Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 08-06-2012, n. 9350 Conciliazione in sede sindacale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 18.8.2008, la Corte di Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava la nullità del termine apposto ai contratti stipulati dalla società Poste Italiane rispettivamente in data 24.2.2000 con F.G., in data 2.6.2000 con A.M.P., in data 3.5.1999 con S. S. ed in data 26.5.1999 con G.M., ed accertava che tra le parti si era costituito un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dalla scadenza dei rispettivi contratti, con condanna della società delle retribuzioni maturate dal 3.5.2002 quanto alla F., dal 24.11.2000 quanto alla A., dal 23.11.2000 quanto alla S. e dall’8.11.2000 quanto al G., nei limiti del triennio dalla cessazione dei rispettivi rapporti di lavoro.

La Corte territoriale rilevava l’efficacia non meramente ricognitiva degli accordi successivi a quello del 25.9.1997 in riferimento alla causale "esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione…" e la conseguente nullità del termine apposto ai contratti sopra menzionati, in difetto di strumento derogatorio collettivo, ritenendo soltanto per la S. che il contratto stipulato con quest’ultima il 10.3.1998 e la relativa proroga rientrassero nella clausola autorizzatoria collettiva e nei relativi limiti temporali.

Rilevava, altresì, che il tentativo obbligatorio di conciliazione rappresentava valido atto di messa a disposizione di energie lavorative dei prestatori di lavoro, cui ancorare la decorrenza dell’obbligazione risarcitoria per tutti gli appellanti, ad eccezione che per la F., per la quale, in mancanza di prova di atti di costituzione in mora precedenti, doveva aversi riguardo alla data di notifica del ricorso giudiziario, non potendo detrarsi (l’aliunde perceptum in presenza di deduzione affatto generica del datore di lavoro al riguardo.

Per la cassazione di tale decisione ricorre la società Poste Italiane, con due motivi, illustrati con memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. Resistono con controricorso gli intimati, che propongono ricorso incidentale sulla base di unico articolato motivo, ulteriormente chiarito con memorie.

I presenti giudizi, sospesi in attesa della decisione della Corte Costituzionale sulla questione di legittimità costituzionalità della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, sono pervenuti nuovamente alla trattazione del Collegio.

Motivi della decisione

Va, preliminarmente, disposta la riunione dei giudizi, ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

Si rileva che, in corso di causa, sono stati depositati verbali di conciliazione in sede sindacale relativi alla F. ed alla S. rispettivamente in data 9.10.2008 e 29.1.2009, concernenti la presente controversia, debitamente sottoscritti dalle interessate, oltre che dal procuratore speciale della società: dai suddetti verbali di conciliazione risulta che le parti hanno raggiunto un accordo transattivo complessivo concernente la controversia de qua, dandosi atto dell’intervenuta amichevole e definitiva conciliazione a tutti gli effetti di legge.

I suddetti verbali di conciliazione si palesano idonei a dimostrare la cessazione della materia del contendere ed il conseguente sopravvenuto difetto di interesse delle parti a proseguire il processo; alla cessazione della materia del contendere consegue, pertanto, la declaratoria di inammissibilità del giudizio, essendo, peraltro, venuto meno l’interesse ad agire, che deve sussistere non solo nel momento in cui è proposta l’azione o l’impugnazione, ma anche nel momento della decisione in relazione alla quale, ed in considerazione della domanda originariamente formulata, va valutato l’interesse ad agire (Cass S. U. 29.11.2006 n. 25278).

In definitiva, deve dichiararsi l’inammissibilità del ricorso anche incidentale, per intervenuta cessazione della materia del contendere con riguardo alla F. ed alla S., avuto riguardo al contenuto dell’accordo transattivo intervenuto tra le parti.

Tenuto conto della complessiva definizione conciliativa intercorsa tra le parti, le spese di lite del giudizio vanno compensate integralmente tra le stesse.

