Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 12-06-2012, n. 9510 Pensione di anzianità e vecchiaia

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata in data 22 marzo 2010, la Corte d’appello di Torino, per quanto ancora rileva, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava il diritto di F.P. a percepire la pensione di anzianità con decorrenza dal 1 agosto 2006.

La Corte d’appello, dopo avere precisato che l’INPS non aveva contestato la sussistenza dei requisiti di legge per il riconoscimento della pensione, ha rilevato che, pur in assenza di un formale provvedimento di revoca o di annullamento dell’assegno ordinario di invalidità, rinnovato a seguito di domanda di conferma del 4 novembre 2005, il ricalcolo a zero dello stesso, in ragione della incumulabilità con la rendita INAIL, equivaleva a negare il diritto alla percezione del trattamento. La Corte ha infine aggiunto che negare all’assicurato di conseguire una pensione per la quale egli è in possesso dei necessari requisiti, in ragione del fatto che egli è titolare di assegno di invalidità pari a zero euro è non soltanto illogico, perchè un assegno pari a zero è un non assegno, ma anche un comportamento confliggente col principio costituzionale di cui all’art. 38 Cost., comma 2.

Avverso tale sentenza l’INPS propone ricorso per cassazione affidato ad un motivo. Resiste con controricorso il F..

L’Istituto ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo del ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e 5, l’INPS lamenta violazione e falsa applicazione della L. n 335 del 1995, art. 1, comma 43 nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione con riferimento agli artt. 115 e 116 c.p.c..

In particolare, l’Istituto ricorrente rileva che il legislatore ha disciplinato l’ipotesi della contemporanea titolarità dei due trattamenti, prevedendo che in tale ipotesi si faccia luogo non alla revoca dell’assegno, ma ad un’operazione contabile di riassorbimento della misura dell’assegno nella rendita, destinata ad essere nuovamente effettuata, nel caso di mutamento del rapporto fra i due importi. In ogni caso, la titolarità dell’assegno non è incisa e il diritto al trattamento permane sino alla naturale scadenza.

L’Istituto osserva altresì che tale ricostruzione non comporta alcuna violazione dell’art. 38 Cost., comma 2, dal momento che l’assicurato non rimane privo di mezzi, in quanto il ristoro per l’evento invalidante rimane garantito dalla rendita INAIL. L’INPS, infine, sottolinea la contraddittorietà di motivazione dei giudici di secondo grado, i quali, per un verso, avevano dato atto dell’assenza di un formale provvedimento di revoca o annullamento dell’assegno e, per altro verso, avevano tratto indizi, sia pure incidentalmente e non conclusivamente, da due documenti dell’Istituto, in cui, con linguaggio impreciso, si parla di eliminazione e di revoca.

2. Il ricorso è fondato.

2.1. Va premesso che, secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, nel sistema previdenziale le pensioni di vecchiaia e di anzianità e l’assegno di invalidità o la pensione di inabilità (L. n. 222 del 1984) costituiscono prestazioni fra loro non cumulabili, in quanto riconducibili tutte alla tutela di una situazione di bisogno, effettiva o presunta, sancita dall’art. 38 Cost. (Cass. 10 marzo 2006, n. 5310, sulla scia delle conclusioni raggiunte dalle Sezioni Unite con la sentenza 19 maggio 2004, n. 9492).

2.2. A fronte di tale premessa, le cui motivazioni non sono oggetto di critica alcuna che giustifichi una rimeditazione della questione, deve prendersi atto che l’odierno controricorrente, nel momento in cui ha presentato domanda per accedere alla pensione di anzianità (14 luglio 2006), era titolare dell’assegno ordinario di invalidità, per il triennio decorrente dal 1 marzo 2006.

