Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 22-06-2011) 24-11-2011, n. 43646

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. La Corte d’Appello di Venezia, con sentenza 12/10/2009, confermava la decisione 8/11/2007 del Tribunale di Padova, che, per quanto qui interessa, aveva dichiarato S.K., cittadina nigeriana, colpevole di concorso nel delitto di cui all’art. 348 cod. pen. e l’aveva condannata, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, a pena ritenuta di giustizia e al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile. L’addebito specifico mosso all’imputata è di avere fatto sottoporre, la sera del (OMISSIS), il proprio figlio E.F.O., nato (OMISSIS) precedente, a intervento di circoncisione da parte di soggetto non abilitato all’esercizio della professione medica, con la conseguenza che il neonato, poche ore dopo l’intervento subito, aveva avuto una imponente emorragia, che ne aveva imposto il ricovero d’urgenza in ospedale per gli interventi terapeutici del caso.

Il Giudice distrettuale riteneva che l’intervento di circoncisione andava qualificato come atto medico, sia "in ragione della materialità dell’atto" che, interferendo sull’integrità fisica, non può prescindere dall’attenta valutazione delle condizioni del soggetto che lo subisce, sia in considerazione del fatto che "richiede capacità tecniche e conoscenze di medicina tali da dovere essere riservato solo ai soggetti abilitati alla professione medica".

Sottolineava, inoltre, alla luce di quanto emerso dalla espletata istruttoria, che l’imputata aveva deciso di sottoporre il figlio di poche settimane alla circoncisione "per motivi culturali – religiosi", anche se tale pratica non costituiva "un rito della fede religiosa professata, bensì una condotta in uso nella comunità di appartenenza" (di fede cattolica), con l’effetto che la scelta operata doveva essere apprezzata come una mera "manifestazione della cultura assunta dall’imputata" e non era, quindi, invocabile la scriminante dell’esercizio del diritto di professare liberamente la propria fede religiosa. L’errore-ignoranza dell’imputata circa la natura di atto medico dell’intervento di circoncisione, in quanto incidente sul precetto penale, era privo di rilevanza, ai sensi dell’art. 5 cod. pen..

Precisava, infine, che la sofferenza provocata al neonato dall’intervento e dalle successive complicazioni integrava il "danno morale", al cui risarcimento l’imputata era tenuta.

2. Ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, l’imputata, deducendo: 1) erronea applicazione della legge penale, con riferimento all’art. 348 cod. pen., e vizio di motivazione circa l’individuazione della nozione di "atto medico", nella quale non può essere ricondotta la circoncisione rituale, non avendo la stessa finalità terapeutiche, non essendo finalizzata alla cura della salute psico-fisica del soggetto ed essendo caratterizzata, specie se eseguita su neonato, da una estrema semplicità; 2) violazione dell’art. 55 cod. pen. in relazione all’art. 51 cod. pen., artt. 19 e 30 Cost., non essendosi considerato che era difettata in lei la consapevolezza di sottoporre il proprio figlio ad un intervento di competenza medica, essendo incorsa, per eccesso di colpa, in errore circa i limiti entro cui le era consentita, in aderenza alla propria tradizione culturale, la pratica della circoncisione; 3) violazione di legge in ordine alla ritenuta sussistenza del nesso causale tra l’ipotizzato reato di cui all’art. 348 cod. pen. e il danno morale lamentato dalla parte civile.

3. Il ricorso è fondato e deve essere accolto.

Vengono in rilievo, nel caso in esame, delicati aspetti giuridici connessi alla pratica, nella società occidentale e, in particolare, nel nostro Paese, della circoncisione c.d. rituale e, quindi, non terapeutica da parte di soggetti di diversa etnia, che, per tradizione culturale o religiosa, sono ad essa favorevoli.

La questione centrale attiene al profilo medico insito nella circoncisione eseguita per motivi rituali.

Questa è solitamente percepita da un medico occidentale come una mutilazione genitale per il bambino e una palese violazione del fondamentale comandamento che deve ispirare l’attività del sanitario: primum non nocere. In sostanza, si tratterebbe comunque di un atto medico, perchè, pur in assenza di finalità terapeutica, interferisce sull’integrità fisica della persona, presuppone un attento esame delle condizioni della medesima prima di essere eseguito, richiede l’osservanza di determinate tecniche e di opportune precauzioni, impone il monitoraggio del decorso post- operatorio per prevenire eventuali complicazioni.

Tale percezione, però, non è, di per sè, decisiva per la soluzione della questione sottoposta all’attenzione di questa Corte, in quanto non tiene conto della complessa problematica connessa alle ragioni e al forte carico simbolico che connotano la pratica della circoncisione rituale in determinati contesti.