Con riguardo agli altri intimati – ricorrenti incidentali -, con il primo motivo, la società denunzia la violazione e falsa applicazione di norme in diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla L. n. 56 del 1987, art. 23 violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e segg., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè contraddittoria motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in ordine ad un punto decisivo della controversia, rilevando la natura non negoziale ma meramente ricognitiva degli accordi successivi a quello del 25.9.1997 e la erroneità della tesi della limitata efficacia temporale dell’accordo del 25.9.1997, interpretato in violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. e senza considerare gli accordi ulteriori, e limitandosi al senso letterale delle disposizioni. Evidenzia il permanere delle esigenze della ristrutturazione aziendale poste a fondamento della stipula dei contratti a termine, rispetto alle quali anche gli accordi successivi si configuravano come mere prese d’atto della perdurante situazione che aveva giustificato, secondo le parti sociali, il ricorso alle assunzioni a termine nel previsto ambito temporale. Formula, a conclusione della parte argomentativa del motivo, quesiti di diritto, con i quali domanda se si domanda, nei quesiti, a) se, in applicazione dei principi che regolano la successione dei contratti collettivi nel tempo, in termini di efficacia e validità, ad un accordo collettivo che integra il contratto collettivo con riguardo alla introduzione di una nuova ed ulteriore ipotesi di legittimo ricorso a contratto a termine deve riconoscersi valenza ed efficacia anche temporale, pari al contratto di cui costituisce integrazione;

b) se gli accordi ed i verbali intervenuti tra le parti successivamente al 25.9.1997 avevano natura ricognitiva; c) se doveva ritenersi la persistenza delle esigenze riorganizzative; d) se la posizione giuridica affermata in giudizio possa definirsi "diritto quesito" indisponibile dagli agenti contrattuali.

Con il secondo motivo, articolato sotto due profili, la società rileva la non idoneità della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione a configurare la mora accipiendi del datore di lavoro, dovendo verificarsi la prova della suddetta offerta di prestazioni lavorative in concreto e, con riguardo alla questione dell’aliunde perceptum, osserva come la prestazione di attività per terzi da parte del lavoratore dopo la scadenza del rapporto a termine, dedotta tempestivamente, non sia stata valutata adeguatamente dal giudice del merito, tenuto conto della natura risarcitoria e non già corrispettiva della somma da riconoscersi per il periodo intercorso dalla scadenza del termine alla riammissione in servizio. Chiede, in proposito, enunciarsi principio di diritto per il quale, per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore ha diritto al pagamento delle retribuzioni solo se abbia offerto espressamente la prestazione lavorativa e nel rispetto dell’art. 1206 c.c. e segg..

Con il primo motivo, viene dedotto che l’art. 8 del ccnl del 1994, così come integrato dall’accordo 25-9-97, subordinava la sua applicazione unicamente all’esistenza di un processo di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali dell’azienda, per cui l’interpretazione di tale accordo compiuta dalla Corte d’appello di Roma risulta viziata, oltre che dall’erronea lettura della L. n. 56 del 1987, art. 23 che ha condizionato, viziandola irrimediabilmente, anche la successiva esegesi della disciplina contrattuale, pure dall’autonoma e concorrente violazione delle regole ermeneutiche legali di cui all’art. 1362 c.c. e segg.

(ed in particolare del criterio letterale e del comportamento delle parti posteriore alla stipulazione).

Le censure non possono essere accolte.

In base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al D.Lgs. n. 368 del 2001), sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063,v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011).

"Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato." (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove, però, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive, la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23-8- 2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha più volte affermato, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v., fra le altre, Cass. 1- 10-2007 n. 20608, Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

Alla stregua di tale orientamento, ormai consolidato, deve quindi ritenersi illegittimo il termine apposto al contratto in esame per il solo fatto che lo stesso è stato stipulato dopo il 30 aprile 1998 ed è pertanto privo di presupposto normativo. Nè a diverse conclusioni può giungersi dall’esame dell’accordo del 18.1.2001, ovvero della disposizione di cui all’art. 25 del c.c.n.l. del 2001, pure invocati dalle Poste a sostegno del proprio assunto.

