando sia in questione l’interesse pubblico legato all’informazione giornalistica è testualmente (e plasticamente) espressa dall’inciso relativo all’esclusività del perseguimento delle finalità giornalistiche come condizione della legittimità della diffusione di dati personali in assenza dell’autorizzazione dell’interessato.

Ciò significa, come esattamente rileva la Corte territoriale, che non sono date alternative alla pubblicazione giornalistica di dati personali altrui come forma di utilizzazione commerciale delle informazioni da parte di chi ne sia venuto in possesso, mentre l’equazione pubblicabilità-commerciabilità delle immagini, sostenuta dalla difesa, comporterebbe invece la dilatazione dei limiti di comunicazione-diffusione di dati personali altrui espressamente previsti dalla legge, fino ad una sostanziale libertà di offerta del prodotto ad un pubblico indeterminato di possibili acquirenti. L’allargamento dell’area di contendibilità commerciale di "prodotti" riguardanti la persona comporterebbe evidenti effetti distorsivi in un mercato in cui sono implicati essenziali valori umani (tanto che persino il diritto all’informazione subisce dei limiti, secondo principi di essenzialità e di "continenza", superati i quali va riaffermata la rilevanza penale del fatto; cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 17215 del 17/02/2011), non essendo quindi consentito al possessore dell’informazione "sensibile" di lucrare i vantaggi del coinvolgimento, nella possibile competizione, del diretto interessato, e di sfruttare, nel versante "privato", le variabili percezioni soggettive della potenziale dannosità della diffusione dei propri dati personali, in un ambito in cui la motivazione all’acquisto sarebbe inevitabilmente condizionata da comprensibili aspetti emotivi.

3.2 In questo senso, appare francamente incongrua la valutazione, da parte della Corte di merito, della "neutralità" della somma di ben 6000 Euro sborsata dal Co. per rientrare in possesso delle fotografie oggetto dell’imputazione sub A), perchè il fatto che l’importo corrispondesse al prezzo delle foto sul mercato giornalistico è del tutto irrilevante, considerando che un soggetto abituato alla notorietà mediatica non avrebbe avuto alcun motivo di affrontare un impegno economico non indifferente per evitare la pubblicazione di una delle sue tante immagini, se non per la preoccupazione di ricavare un qualunque pregiudizio dalla loro diffusione, e non essendo inoltre in alcun modo paragonabile l’interesse commerciale di una testata giornalistica, all’interesse personale di un "privato". La circostanza che il Co. si sia indotto all’acquisto a quelle condizioni onerose, conferma piuttosto gli indebiti vantaggi che il possessore di dati personali altrui può ritrarre dall’allargamento della competizione commerciale per l’acquisto del prodotto oltre i limiti di utilizzazione previsti dalla legge.

4. In conclusione, l’unica alternativa alla diffusione, nel circuito mediatico, di immagini di personaggi noti, in assenza dell’autorizzazione degli interessati, è costituita dalla rinuncia alla loro utilizzazione, e ogni diverso tentativo di utilizzazione integrerà un abuso punibile ai sensi della L. n. 671 del 1996, art. 35 (oggi D.Lgs n. 196 del 2003 art. 167). Ma, se così è, il riferimento al diritto di pubblicare le immagini, previsto dalla L. 31 dicembre 1996, n. 675 e succ. modd., art. 25, non può essere invocato come esimente nel momento in cui esso non viene esercitato per gli scopi consentiti dalla legge, ma al contrario per scopi dalla legge chiaramente vietati con la formula dell’"esclusività" dell’utilizzazione giornalistica.

5. Ma anche il profilo del "danno", va riguardato con riferimento alle specifiche ragioni della tutela normativa dei dati personali e del diritto di ciascuno all’immagine.

Non è affatto implausibile, al riguardo, che proprio la considerazione dei pressochè inevitabili margini di scarto tra la possibile pericolosità "percepita" della diffusione dei propri dati personali da parte del diretto interessato, e la verificabilità oggettiva del danno, giustifichi la limitata rilevanza che la legge attribuisce al "nocumento" effettivo che derivi all’interessato dalla diffusione non autorizzata dei suoi dati personali. E’ vero però, soprattutto, che l’immagine di una persona può nei congrui casi subire un pregiudizio per effetto di condotte altrui, anche se la condotta lesiva non si esprima in termini di offesa alla reputazione attraverso l’attribuzione di fatti idonei a suscitare giudizi sociali di indegnità. La giurisprudenza di questa Corte non ha infatti mancato di sottolineare che oggetto di tutela nell’ordinamento giuridico vigente, è anche l’interesse della persona, fisica o giuridica, a preservare la propria identità personale, nel senso di immagine sociale, cioè di coacervo di valori (intellettuali, politici, religiosi, professionali ecc.) rilevanti nella rappresentazione che di essa viene data nella vita di relazione, nonchè, correlativamente, ad insorgere contro comportamenti altrui che menomino tale immagine pur senza offendere l’onore o la reputazione, e ciò anche alla stregua di specifici principi costituzionali (vedi, amplius, Cassazione penale sez. 5, 16 giugno 2011, Numero: n. 37383).