Non può essere sottaciuto, infatti, il significato che tale pratica assume da parte di aderenti ad una determinata fede religiosa, che è propria di due tra le religioni monoteiste, l’ebraismo e l’islamismo.

Quanto al primo, in particolare, che si richiama solo esemplificativamente, il riferimento nella Bibbia alla circoncisione come patto di sangue, come alleanza tra Dio e il popolo ebraico è ripetuto a partire dalla Genesi; la pratica di tale rito nell’osservanza di rigide regole rappresenta, considerate le profonde radici della civiltà ebraica in occidente, una forte sfida culturale sia per l’imponenza (sotto il profilo numerico) del fenomeno che per le tematiche in esso coinvolte.

L’intreccio tra circoncisione e identità ebraica è reale e non può essere ignorato, come non possono essere ignorati i limiti medici e legali che attengono al nucleo più profondo del nostro ordinamento, che appresta particolare tutela al rispetto dei diritti individuali e alla salute psico-fisica di ogni membro appartenente alla società.

E’ necessario, quindi, verificare se è possibile conciliare – ed entro quali limiti – allo stato della legislazione vigente, tali opposte esigenze: da un lato, la volontà di determinate minoranze che vivono in Italia di rivendicare l’appartenenza alla propria etnia e l’osservanza delle proprie tradizioni; dall’altro, il rispetto delle nostre regole.

Legge, religione, tradizione culturale e medicina vengono a confronto.

Una società multietnica, che accetta più o meno consapevolmente il multiculturalismo, non può ignorare una certa dose di relativismo culturale, che consenta di guardare ad altre civiltà senza giudicarle secondo i propri parametri. Ne consegue che l’approccio alla delicata questione in esame, per le implicazioni di carattere etico e giuridico che vengono in rilievo, deve essere guidato da una prudente e illuminata interpretazione delle norme di riferimento, senza sottovalutare la peculiare posizione del soggetto coinvolto nell’atto rituale incriminato.

3.1. Osserva la Corte che sul tema della circoncisione rituale non esiste in Italia una espressa normativa di legge, che specifichi il soggetto che può praticarla e il luogo in cui può essere praticata.

Richiamando ancora l’esempio di cui al punto che precede, la circoncisione rituale dell’ebraismo è una cerimonia religiosa (brit milah: patto del taglio) con cui si da il benvenuto ai neonati maschi nella comunità, è effettuata, solitamente in casa o in altro luogo privato, dal mohel all’ottavo giorno dalla nascita del bambino; il padre del neonato, avendo l’obbligo biblico di eseguire la circoncisione e non avendo la formazione medica necessaria, affida tale compito al mohel, che di solito è un medico o comunque una persona specializzata nella pratica della circoncisione e dei relativi rituali.

La L. 8 marzo 1989, n. 101, dando attuazione all’Intesa stipulata il 27/2/1987, contiene norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Tale normativa contiene un implicito riconoscimento della conformità della pratica circoncisoria ebraica ai principi dell’ordinamento giuridico italiano, come si evince indirettamente dal combinato disposto dell’art. 2, comma 1, e art. 25, in forza dei quali è garantito "il diritto di professare e praticare liberamente la religione ebraica in qualsiasi forma…e di esercitarne in privato o in pubblico il culto e i riti", con la precisazione che l’attività di religione e di culto si svolge liberamente in conformità dello Statuto dell’ebraismo italiano, senza alcuna ingerenza da parte dello Stato, delle Regioni e degli altri Enti territoriali.

La circoncisione rituale praticata dagli ebrei su neonato deve, pertanto, ritenersi non in contrasto con il nostro ordinamento e ha una preminente valenza religiosa che sovrasta quella medica, con l’effetto che giammai il mohel potrebbe incorrere nel reato di esercizio abusivo della professione medica e la sua condotta, che oggettivamente integra il reato di lesione personale, è scriminata, se non determina una apprezzabile lesione permanente e non mostra segni di negligenza, imprudenza o imperizia. La scelta fatta dal legislatore del 1989 con la legge innanzi richiamata è, peraltro, in linea con diritti presidiati dalla Carta Costituzionale. Il riferimento è all’art. 19 Cost., che riconosce il diritto alla libertà di religione, purchè non vengano compiute pratiche contrarie al buon costume, ipotesi questa da escludere per la circoncisione, che non può certo considerarsi una pratica contraria ai principi etici o alla morale sociale e non pregiudica la sfera dell’intimità e della decenza sessuale della persona. Non superfluo, inoltre, è il riferimento all’art. 30 Cost., che riconosce il diritto-dovere dei genitori di educare i figli e ovviamente l’educazione religiosa rientra in tale parametro costituzionale.

