Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 12-06-2012, n. 9501

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La Corte d’Appello di Firenze, con la sentenza n. 1149 del 2009, rigettava l’impugnazione proposta da Poste Italiane spa nei confronti di M.C. in ordine alla sentenza n. 465/05, emessa il 22 marzo 2005 dal Tribunale di Firenze.

2. Quest’ultimo aveva accolto la domanda della lavoratrice, volta a far accertare la nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato con Poste Italiane spa il 12 ottobre 2002 e la conseguente trasformazione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con la condanna della società a riammettere la lavoratrice nel posto di lavoro e a pagare le retribuzioni maturate dalla data di notifica del ricorso – 31 luglio 2003.

3. Per la cassazione della sentenza d’appello ricorre Poste Italiane spa, prospettando quattro motivi di ricorso.

4. Resiste con controricorso la lavoratrice.

5. Poste Italiane spa ha depositato memoria, con la quale ha richiamato la L. n. 183 del 2010, art. 32.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso è prospettata violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) e la nullità del procedimento (art. 360 c.p.c., n. 4).

La ricorrente censura la sentenza in quanto l’interpretazione del D.Lgs. 368 del 2001, e dell’art. 11 Cost., sarebbe arbitraria e il giudice d’appello avrebbe disapplicato una disposizione normativa non perchè abbia trovato la regola iuris del caso concreto in una norma di diritto comunitario direttamente applicabile, ma semplicemente perchè la legge è apparsa in contrasto con un principio generale del diritto comunitario.

2. Con il secondo motivo d’impugnazione è dedotta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, (art. 360 c.p.c., n. 3) e la nullità del procedimento (art. 360 c.p.c., n. 4).

La cesura verte sulle affermazioni della Corte d’Appello che il rapporto tra contratto di lavoro a tempo indeterminato e a tempo determinato debba, alla luce della normativa nazionale ed europea, essere governato dal principio regola ed eccezione, e che le parti sociali possano ancora, dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 368 del 2001, intervenire nella individuazione di fattispecie autorizzatone dell’apposizione del termine con efficacia per tutti i dipendenti.

2.1. Il primo ed il secondo motivo di ricorso devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi non sono fondati.

Il contratto in esame veniva stipulato il 12 ottobre 2002. Trova, quindi applicazione il sistema, previsto dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 che, come questa Corte ha chiarito (v. Cass. 21.5.2008 n. 12985) "anche anteriormente alla modifica introdotta dalla L. n. 247 del 2007, ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l’apposizione del termine un’ipotesi derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l’apposizione del termine "per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo".

In tale seconda ipotesi, vanno quindi applicati i principi dettati da questa Corte, in ordine all’interpretazione dell’art. 1 del D.Lgs. citato.

Al riguardo, come affermato da Cass. 1.2.2010 n. 2279, "in tema di apposizione del termine al contratto di lavoro, il legislatore, richiedendo l’indicazione da parte del datore di lavoro delle "specificate ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo", ha inteso stabilire, in consonanza con la direttiva 1999/70/CE, come interpretata dalla Corte di Giustizia (…), un onere di specificazione delle ragioni oggetti ve del termine finale, vale a dire di indicazione sufficientemente dettagliata della causale nelle sue componenti identificative essenziali, sia quanto al contenuto, che con riguardo alla sua portata spazio-temporale e più in generale circostanziale, perseguendo in tal modo la finalità di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto; tale specificazione può risultare anche indirettamente nel contratto di lavoro e da esso "per relationem" ad altri testi scritti accessibili alle parti" (come accordi collettivi richiamati nello stesso contratto individuale).

In particolare, poi, come è stato precisato da Cass. 27.4.2010 n. 10033, l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, consentita dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1" a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, che devono risultare specificate, a pena di inefficacia, in apposito atto scritto, impone al datore di lavoro l’onere di indicare in modo circostanziato e puntuale, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto, le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, si da rendere evidente la specifica connessione fra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e la utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa. Spetta al giudice di merito accertare, con valutazione che, se correttamente motivata ed esente da vizi giuridici, resta esente dal sindacato di legittimità, la sussistenza di tali presupposti, valutando ogni elemento, ritualmente acquisito al processo, idoneo a dar riscontro alle ragioni specificatamente indicate con atto scritto ai fini dell’assunzione a termine, ivi compresi gli accordi collettivi intervenuti fra le parti sociali e richiamati nel contratto costitutivo del rapporto".

Con riguardo a questi ultimi questa Corte ha altresì chiarito che, seppure nel nuovo quadro normativo non spetti più un autonomo potere di qualificazione delle esigenze aziendali idonee a consentire l’assunzione a termine, tuttavia, la mediazione collettiva ed i relativi esiti concertativi restano pur sempre un elemento rilevante di rappresentazione delle esigenze aziendali in termini compatibili con la tutela degli interessi dei dipendenti, con la conseguenza che gli stessi debbono essere attentamente valutati dal giudice ai fini della configurabilità nel caso concreto dei requisiti della fattispecie legale.