6. Venendo al caso di specie, è agevole anzitutto rilevare che la peculiare condizione personale del Co. e dell’ A., entrambi comunque esposti e ampiamente adusi, per la loro notorietà, ad una ovvia esposizione mediatica, implicava già che il C. non avrebbe potuto certo sperare di collocare le foto presso i diretti interessati a prezzi certamente non da saldo, se non in quanto i dati personali desumibili dalle immagini si prestassero in concreto, in qualunque misura, a letture maliziose e potenzialmente pregiudizievoli rispetto alla rappresentazione di entrambi nel pubblico come seri professionisti dello sport.

6. E in concreto, una potenzialità dannosa nella prospettiva della pubblicazione giornalistica delle foto, è costantemente rilevabile in tutti i fatti ascritti al C., dal momento che le foto che costui vendette o cercò di vendere ai diretti interessati, riguardavano soggetti professionalmente impegnati in attività sportive che potevano avere interesse a proporre di sè al pubblico un’immagine pienamente conforme alle sobrie abitudini di vita congeniali a chi deve massimizzare la propria forma fisica, immagine che poteva essere offuscata, al contrario, dalla rivelazione "pubblica" di abitudini di vita sospette di sregolatezza. E come attitudine ad una certa sregolatezza di vita nella direzione dell’abbandono ad eccessi comportamentali non compatibili con la sobrietà di costumi richiesta ad uno sportivo potrebbe essere valutata anche la "posa" del Co. insieme ad un amico, entrambi ritratti a torso nudo, all’interno di una discoteca, apparendo invece alquanto problematica la valutazione del possibile pregiudizio che sarebbe potuto derivare alla "reputazione" del Co. dalla frequentazione di un gay, sia perchè sarebbe tutta da dimostrare la notorietà degli orientamenti sessuali (peraltro in sè assolutamente indifferenti) dell’amico della persona offesa, sia per l’arbitrarietà della formulazione della massima di esperienza secondo cui negli ambienti delle tifoserie calcistiche dominerebbero tendenze omofobe. Tali considerazioni consentono di ritenere completamente illogica – e, ciò, va osservato per inciso attesa la non impugnazione del P.G. in ordine all’assoluzione del reato di cui al capo A) – l’ulteriore argomentazione del Giudice di merito posta a base dell’assoluzione secondo cui "la immagine professionale del Co. non avrebbe subito alcun danno dalla pubblicazione di quelle foto o, comunque, un danno estremamente limitato …" perchè "non stava giocando e non poteva neppure allenarsi, così che l’influenza della vita notturna sul suo rendimento quale calciatore era praticamente inesistente". 7. Depurato dall’improprio e comunque non necessario riferimento alla "reputazione" degli interessati, il percorso argomentativo della sentenza impugnata appare infine condivisibile, nella conferma del giudizio di responsabilità del C. per i reati di cui ai capi B) ed E). D’altra parte, le deduzioni difensive appaiono in larga parte contaminate da apprezzamenti di merito, come riguardo alla effettiva natura dell’occasione conviviale in cui era stato ritratto l’ A., o in merito al significato dell’iniziativa del Co. di far pubblicare lui stesso le immagini oggetto dell’imputazione sub B), trattandosi di questioni risolte dalla Corte di merito con valutazioni del tutto esenti da censure sul piano logico-giuridico; o fanno leva sulla considerazione che non potrebbe negarsi a chi sia esposto alla diffusione di proprie immagini fotografiche, di rientrarne in possesso, trattandosi di un aspetto del tutto ininfluente nella valutazioni del caso. Anche le questioni sull’idoneità del tentativo e sulla prospettiva del danno ingiusto che dovrebbe sorreggere la valutazione della configurabilità di un fatto estorsivo sono infine pregiudicate dalla identificazione della natura del pregiudizio ricollegabile alla lesione del diritto all’immagine e alla violazione dell’esclusiva disponibilità da parte dell’interessato, dei propri dati personali, in assenza di specifiche ipotesi derogatorie. E’ vero, poi, che nella specie, il C. avrebbe avuto il diritto di far pubblicare le foto in suo possesso, ma alla stregua dell’unica forma di utilizzazione economica consentitagli, mentre egli fece valere la prospettiva della pubblicazione come strumento di pressione sulle persone offese per ottenere senz’altro da loro un compenso per la restituzione delle foto, dovendosi quindi ritenere del tutto pertinente, contrariamente a quanto sostiene la difesa, il richiamo alla giurisprudenza consolidata di questa Corte secondo cui anche la prospettazione (all’apparenza legale), dell’esercizio di una facoltà o di un diritto spettante al soggetto agente diviene "contra ius" quando sia diretta ad ottenere scopi non consentiti o risultati non dovuti e non conformi a giustizia (cfr. ad es., Cass Sez. 2, n. 119 del 04/11/2009 Ferranti).

Alla stregua delle precedenti considerazioni, il ricorso va pertanto rigettato, con le conseguenti statuizioni sulle spese.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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