Quanto al delitto di lesione personale, astrattamente ipotizzabile, la causa di giustificazione a favore del mohel trova titolo nel consenso dell’avente diritto (art. 50 cod. pen.), prestato validamente ed efficacemente dai genitori del neonato, per il compimento di un atto che rientra tra quelli consentiti di disposizione del proprio corpo (art. 5 cod. civ.), in quanto non determina una menomazione irreversibile con indebolimento permanente e non modifica sostanzialmente il modo d’essere dell’individuo sotto il profilo dell’integrità funzionale o sotto quello della capacità di vita di relazione.

3.2. Non può omettersi di considerare, però, che il significato della circoncisione non terapeutica è spesso riconducibile a motivazioni che esulano da esigenze religiose e identitarie e affondano le loro radici soltanto in tradizioni culturali ed etniche, assolutamente estranee alla cultura occidentale e non sempre compatibili, sul piano operativo, con la nostra legislazione.

Non può essere ignorato, infatti, che in molti casi l’esecuzione dell’intervento cruento, a differenza di quanto accade nel mondo ebraico, è affidata a persona non qualificata, non dotata cioè di adeguata e riconosciuta competenza, che vi procede in modo empirico e senza alcuna concreta garanzia circa la sua corretta effettuazione, lo scrupoloso rispetto dell’igiene e dell’asepsi, la continuità dell’assistenza anche dopo l’intervento, con conseguente intuibile pericolo per la salute del bambino, alla quale invece il nostro ordinamento impone di dare maggior peso rispetto ai contingenti fattori culturali ed etnici che ispirano, in certi contesti sociali, la pratica di cui si discute. Tanto è riscontrabile nella vicenda che vede coinvolta la nigeriana S.K.. Costei, pacificamente di fede cattolica, decise di fare sottoporre il proprio figlio di appena un mese a circoncisione, adeguandosi ad una pratica in uso presso la comunità di appartenenza e notoriamente estranea al rito della religione cattolica; in sostanza, la scelta operata dalla predetta va letta come espressione della cultura dalla medesima interiorizzata nell’ambito della comunità di provenienza e nulla ha da condividere con la circoncisione rituale di matrice religiosa praticata dagli ebrei, sicchè non è invocabile, nella specie, l’esercizio del diritto di professare liberamente la propria fede religiosa. L’imputata affidò il compito di eseguire l’intervento circoncisorio ad una non meglio identificata donna nigeriana, certamente priva, per ammissione implicita della stessa imputata, di qualsiasi professionalità adeguata al caso, se vero che il bambino, subito dopo l’intervento, evidenziò "un’emorragia cospicua e irrefrenabile con necessità di ospedalizzazione e trattamento terapeutico complesso", per superare la fase di criticità che aveva addirittura posto in pericolo la sua vita.

Nella descritta situazione, non si può prescindere dalla considerazione che il diritto, necessariamente tributario della scienza medica, non può sottovalutare la delicatezza dell’intervento di circoncisione, che, per quanto semplice, interferisce comunque sulla integrità fisica della persona, comporta una manipolazione del corpo umano potenzialmente rischiosa per la salute e oggettivamente, pur in assenza di preventive finalità terapeutiche, è sostanzialmente un atto di natura medica (trattasi di vero e proprio intervento chirurgico), che non può essere affidato al libero esercizio di una qualsiasi persona, ma deve essere eseguito, di norma, da un medico, che è soggetto professionalmente attrezzato per assolvere tale compito. Nè, nella situazione in esame, che attiene – come si è precisato – alla circoncisione motivata da tradizioni etniche, soccorre, a differenza di quanto previsto per il rito religioso ebraico, una qualche previsione legislativa del nostro ordinamento, che legittimi una tale pratica, sganciata da ogni regola; nel caso specifico, quindi, non può che operare la "riserva professionale", finalizzata a garantire la qualificazione e la specifica competenza della persona che deve procedere all’intervento.

Assume, pertanto, concretezza, almeno in astratto, il precetto di cui all’art. 348 cod. pen., la cui violazione è contestata all’imputata in termini di concorso.

Si è in presenza, sotto il profilo della materialità, di un reato, per così dire, culturalmente orientato, quello che gli americani definiscono cultural offence. Nel reato culturalmente orientato non viene in rilievo il conflitto interno dell’agente, vale a dire l’avvertito disvalore della sua azione rispetto alle regole della sua formazione culturale, bensì il conflitto esterno, che si realizza quando la persona, avendo recepito nella sua formazione le norme della cultura e della tradizione di un determinato gruppo etnico, migra in un’altra realtà territoriale, dove quelle norme non sono presenti. Il reato commesso in condizione di conflitto esterno è espressione della fedeltà dell’agente alle norme di condotta del proprio gruppo, ai valori che ha interiorizzato sin dai primi anni della propria vita.

