Cass. civ. Sez. III, Sent., 11-06-2012, n. 9457 Ultra ed extrapetita

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

C.A., C.C. e C.E.W. con ricorso depositato il 5.10.2006 adivano la Sez. spec. agr. del tribunale di Bolzano, chiedendo la condanna del fratello C. B. al rilascio in loro favore di terreni agricoli ereditati per successione legittima dalla comune madre, deceduta nel 1997. I ricorrenti si richiamavano all’accordo firmato il 13.12.1996 in sede conciliativa L. n. 203 del 1982, ex art. 46, con cui il convenuto si sarebbe obbligato al rilascio dei fondi condotti in affitto sulla base del contratto stipulato con la madre nel 1975, alla fine dell’annata agraria 2004, con compensazione tra canoni residui e miglioramenti.

Si costituiva il convenuto e contestava che l’accordo investisse anche la restituzione dei fondo, assumendo che riguardava soltanto l’indennità per i miglioramenti. Il tribunale, sez. spec. agr., riteneva che nella fattispecie l’accordo prevedeva la scadenza alla data del 10.11.2004, ma che non derogando alla L. n. 203 del 1982, art. 4, era intervenuta la proroga tacita del contratto di affitto per altri 15 anni.

La Corte di appello di Trento, sez. dist. di Bolzano, adita dagli attori, con sentenza depositata il 5.1.2008, accoglieva la domanda, dichiarava cessato il rapporto intercorso tra le parti alla scadenza del 10.11.2004, condannava il convenuto alla restituzione dei fondi alla comunione ereditaria sorta tra tutte le parti.

Secondo la Corte di merito una corretta interpretazione della conciliazione avvenuta L. n. 203 del 1982, ex art. 46, fondata anche sul comportamento delle parti, portava a ritenere che con la stessa le parti volevano la cessazione del rapporto con la fine dell’annata agraria 2004 e non solo la regolamentazione dell’indennizzo per i miglioramenti; che tanto emergeva anche dal comportamento successivo delle parti e segnatamente dalla restituzione avvenuta di altro fondo di cui alla clausola n. 2, nonchè della mancata corresponsione del canone per il 2005, salvo un tardivo "ripensamento" nel novembre 2006 a contenzioso aperto.

Riteneva la corte che, poichè il convenuto era anche comproprietario dei fondi, la restituzione degli stessi doveva avvenire in favore della comunione ereditaria, in modo che tutti i comproprietari avessero la facoltà di far uso dei beni comuni.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione C. B..

Resistono con controricorso i convenuti intimati,che hanno anche presentato ricorso incidentale.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per essere incorso il giudice di appello in extrapetizione, poichè, a fronte della richiesta degli attori di condanna del fratello convenuto al rilascio dei fondi provenienti dalla comunione ereditaria materna in loro favore, aveva disposto la restituzione di tali fondi alla comunione ereditaria, richiesta mai effettuata da alcuno.

2.1. Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata infatti chiaramente riferisce che il convenuto e gli attori erano comproprietari, nella qualità di coeredi della comune madre, per cui l’obbligo di restituzione gravante sul primo quale detentore anche delle quote degli altri comproprietari in forza di titolo contrattuale (transazione), "si atteggia nel senso che la restituzione del bene in favore degli altri compartecipanti alla comunione viene ad assumere il significato della piena reintegrazione degli stessi di far uso della cosa comune secondo il loro diritto e di disporre della propria quota".

In questi termini la condanna del convenuto alla restituzione dei fondi alla comunione ereditaria tra tutte le parti è corretta e non integra un’extrapetizione rispetto alla domanda proposta dagli attori, nella qualità di comproprietari con il convenuto stesso, di rilascio del fondo in loro favore.

2.2. Questa Corte, segnatamente in tema di locazione di immobile urbano, ha osservato che nel caso di concessione di un bene in locazione ad uno dei comproprietari, venuto a conclusione il rapporto locatizio per scadenza del termine o per la pronuncia della sua risoluzione per inadempimento del conduttore, il predetto bene deve essere restituito alla comunione per consentire alla stessa di disporne e, attraverso la sua maggioranza, di esercitare la facoltà di goderne direttamente o indirettamente.

Ne consegue che il conduttore-comproprietario può essere condannato al rilascio del bene medesimo in favore della comunione (n. 19929 del 18/07/2008), poichè tale conduttore è pur sempre obbligato a reintegrare gli altri comproprietari nella facoltà di disporre della loro quota e di far uso della cosa comune secondo il loro diritto, alla stregua di quanto disposto espressamente dagli artt. 1102 e 1103 cod. civ. (n. 18524 del 03/09/2007).

