Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 12-06-2012, n. 9505 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 9.11.2007, la Corte di Appello di Campobasso, in accoglimento dell’appello della società Poste Italiane p. a. ed in riforma dell’impugnata decisione, respingeva le domande proposte da I.F. in relazione a contratto a termine stipulato il 4.10.2000, ritenendo che la L. n. 56 del 1987, art. 23 aveva esteso la possibilità del ricorso a contratto di lavoro a termine rimettendo alla contrattazione collettiva l’individuazione delle ipotesi di applicabilità di tale tipologia di rapporto di lavoro, senza condizioni oggettive e soggettive di lavoro o anche di limiti temporali a carico del datore per procedere ad assunzioni a tempo determinato. Il rapporto di lavoro in oggetto era intervenuto in periodo di eccezionali esigenze produttive e riorganizzative della società, reiteratamente prese in considerazione dalle parti anche nel nuovo c.c.n.l. dell’11.1.2001, nella consapevolezza del non esaurimento dell’articolato ed ampio riassetto della società, specie nell’ambito del recapito postale, area operativa, onde la stipulazione del contratto a termine non era da ritenere illegittima.

Per la cassazione di tale decisione ricorre lo I., con unico articolato motivo.

Resiste con controricorso la società, che ha illustrato le proprie difese nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con unico motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione di norme di legge ed, in particolare, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1367 c.c., della L. n. 230 del 1962, art. 1, della L. n. 56 del 1987, art. 23 del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 la violazione e falsa applicazione dell’art. 8 del c.c.n.l.

26.11.1994, la violazione e falsa applicazione dei principi di ermeneutica contrattuale ex art. 1362 c.c. e segg., in riferimento all’art. 8 del c.c.n.l. del 1994, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, nonchè l’erronea, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5.

Deduce che, successivamente alla stipula del c.c.n.l. 26.11.94, in conformità alle previsioni della L. n. 56 del 1987 ed all’entrata in vigore del richiamato art. 8, era astato stipulato l’accordo del 25.9.1997, con il quale era stata individuata dalle parti sociali una nuova ipotesi di ricorso alla contrattazione a termine, motivata da esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali e che il potere derogatorio concesso ai sindacati a fronte di una delega in bianco trovava il suo termine finale alla data del 30.4.1998, con la conseguenza che il termine apposto ai contratti successivamente a tale data era da intendersi nullo. Gli accordi attuativi avevano un senso solo in funzione della previsione di una data di scadenza ed agli stessi non poteva attribuirsi una efficacia meramente ricognitiva del perdurare dei processi di ristrutturazione in atto, che, in mancanza di una deroga prevista dalle parti sociali ancorata ad una data di scadenza, non avrebbe avuto ragion d’essere. Rileva, pertanto, l’assenza di presupposto normativo per i contratti stipulati posteriormente alla prevista data, come il contratto stipulato con esso ricorrente, essendo le addotte esigenze imprevedibili e contingenti fatto noto, come del tutto prevedibile era che il complesso processo di privatizzazione non avrebbe potuto concludersi in 109 giorni, tale essendo la durata del contratto di lavoro a termine stipulato con esso ricorrente. All’esito della parte argomentativa, formula quesito di diritto con il quale domanda se, in applicazione della L. n. 230 del 1962, art. 1 e art. 2, comma 1, nonchè del combinato disposto delle norme di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, della L. n. 56 del 1987, art. 23, art. 1367 c.c. e 8 del c.c.n.l. di categoria del 26.11.1994, la stipula dei contratti a tempo determinato, in assenza di presupposti di fatto e di diritto ed anche al di fuori delle ipotesi tipiche previste ex lege, dia luogo alla declaratoria di nullità del termine apposto al contratto ed al conseguente riconoscimento dell’instaurazione di un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato sin dalla data di prima assunzione e, quindi, se il termine apposto al contratto sia valido, efficace e legittimo.

Il ricorso è inammissibile, attesa l’inidoneità del quesito, per come formulato, a porre in evidenza i termini dell’errore in diritto denunciato. Ed invero, come in più occasioni affermato da questa Corte.

Il quesito di diritto deve essere formulato, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., in termini tali da costituire una sintesi logico- giuridica della questione, così da consentire al giudice di legittimità di enunciare una "regula iuris" suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata. Ne consegue che è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione, ponendosi in violazione di quanto prescritto dal citato art. 366-bis c.p.c., si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie (cfr., in tale senso, Cass. 30.10.2008 n. 26020; conf., tra le altre, Cass. 7.4.2009 n. 8463; Cass. 25.3.2009 n. 7197).

Nella specifica materia dei contratti a termini è stato osservato anche che il quesito di diritto, richiesto dall’art. 366 bis cod. proc. civ. a pena di inammissibilità del motivo di ricorso cui accede, oltre a dover essere conferente rispetto al "decisum", deve essere formulato in modo da poter circoscrivere la pronuncia del giudice nei limiti di un accoglimento o di un rigetto del quesito medesimo, senza che esso debba richiedere, per ottenere risposta, una scomposizione in più parti prive di connessione tra loro (cfr. Cass 23.6.2008 n. 17064).

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso dello I. consegue, per il principio della soccombenza, la condanna dello stesso al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso e condanna lo I. al pagamento delle spese di lite del presente giudizio, liquidate in Euro 50,00 per esborsi, Euro 2000,00 per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 10 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2012

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