Ciò posto, devesi escludere, tuttavia, alla luce di quanto emerge dalle due sentenze di merito, la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato all’imputata.

Il reato di cui all’art. 348 cod. pen. è punito a titolo di dolo, consistente nella coscienza e volontà di concorrere nel compimento di un atto di abusivo esercizio della professione medica. La citata norma è una norma penale in bianco, integrata da altre norme che disciplinano la professione protetta e che penetrano nella struttura della prima, formando con questa un tutt’uno.

Si tratta di cogliere, alla luce delle circostanze di fatto accertate dai giudici di merito, il processo di formazione della volontà dell’imputata, i suoi eventuali condizionamenti, la consapevolezza o meno in lei, nel decidere di fare circoncidere il proprio bambino, di sottoporre lo stesso ad un intervento di chirurgia minore, che, secondo la nostra legislazione, è normalmente di competenza medica.

Tale aspetto non è adeguatamente approfondito dalla sentenza impugnata, che si limita ad affermare l’irrilevanza dell’eventuale "errore/ignoranza" incidente sul precetto penale; e tale deve ritenersi, secondo la stessa sentenza, "l’errore/ignoranza" che riguarda "la natura di atto medico dell’intervento di circoncisione".

La sentenza in verifica, in sostanza, omette di valutare la posizione dell’imputata alla luce dell’art. 5 cod. pen., nel nuovo testo risultante a seguito della sentenza additiva n. 364/1988 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato costituzionalmente illegittima detta norma "nella parte in cui esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile". La rilevanza dell’ignorantia legis scusabile implica che il giudizio di rimproverabilità del soggetto agente deve necessariamente estendersi alla valutazione del processo formativo della sua volontà, per stabilire se il medesimo soggetto, al momento dell’azione posta in essere, si sia o no reso conto dell’illiceità della sua condotta e del valore tutelato dalla norma violata.

Tale principio opera anche con riferimento alla norma extrapenale che va ad incorporarsi nella fattispecie penale, in quanto la prima diventa anch’essa penale ai fini della disciplina dell’ignorantia legis, con l’effetto che l’errore – se scusabile – deve essere apprezzato come fattore di esclusione della colpevolezza, e ciò proprio in forza del disposto dell’art. 5 cod. pen., nel testo risultante dall’intervento del Giudice delle leggi, ed a superamento della previsione di cui all’art. 47 c.p., comma 3, che attiene più propriamente all’errore sulla norma extrapenale priva di funzione integratrice di quella penale. L’individuazione dei parametri di valutazione del principio della scusabilità dell’ignorantia legis inevitabile, in difetto di una specifica indicazione del richiamato art. 5 cod. pen., non può che essere rimessa all’interprete, che deve fare leva, tenendo presenti le indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale, su considerazioni sistematiche e funzionali più generali.

Il criterio di detta individuazione, per essere affidabile, non può che emergere dal raffronto tra dati oggettivi, che possono avere determinato nell’agente l’ignorantia legis circa l’illiceità del suo comportamento, e dati soggettivi attinenti alle conoscenze e alle capacità dell’agente, che avrebbero potuto consentire al medesimo di non incorrere dell’error iuris. E’ certamente dato oggettivo incontestabile il difettoso raccordo che si determina tra una persona di etnia africana, che, migrata in Italia, non è risultata essere ancora integrata nel relativo tessuto sociale, e l’ordinamento giuridico del nostro Paese; non può tale situazione risolversi semplicisticamente a danno della prima, che, in quanto portatrice di un bagaglio culturale estraneo alla civiltà occidentale, viene a trovarsi in una oggettiva condizione di difficoltà nel recepire, con immediatezza, valori e divieti a lei ignoti. Quanto all’aspetto soggettivo, non possono essere ignorati, anche alla luce della testimonianza del sacerdote D.J.B., il basso grado di cultura dell’imputata e il forte condizionamento derivatole dal mancato avvertimento di un conflitto interno, circostanze queste che sfumano molto il dovere di diligenza dell’imputata finalizzato alla conoscenza degli ambiti di liceità consentiti nel diverso contesto territoriale in cui era venuta a trovarsi.

Sussistono pertanto, nel caso concreto, gli estremi dell’errar iuris scusabile e la conferma indiretta di ciò si coglie nel comportamento post – delictum dell’imputata, che, resasi conto che il figlio necessitava di assistenza medica, non esitò a ricoverarlo in ospedale e a riferire ai sanitari, senza alcuna reticenza e con molta naturalezza, quanto era accaduto.

4. Le argomentazioni sin qui svolte, che hanno carattere assorbente rispetto a ogni altra doglianza articolata in ricorso, impongono l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, perchè il fatto non costituisce reato.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non costituisce reato.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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