Infine, con riferimento alle ragioni sostitutive, questa Corte (v.

Cass. 26-1-2010 n. 1576, Cass. 26.10.2010 n. 1577) ha precisato che "nelle situazioni aziendali complesse, in cui la sostituzione non è riferita ad una singola persona, ma ad una funzione produttiva specifica, occasionalmente scoperta, l’apposizione del termine deve considerarsi legittima se l’enunciazione dell’esigenza di sostituire lavoratori assenti – da sola insufficiente ad assolvere l’onere di specificazione delle ragioni stesse – risulti integrata dall’indicazione di elementi ulteriori (quali l’ambito territoriale di riferimento, il luogo della prestazione lavorativa, le mansioni dei lavoratori da sostituire, il diritto degli stessi alla conservazione del posto di lavoro) che consentano di determinare il numero dei lavoratori da sostituire, ancorchè non identificati nominativamente, ferma restando, in ogni caso, la verificabilità della sussistenza effettiva del prospettato presupposto di legittimità".

La Corte d’Appello, ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi, ponendo a fondamento della propria decisione la circostanza che la lavoratrice era stata assunta come portalettere per "sostenere il livello del servizio del recapito durante la fase di realizzazione dei processi di mobilità, tuttora in fase di completamento, di cui agli accordi del 17.18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2002, che prevedono al riguardo, il riposizionamento su tutto il territorio degli organici della società". Ed infatti, tale causale era prevista dall’art. 25 del CCNL del 2001, la cui efficacia veniva a scadenza il 31 dicembre del 2001, con la conseguente inefficacia della clausola appositiva del termine.

Occorre ricordare, in proposito, come la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare – oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1, e successive modifiche nonchè dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis, convertito con modificazioni dalla L. 15 marzo 1983, n. 79 – nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (principio ribadito dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con sentenza 2 marzo 2006 n. 4588), e che in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale ipotesi legittimante la stipulazione di contratti a termine, quella di cui al citato art. 25, comma 2, del c.c.n.l. 11 gennaio 2001.

L’art. 25, comma 2, del CCNL 11 gennaio 2001 prevede, infatti, quale ipotesi legittimante la stipulazione di contratti a termine, la presenza di esigenze di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi.

Tale statuizione, che costituisce la ratio decidendi della sentenza d’appello in esame, non è stata censurata con i motivi d’impugnazione, rimanendo nella difesa impugnatoria di parte ricorrente priva di riscontro la legittimità della clausola di apposizione del termine.

3. Con il terzo motivo di censura (rubricato come "quarto motivo" nel ricorso) è dedotta violazione e falsa applicazione di norme di diritto, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 4).

Con riguardo alle richieste economiche, la domanda di condanna non veniva supportata da alcun elemento probatorio idoneo a soddisfare il precetto di cui agli artt. 2697 e ss. c.c., non avendo la ricorrente fornito la prova del danno conseguito alla nullità della causale che fissa un termine al rapporto di lavoro, tenuto conto, altresì, che l’automatismo tra risarcimento e compensi retributivi perduti è da escludere ove si accerti che il danno del lavoratore si è ridotto in misura corrispondente ad altri compensi percepiti (cd. aliunde perceptum) per prestazioni lavorative svolte – nel periodo considerato – presso altri datori di lavoro.

4. Con il quarto motivo di ricorso (rubricato come "quinto motivo" nel ricorso) è prospettato il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

La Corte d’Appello avrebbe omesso di motivare in ordine all’eccezione sull’aliunde perceptum, ritenendo che l’esame della stessa avrebbe dovuto essere rimandato alla fase esecutiva.

5. I suddetti motivi, in ragione della loro connessione, devono essere trattati congiuntamente. Gli stessi sono inammissibili in ragione della statuizione della Corte d’Appello sul giudicato interno che non ha costituito oggetto di censura.

Ed infatti la Corte d’Appello ha affermato che nessuna censura era stata mossa dall’appellante in ordine alla pronuncia del primo giudice di condanna di Poste Italiane spa al pagamento delle retribuzioni maturate dal momento della notifica del ricorso – primo atto di costituzione in mora. Parimenti nessuna doglianza era stata formulata con riguardo alla mancata considerazione da parte del Tribunale dell’eventuale aliunde perceptum. Quindi la Corte d’Appello ha affermato che tali capi della sentenza, in quanto non specificamente impugnati, erano ormai da ritenersi coperti dal cd.

giudicato interno, ex artt. 346 e 329 c.p.c..

Tale decisum non ha costituito oggetto di impugnazione con l’odierno ricorso, determinandosi, quindi, l’inammissibilità dei suddetti motivi di ricorso.

6. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.

7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro trenta per esborsi, Euro duemilacinquecento per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 8 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2012

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