2.3. Questo principio, adottato in tema di locazione, è estensibile anche ai casi in cui il godimento da parte di un solo comproprietario del bene comune si fondi su un contratto di affitto ovvero di transazione (come nella fattispecie).

In coerenza con l’ammissibilità della locazione (o più in generale della concessione in godimento) di quota di bene comune, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato in via generale, con riferimento all’acquisto da parte del conduttore della quota "pro indiviso" del bene locato, la concettuale compatibilità della contemporanea condizione di comproprietario e locatario del bene comune o di parte di esso (Cass. 23/06/1999, n. 6405; Cass. n. 165 del 2005).

Ciò comporta che alla scadenza del contratto di godimento tale quota vada restituita al concedente, così come originariamente gli fu consegnata.

2.4. La locuzione sovente utilizzata (come nell’attuale sentenza impugnata) di "restituzione del bene alla comunione" indica appunto tale restituzione delle quote ideali del bene ai singoli comproprietari, legati dal vincolo della comunione, ed esprime in modo sintetico un più articolato percorso proprio per il fatto che nella fattispecie si versa in ipotesi di concessione in godimento di quota ideale di bene.

Qui non si tratta di ordinare al comproprietario prò quota e detentore di tutto il bene di rilasciare questo, ma la sola quota di bene, per la quale è scaduto il termine di godimento, reimmettendo nella codetenzione del bene (nei limiti della quota a lui concessa) il concedente e riconsegnando allo stesso quanto questi ha dato all’inizio della rapporto di godimento (giusta l’obbligazione che grava sul conduttore nella locazione: art. 1590 c.c.).

2.5.Questa Corte ha, in precedenti occasioni, ritenuto ammissibile la condanna al rilascio del bene comune, solo per una quota, la cui detenzione risulti non giustificata (Cass. n. 165 del 5/01/2005;

5.12.1990, n. 11691). Questa condanna al rilascio della quota del bene comune, in caso di mancata volontaria esecuzione della sentenza, va eseguita coattivamente nelle forme dell’esecuzione forzata per rilascio, se si tratta di beni immobili, e qualora vi siano sugli immobili diritti personali di godimento a favore di terzi, osservandosi il disposto dell’art. 608 c.p.c., comma 2, ultima parte, per cui l’ufficiale giudiziario deve ingiungere al codetentore (qualificato) di riconoscere la codentenzione degli altri.

3. Quanto sopra detto comporta che è infondato il quinto motivo di ricorso con cui il ricorrente lamenta la violazione della L. n. 203 del 1982, artt. 7, 6, 42, del D.L.C.P.S. n. 273 del 1947 e dell’art. 1105 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, assumendo che, allorchè uno dei comproprietari sia contestualmente affittuario del fondo comune, non potrebbe essere condannato al rilascio in favore della comunione ereditaria, avendo lo stesso diritto al godimento del bene in proporzione degli altri comproprietari.

4.1. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. in riferimento al motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Assume il ricorrente che erroneamente la sentenza impugnata ha interpretato la transazione raggiunta L. n. 203 del 1982, ex art. 46 e cioè che il coltivatore diretto era obbligato a rilasciare il fondo al termine dell’anno 2004, in deroga al principio della proroga tacita per ulteriori anni 15, in caso di mancata disdetta, giusto il disposto della L. n. 203 del 1982, art. 4.

4.2. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione della L. n. 203 del 1982, art. 17, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver ritenuto che dalla quantificazione indiretta dell’indennità per miglioramenti con compensazione con i canoni di affitto, effettuata nella predetta transazione, doveva ritenersi che il rapporto cessava alla scadenza fissata nella transazione stessa.

4.3. Con il quarto motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione della L. n. 203 del 1982, art. 4, perchè ritiene che la proroga ivi prevista sia applicabile anche ai rapporti conseguenti alla transazione stipulata ex art. 46 L..

5.1. I suddetti motivi vanno esaminati congiuntamente, essendo connessi.

Anche a voler ritenere che tali motivi superino lo scrutinio di ammissibilità in relazione al quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c. (applicabile alla fattispecie ratione temporis), essi sono infondati e vanno rigettati.

Nella fattispecie, dall’interpretazione del contratto, la corte di merito ha rilevato che si trattava di una transazione che regolava il rapporto relativamente al fondo in questione fino alla fine dell’annata agraria 2004.