Si ha riguardo ad un accordo – stipulato ad oltre due anni di distanza dall’ultima proroga – che non potrebbe coprire mai il "vuoto" normativo creatosi nel periodo precedente, rendendo legittimi comportamenti posti in essere in contrasto con norme imperative di legge. Ed in ogni caso il nuovo accordo non potrebbe mai travolgere diritti già acquisiti nel patrimonio di terzi nel periodo intermedio ( cfr. in termini Cass. n. 15331 del 7.8.2004).

Risulta, dunque, irrilevante il richiamo all’art. 25 del c.c.n.l. del 2001, sia perchè esso si riferisce chiaramente alle sole assunzioni da effettuare dopo l’entrata in vigore del nuovo contratto, sia perchè la possibilità di procedere ad assunzioni a termine " per esigenze di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione" è subordinata all’esito di confronto con la controparte sindacale a livello nazionale ovvero a livello regionale, il che, a ben vedere, conferma l’inesistenza di qualsiasi pregresso accordo generale per tale tipo di assunzioni.

Con riguardo al secondo motivo, per quanto riguarda la questione della mora accipiendi, vale osservare che la relativa prospettazione si rivela priva di autosufficienza, in quanto, pur evidenziandosi l’idoneità della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione a configurare valido atto di messa in mora, non se ne riporta il contenuto, al fine di consentire alla Corte di valutare la fondatezza del rilievo. Deve, quindi, dichiararsene l’inammissibilità.

In merito ai rilievi attinenti all’aliunde perceptum, deve rilevarsi che gli stessi, per come formulati, si fondano sulla considerazione che la Corte d’appello avrebbe omesso di motivare in ordine ad un fatto controverso ed in parte decisivo per il giudizio e con lo stesso si deduce la violazione del disposto di cui all’art. 210 c.p.c., nonchè dell’art. 421 c.p.c., in ragione dell’omissione di ogni decisione in merito alla richiesta formulata dalla società, volta ad ottenere l’esibizione della documentazione necessaria al fine di consentire una corretta determinazione degli eventuali corrispettivi percepiti dall’appellante per attività svolte alle dipendenze e/o nell’interesse di terzi. Si afferma, poi, che l’aliunde perceptum non possa che essere genericamente dedotto, essendo, se mai, onere del lavoratore dimostrare di non essere stato occupato nel periodo in questione, e che, in definitiva, fatti costituenti parte determinante della res controversa non hanno formato oggetto di una valutazione da parte del giudice del merito, con conseguente vizio della sentenza. Osserva questa Corte che la deduzione del vizio come prospettata avrebbe reso necessario trascrivere il motivo dedotto in sede di gravame, al fine di consentire alla Corte di valutare la denunziata omissione valutativa e che comunque, in termini più generali, la stessa non coglie nel segno e risulta formulata in dispregio del principio di autosufficienza, non riportandosi neanche il contenuto preciso delle istanze istruttorie asseritamente avanzate e disattese dalla Corte del merito, in ragione della ritenuta natura astratta delle enunciazioni che si intendevano provare o in relazione alle quali era stato sollecitata l’attivazione di poteri istruttori d’ufficio.

Peraltro, il motivo è stato ritenuto generico in alcuni precedenti di questa Corte (cfr. Cass. 4.1.2011 n. 80; Cass. 29.4.2011 n. 9583) affermandosi che il quesito, per la sua formulazione, risulta non pertinente rispetto alla concreta fattispecie esaminata, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito.

A ciò consegue la declaratoria di inammissibilità del motivo di impugnazione.

Infine, osserva il Collegio che, con la memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. la società ricorrente, invoca, in via subordinata, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 in vigore dal 24 novembre 2010.