2.3. L’applicazione della L. n. 335 del 1995, art. 1, comma 43 (Le pensioni di inabilità, di reversibilità o l’assegno ordinario di invalidità a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, liquidati in conseguenza di infortunio sul lavoro o malattia professionale, non sono cumulabili con la rendita vitalizia liquidata per lo stesso evento invalidante, a norma del testo unico delle disposizioni per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, approvato con D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, fino a concorrenza della rendita stessa. Sono fatti salvi i trattamenti previdenziali più favorevoli in godimento alla data di entrata in vigore della presente legge con riassorbimento sui futuri miglioramenti) non ha comportato il venir meno del diritto del ricorrente all’assegno ordinario. Come reso palese dal tenore letterale della norma, l’esistenza di una rendita vitalizia liquidata in relazione allo stesso evento invalidante determina solo l’impossibilità che l’assicurato consegua la quota di assegno sino alla concorrenza di tale rendita. Se fosse esatto che l’esistenza della prestazione INAIL incide sulla titolarità del diritto, non si intenderebbe il titolo dell’erogazione della quota di assegno, eccedente l’importo di tale prestazione, ed astrattamente conseguibile dall’assicurato.

2.4. Questa Corte ha già avuto modo di affermare il principio di diritto, secondo cui "in virtù della disposizione della l. 8 agosto 1995, n. 335, art. 1, comma 43, che vieta il cumulo delle prestazioni di invalidità a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, vecchiaia e superstiti, liquidate in conseguenza di infortunio sul lavoro o malattia professionale, con la rendita vitalizia liquidata ex D.P.R. n. 1124 del 1965 per lo stesso evento invalidante, sino a concorrenza della rendita stessa, il soggetto che goda di tale rendita, pur potendo richiedere una prestazione a carico dell’assicurazione generale in ragione delle percentuali di invalidità riconosciute per la prestazione non cumulabile, non può tuttavia ottenere che venga posta a carico dell’assicurazione generale obbligatoria la quota della prestazione corrispondente all’ammontare della rendita medesima. Tale disposizione, la cui ratio è quella di evitare che per uno stesso evento invalidante si possano conseguire pluralità di prestazioni assicurative e/o previdenziali, in dispregio ad una razionale utilizzazione delle risorse finanziarie destinate a soddisfare, in attuazione dell’art. 38 Cost., le necessità di soggetti che versino in stato di bisogno, non suscita dubbi di legittimità costituzionale in relazione al diverso trattamento dei pubblici dipendenti, dato che la stessa disposizione prevede esplicitamente, al fine di un generale allineamento delle posizioni di tutti i lavoratori e della comprensibile non eliminazione dei loro diritti quesiti, la salvezza dei trattamenti previdenziali più favorevoli in godimento alla data di entrata in vigore della legge, con riassorbimento dei futuri miglioramenti" (Cass. 29 luglio 2004, n. 14438).

2.5. A fronte di tali considerazioni, deve aggiungersi che le conclusioni raggiunte dalla Corte di merito non trovano il loro diretto fondamento nelle comunicazioni dell’Istituto nelle quali si fa riferimento ad una "eliminazione" dell’assegno e si sostiene che l’assegno è stato revocato.

La regolamentazione dei rapporti previdenziali è sottratta a valutazioni negoziali dell’INPS, chiamato solo a verificare se esistano o non i presupposti che impongono di riconoscere un determinato trattamento.

Pertanto l’argomentazione della Corte d’appello di Torino – la quale, infatti, muove dalla esatta premessa che non sussiste alcun provvedimento di revoca o di annullamento dell’assegno di invalidità – si giustifica al fine di corroborare il risultato interpretativo altrimenti raggiunto.

2.6. Il ricorso va dunque accolto, e cassata la sentenza impugnata, la causa, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, va decisa nel merito con il rigetto della domanda proposta dal F..

3. Quanto alle spese processuali, quelle dei giudizi di merito, vanno interamente compensate in considerazione dell’alternanza degli esiti;

per il criterio della soccombenza, quelle del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, vanno poste a carico del ricorrente, non potendosi fare applicazione, in mancanza di prova delle condizioni richieste per l’esenzione dal relativo onere, dell’art. 152 disp. att. c.p.c., nel testo risultante dopo la modifica introdotta dal D.L. 30 settembre 2003, n. 269, art. 42, comma 11, convertito nella L. 24 novembre 2003, n. 326 e qui da applicare, essendo stato il giudizio di primo grado instaurato con ricorso depositato il 23 maggio 2008, ossia successivamente all’entrata in vigore della suddetta modifica.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda; compensa integralmente fra le parti le spese dei gradi di merito e condanna il F. al pagamento in favore dell’INPS delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 30,00 per esborsi, oltre Euro 2.000,00 per onorari cui devono aggiungersi rimborso spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 24 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2012

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