Anzitutto il giudice di merito, valorizzando anche i dati temporali e contestuali, nonchè il successivo comportamento delle parti (segnatamente il mancato pagamento del canone nell’annata agraria 2005, e la riconsegna dell’altro fondo di cui alla clausola n. 2 della transazione) ha con motivazione congrua ed immune da vizi rilevabili in questa sede ritenuto che le parti non solo volessero con la transazione regolare tutti i loro rapporti in relazione al fondo de quo fino all’annata agraria 2004, ma anche porre definitivamente fine al contratto di affitto, con la fine dell’annata agraria 2004.

5.2. Tale interpretazione contrattuale non viola il principio ermeneutico di cui all’art. 1362 c.c.. Nell’interpretazione del contratto, se è vero che l’elemento letterale assume funzione fondamentale, la valutazione del complessivo comportamento delle parti non costituisce un canone sussidiario, bensì un parametro necessario ed indefettibile, in quanto le singole clausole, da interpretare le une a mezzo delle altre, senza potersi arrestare ad una considerazione atomistica delle stesse, neppure quando il loro senso possa ritenersi compiuto, debbono essere raccordate al complesso dell’atto e l’atto deve essere esaminato valutando il complessivo comportamento delle parti. In questa progressiva dilatazione del materiale interpretativo può assumere rilievo anche il comportamento delle parti che sia successivo alla conclusione del contratto, purchè sia un comportamento comune, ovvero un comportamento unilaterale accettato, anche tacitamente, dall’altra parte, atteso che, come è comune l’intenzione delle parti, quale fondamentale parametro di interpretazione, così deve essere comune il comportamento delle parti quale parametro di valutazione della volontà da esse manifestata ( Sentenza n. 7083 del 28/03/2006).

5.3. Avendo accertato ciò il giudice di merito sulla base dell’interpretazione della transazione, si appalesano chiaramente infondati gli altri motivi di ricorso, che mirano a sostenere la tesi che nella fattispecie, non essendo intervenuta disdetta, si era prorogato il contratto di affitto per altri 15 anni ai sensi della L. n. 203 del 1982, art. 4.

E’ infatti errato in diritto l’assunto del ricorrente secondo cui, nel silenzio delle parti, opererebbe la proroga legale di anni 15, per mancanza di disdetta entro un anno dalla scadenza del contratto e quindi nella fattispecie entro la fine dell’annata agraria 2003.

5.4. Infatti va osservato che tale norma di cui alla L. n. 203 del 1982, art. 4, opera solo per il contratto di affitto agrario, mentre nella fattispecie è pacifico che il contratto in questione, essendo intervenuto in sede conciliativa ex art. 46 stessa legge, integra un contratto inquadrabile nello schema della transazione (cfr. Cass. n. 3307/1997).

Nella fattispecie gli attori hanno fatto valere il diritto al rilascio del bene che derivava dalla scadenza apposta nel verbale di conciliazione intervenuto il 13.12.1996 davanti al direttore della ripartizione per l’agricoltura.

Ciò comporta che non opera, in ogni caso, la disciplina della rinnovazione tacita, statuita dalla L. n. 203 del 1982, art. 4, per il contratto di affitto agrario.

6.1. Con il sesto motivo di ricorso il ricorrente lamenta il vizio di motivazione dell’impugnata sentenza nell’interpretare la transazione in questione come relativa alla definitiva risoluzione del rapporto agrario di affitto e non solo relativa all’indennizzo per miglioramenti.

6.2. Il motivo è inammissibile.

In tema di formulazione dei motivi del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti pubblicati dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 ed impugnati per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, poichè secondo l’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dalla riforma, nel caso previsto dall’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, la relativa censura deve contenere, un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (Cass. S.U. 1.10.2007, n. 20603; Cass. 18.7.2007, n. 16002).

Nella fattispecie manca tale momento di sintesi, ed inoltre non risultano adeguatamente specificati gli elementi motivazionali, ritenuti contraddittori.

7. Il ricorso va pertanto rigettato.

8. Con il ricorso incidentale i resistenti lamentano la violazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere il giudice di appello compensato le spese di entrambi i gradi.

9. Il motivo è infondato. In tema di regolamento delle spese processuali, il sindacato della corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa.

Pertanto esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi (Cass. 14.11.2002, n. 16012; Cass. 1.10.2002, n. 14095).

Nella specie il giudice ha motivato la compensazione delle spese sulla base della natura della controversia e dello stretto vincolo di parentela tra le parti. I ricorrenti incidentali non hanno proposto un ricorso sotto il profilo del vizio motivazionale ex art. 360 c.p.c., n. 5.

10. Il ricorrente va condannato al pagamento delle spese del giudizio di cassazione sostenute dal ricorrente e liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale e quello incidentale; e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione sostenute dai resistenti e liquidate in complessivi Euro 2200,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 9 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *