Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 20-09-2011) 24-11-2011, n. 43306

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 15 aprile 2010 il giudice di pace di Mezzolombardo dichiarava M.B. colpevole del reato continuato di ingiuria, minaccia e danneggiamento nonchè del reato continuato di ingiuria e minaccia, reati entrambi commessi in (OMISSIS) all’interno del bar di P.L. e originariamente contestati in distinti procedimenti sorti a seguito di ricorsi immediati delle persone offese, e lo condannava, ritenuta la continuazione, alla "pena pecuniaria complessiva" di Euro 2.500,00 nonchè al risarcimento dei danni in favore delle parti civili P. L. e H.K., cui veniva assegnata una provvisionale rispettivamente di Euro 5.000,00 ed Euro 3.00,00.

Con sentenza in data 19 ottobre 2010 il Tribunale di Trento riformava la predetta sentenza limitatamente alla pena, che veniva ridotta ad Euro 420,00 di multa, e confermava le restanti statuizioni.

Avverso la predetta sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione.

Con il ricorso si deduce:

1) la mancanza o carenza di motivazione in relazione all’art. 192 c.p.p. e art. 597 c.p.p., comma 1, con particolare riferimento alla rilevanza o attendibilità attribuita alle dichiarazioni testimoniali delle persone offese, costituitesi parte civile, e alla mancata considerazione delle dichiarazioni rese dagli altri testi ( B. e M.); in particolare le dichiarazioni delle testi P. e H. divergerebbero nettamente, secondo il ricorrente, quanto al reato di ingiuria ai danni della P. (la P. aveva riferito di essere stata offesa con gli epiteti "stronza e falsa", mentre secondo la H. l’imputato avrebbe detto "ti credevo un’amica, invece sei falsa");

2) la violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p. con riferimento al reato di ingiuria nei confronti della persona offesa H. in quanto il giudice di pace si sarebbe pronunciato su un fatto diverso rispetto a quello descritto nel capo d’imputazione (il fatto che l’imputato avesse sputato sul pavimento del bar, che non trovava peraltro riscontro negli esami testimoniali, era stato infatti riferito solo nel ricorso immediato presentato dalla persona offesa H. la quale tuttavia in sede di esame testimoniale non ne aveva parlato e, comunque, aveva sporto querela solo per il reato di minaccia);

3) l’inosservanza o erronea applicazione dell’art. 594 c.p. con riferimento alle frasi asseritamente ingiuriose pronunciate dall’imputato all’indirizzo della persona offesa P., che non erano state confermate dalla teste H. e che comunque, pur essendo maleducate, nel concreto contesto culturale e comunicativo non potevano essere considerate idonee a ledere l’altrui onore;

4) la contraddittorietà e incongruenza della sentenza con riferimento "alla quantificazione delle statuizioni risarcitorie ed al rimborso delle spese legali" in favore delle parti civili, spese determinate nella misura di Euro 4.000,00 in ragione della complessità del processo pur essendo l’affermazione di responsabilità fondata solo sulle dichiarazioni delle persone offese che avevano esse stesse determinato dei rinvii per valutare, su invito del giudice, la possibilità di rimettere la querela.

Il ricorso è inammissibile.

Il primo motivo, riguardante essenzialmente il reato di ingiuria ai danni della persona offesa P. che sarebbe stata apostrofata con le parole "falsa e stronza", è manifestamente infondato e, comunque, tende a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all’apprezzamento del materiale probatorio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito.

Il giudice di appello ha fatto puntuale applicazione, con corretti riferimenti giurisprudenziali, ai principi espressi da questa Corte in tema di valutazione delle dichiarazioni della persona offesa. In particolare il Tribunale di Trento si è adeguato alla consolidata giurisprudenza di legittimità secondo la quale le dichiarazioni della persona offesa possono essere assunte anche da sole come prova della responsabilità dell’imputato, purchè siano sottoposte ad un attento controllo circa la loro attendibilità, senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, che richiedono la presenza di riscontri esterni, anche se nel caso in cui la persona offesa si sia anche costituita parte civile – e sia, perciò, portatrice di pretese economiche – il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso rispetto a quello generico cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi testimone e può rendere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (Cass. sez. 1 24 giugno 2010 n. 29372, Stefanini; sez. 1 4 novembre 2004 n. 46954, Palmisani; sez. 6 3 giugno 2004 n. 33162, Patella; sez. 3 27 aprile 2006 n. 34110, Valdo Iosi; sez. 3 27 marzo 2003 n. 22848, Assenza). Detto controllo avviene peraltro nell’ambito di una valutazione di fatto che non può essere rivalutata in sede di legittimità, a meno che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni (Cass. sez. 3 22 gennaio 2008 n. 8382, Finazzo). Nel caso di specie le divergenze sottolineate dal ricorrente tra la frase offensiva riferita dalla persona offesa P. e quella riferita dalla teste H. (persona offesa rispetto ad altra condotta dell’imputato, contestata separatamente) sono state oggetto di attenzione da parte del giudice di appello che le ha tuttavia ritenute "dettagli meramente lessicali", con una valutazione logicamente coerente (la H. aveva comunque confermato che la P. era stata definita "falsa"). Del resto la Corte rileva che nei motivi di appello (pagina nove) non si negava che l’imputato avesse pronunciato le parole offensive "falsa e stronza", ma si sosteneva solo che fossero state rivolte alla sua ex convivente presente sulla soglia del locale.