Orbene, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

Tale condizione non sussiste nella fattispecie, benchè, con sentenza della Corte Costituzionale n. 303/2011 siano state dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, sollevate, con riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102, 111 Cost. e art. 117 Cost., comma 1. Ed invero, il motivo dedotto in relazione alla quantificazione del risarcimento è stato dichiarato inammissibile, il che preclude ogni esame della questione.

Con il ricorso incidentale l’ A. ed il G. deducono la violazione e falsa applicazione degli arti 1175, 1218, 1226, 1227, 2094 e 2099 e 2967 c.c., degli artt. 112, 114 e 432 c.p.c. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè la insufficienza e contraddittorietà della motivazione su di un punto decisivo e controverso, relativo all’ammontare delle retribuzioni o comunque del risarcimento del danno appannaggio di ciascun esponente, formulando quesiti con i quali si domanda se, in caso di sentenza che accerti la nullità del termine, il diritto a vedersi riconoscere una somma parametrata alle retribuzioni non percepite dalla data dell’offerta delle prestazioni discenda direttamente dall’obbligo contrattuale, oppure abbia origine nella disciplina codicistica sul risarcimento del danno; se le retribuzioni siano dovute fino al ripristino della attualità del rapporto ed, ancora, se il giudice possa procedere di sua iniziativa a valutazione equitativa del danno.

Quanto ai rilievi svolti dalla difesa dei ricorrenti incidentali sul contrasto tra la disciplina dello ius superveniens – che ha inciso nella materia oggetto del ricorso prevedendo, con disposizione (L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5) ritenuta applicabile anche ai giudizi pendenti in Cassazione, che, in caso di conversione del contatto a tempo determinato, la misura del risarcimento sia pari ad un’indennità ominicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed una massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto – e le norme della CEDU (art. 6), contrasto identificato nell’ingiustificata intromissione, attraverso norma retroattiva, del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, tale da influire sulla decisione di singole controversie o su un gruppo di esse, il Giudice delle Leggi, con sentenza n. 303 del 2011, ha, con riferimento alla giurisprudenza della CEDU, ritenuto sussistenti motivi idonei a giustificare un intervento del legislatore con efficacia retroattiva. La Corte costituzionale ha, invero, osservato che il veto al legislatore di interferire nell’amministrazione della giustizia è inteso ad evitare tale influenza, salvo che per imperative ragione d’interesse generale, e che tali ragioni possano nella specie "essere ricondotte all’avvertita esigenza di una tutela economica dei lavoratori a tempo determinato più adeguata al bisogno di certezza dei rapporti giuridici tra tutte le parti coinvolte nei processi produttivi, anche al fine di superare le inevitabili divergenze applicative cui aveva dato luogo il sistema previgente (cfr., in tali termini, C. Cost 303/2011 cit.).

Tanto premesso, deve rilevarsi che il motivo, per come avanzato dai ricorrenti incidentali ed alla luce dello ius superveniens, è infondato, in considerazione del divieto della reformatio in peius, posto che la decisione impugnata determina dalla messa in mora rispettivamente del 24.11.2000 e dell’8.11.2000, il quantum de risarcimento riconosciuto all’ A. ed al G., nei limiti del triennio dalla cessazione dei rispettivi rapporti di lavoro (del 31.8.2000 per il primo e del 30.10.1999 per il secondo), onde gli stessi non potrebbero comunque ottenere di più di quanto loro già riconosciuto dal giudice del gravame.

Anche il ricorso incidentale va, per quanto detto, rigettato.

La soccombenza reciproca giustifica la integrale compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, dichiara l’inammissibilità del ricorso proposto nei confronti di S. e F. nonchè dell’incidentale dagli stessi proposto; rigetta il ricorso principale nei confronti degli altri intimati e rigetta il ricorso incidentale degli stessi.

Compensa le spese del presente giudizio nei confronti di tutti.

Così deciso in Roma, il 26 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2012

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