Il secondo motivo è manifestamente infondato.

La Corte rileva che nell’intestazione della sentenza impugnata – per evidente errore materiale non emendabile in questa sede stante il disposto dell’art. 130 c.p.p., comma 1, ult. parte, – non è riportato il capo d’imputazione relativo al reato continuato di ingiuria e minaccia ai danni della persona offesa H.K. (cfr. intestazione della sentenza di primo grado e capo d’imputazione relativo al procedimento n. 2/2009). Dal contesto della motivazione si evince inoltre che la condotta ingiuriosa nei confronti della barista è stata individuata nel lancio di bicchieri all’indirizzo della donna ("nel caso di specie… anche il lancio di bicchieri contro la barista H.K. può integrare il reato di ingiuria, oltre che di minaccia, circostanze tutte obiettivamente riscontrabili nella condotta dell’imputato all’interno del locale bar (OMISSIS)"), condotta inserita nel capo d’imputazione la cui enunciazione è stata omessa nell’intestazione della sentenza impugnata. Il giudice di merito ha fatto invece riferimento solo in via astratta e a titolo meramente esemplificativo alla possibilità di configurare la condotta ingiuriosa in uno sputo ("…sebbene si tratti della forma più frequente, non è necessario che l’offesa sia verbale, essendosi ravvisata l’ingiuria persino in uno sputo, neppure diretto contro l’interessato, quale manifestazione di disprezzo, perciò lesiva del suo decoro…"). In ordine alla procedibilità, la Corte osserva che nel ricorso immediato D.Lgs. n. 274 del 2000, ex art. 21 (la cui presentazione produce gli stessi effetti della presentazione della querela: D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 21, comma 5) la persona offesa H. dichiarava di querelare il M. "per i reati che verranno individuati nel di lui comportamento e comunque per le minacce subite tramite i comportamenti tenuti", senza quindi limitare la richiesta di punizione al reato di minaccia.

Il terzo motivo è manifestamente infondato.

Va ribadito, circa la prova del fatto, quanto detto nell’esaminare il primo motivo di ricorso. In ordine alla portata offensiva delle espressioni rivolte alla persona offesa P. ("falsa, stronza") va ribadito il principio della giurisprudenza di legittimità secondo il quale in tema di tutela penale dell’onore, al fine di accertare se l’espressione utilizzata sia idonea a ledere il bene protetto dalla fattispecie incriminatrice dell’art. 594 c.p., occorre fare riferimento ad un criterio di media convenzionale in rapporto alle personalità dell’offeso e dell’offensore, unitamente al contesto nel quale detta espressione sia stata pronunciata ed alla coscienza sociale (Cass. sez. 5 19 febbraio 2010 n. 21264, Saroli). Nel caso in esame con l’atto di appello non veniva peraltro in astratto contestata (pagina 9) la portata offensiva delle espressioni attribuite al M., ma se ne negava il carattere dispregiativo in una valutazione complessiva del contesto in cui dette espressioni erano state pronunciate. La particolarità del contesto, evocata anche nel ricorso in esame in maniera del tutto generica, non risulta tuttavia essere stata specificamente individuata dal ricorrente, mentre proprio dalla ricostruzione del fatto contenuta nella sentenza impugnata il contesto in cui l’imputato ha agito appare connotato da una notevole carica aggressiva, non solo verbale, che rende plausibile la ritenuta valenza offensiva degli epiteti, anche volgari, rivolti pubblicamente alla persona offesa P..

Il quarto motivo è generico, oltre che manifestamente infondato.

Quanto alle "statuizioni risarcitorie", la Corte rileva che il giudizio di primo grado si era concluso con una condanna generica al risarcimento dei danni, la cui liquidazione veniva rimessa al giudice civile. Il ricorrente non si duole, peraltro, della liquidazione alle parti civili di somme a titolo di provvisionale.

Quanto all’entità delle spese processuali da rimborsare alla parte civile – liquidate dal giudice di primo grado nella somma di Euro 4.000,00 che il giudice di appello ha ritenuto correttamente determinata "avuto riguardo alla complessità, francamente inusuale, della causa svoltasi innanzi al giudice di pace, protrattasi per numerose udienze e comportante la necessità di escutere numerosi testimoni" – la Corte osserva che l’assunto difensivo dell’attribuibilità esclusivamente alle persone offese, che non avevano inteso rimettere le querele, della durata del processo non è sostenuto da specifici riferimenti a condotte dilatorie delle parti civili e che comunque il ricorrente non contesta l’oggettiva e "inusuale" complessità del giudizio svoltosi dinanzi al giudice di pace.

Alla inammissibilità del ricorso consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000,00.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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