Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 13-06-2012, n. 9651 Procedimento e punizioni disciplinari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 15.9.2010, la Corte di Appello di Brescia rigettava la domanda proposta da D.L., riformando la decisione di primo grado che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento inflitto al predetto – a seguito della condanna definitiva dello stesso alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione per reati vari, tra i quali la concussione ed il peculato, ai danni dell’Amministrazione – con la quale l’Agenzia Regionale Protezione dell’Ambiente della Lombardia era stata condannata alla reintegrazione nel posto di lavoro del D. ed al risarcimento del danno L. n. 300 del 1970, ex art. 18 ritenuta dal giudice di primo grado non applicabile l’estinzione del rapporto di lavoro ex art. 32 quinquies c.p., per essere le pene accessorie da commisurare alla pena base inflitta per il reato continuato, nel caso in esame inferiore a tre anni.

La Corte territoriale rilevava che la sanzione di cui all’art. 32 quinquies c.p. non necessitava per il suo effetto automatico della preventiva contestazione disciplinare, come desumibile dalla lettera della L. n. 97 del 2001, art. 5 che prevedeva l’instaurazione del procedimento disciplinare a seguito di una condanna irrevocabile in sede penale solo per ipotesi diverse da quella disciplinata dall’art. 32 quinquies citato.

Aggiungeva che la L. n. 97 del 2001, art. 10 escludeva che le nuove sanzioni accessorie potessero applicarsi a procedimenti penali e disciplinari in corso, ma osservava che l’art. 5 della legge richiamata escludeva, per l’applicazione della sanzione di cui all’art. 32 quinquies c.p., ai fini degli effetti non penali, ma civilistici, la necessità di instaurare un procedimento disciplinare, poichè in tali casi la sentenza penale irrevocabile fa stato nel rapporto di lavoro e non vi è alcun margine di discrezionalità per la pubblica amministrazione.

Rilevava, poi, che lo scopo dell’art. 32 quinquies citato era quello di interrompere il rapporto di servizio quando il dipendente avesse posto in essere condotte idonee ad integrare, tra gli altri, gli estremi dei reati di concussione e peculato e quando le condotte stesse fossero state ritenute dal giudice, con sentenza definitiva, di tale gravità da essere punite con la reclusione non inferiore a tre anni, e che la tesi sostenuta dall’appellato, secondo cui doveva aversi riguardo, ai fini della sanzione accessoria, alla pena inflitta per il reato base, elidendo gi aumenti di pena per la continuazione, era in contrasto con lo scopo perseguito dalla norma, che, peraltro, nello specifico riguardava una sanzione con carattere istantaneo e definitivo, della quale non doveva essere commisurata la durata alla pena principale, secondo il meccanismo di cui all’art. 28 c.p. (interdizione dai pubblici uffici).

Per la cassazione di tale decisione ricorre, con tre motivi, il D..

Resiste, con controricorso, l’Agenzia, che illustra ulteriormente le proprie difese con memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo, il D. denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 32 quinquies c.p. e della L. 27 marzo 2001, n. 97, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè l’omessa e/o insufficiente artt. 5 e 10 e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., n. 5 rilevando che, in ordine all’inapplicabilità ratione temporis dell’art. 32 quinquies, già eccepita sia in primo che in secondo grado, il giudice del gravame non aveva fatto altro che basare le proprie argomentazioni sull’assenza nel caso considerato di un procedimento disciplinare in corso all’entrata in vigore della L. n. 97 del 2001, laddove il testo della norma transitoria di cui all’art. 10 era nel senso che la pena accessoria di cui all’art. 32 quinquies c.p. non potesse trovare applicazione neanche ai procedimenti penali in corso alla data di entrata in vigore della L. n. 97 del 2001. Nel caso in esame il procedimento penale a carico del D. era pacificamente in corso, essendo il predetto stato rinviato a giudizio con emissione del relativo decreto il 17.7.2000 ed essendosi il dibattimento aperto il 7.12.2000.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione degi artt. 32 quinquies ed 81 c.p., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè l’omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., n. 5, osservando che la sentenza di primo grado si era discostata dal consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale, ai fini della determinazione della pena accessoria, deve farsi riferimento alla pena base inflitta per il reato più grave e non a quella totale comprensiva degli aumenti per la continuazione.

Richiama costante giurisprudenza di legittimità in tal senso ed evidenzia la natura della continuazione, ritenuta rivelatrice di una minore pericolosità sociale del reo in quanto i reati scaturenti da un unico progetto criminoso posseggono un disvalore sociale inferiore rispetto a quelli originati da progetti diversi, ovvero da un delitto commesso una sola volta ma altamente offensivo. Alla stregua di tali osservazioni, ritiene che il limite di tre anni era da computare con riferimento all’entità della pena base in caso di reato continuato e che pertanto erronea sia la sentenza impugnata al riguardo.

Ciò anche in base alla considerazione che la giurisprudenza richiamata è inequivoca nel riferirsi alla pena accessoria in generale, senza alcuna distinzione tra pena accessoria "di durata" ovvero "ad effetto costitutivo immediato", atteso che, definendo il quantum di durata della pena accessoria, si estende implicitamente la sua portata all’an dell’applicabilità della stessa, che costituisce il parametro logicamente antecedente rispetto alla delimitazione del quantum stesso.

Con il terzo motivo, si duole della violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 51, comma 2, e della L. n. 300 del 1970, art. 18 ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè dell’omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., n. 5. Rileva che la controparte aveva eccepito per la prima volta in appello l’inapplicabilità del regime di tutela reale e di distinzione prettamente privatistica tra dirigente effettivo e convenzionale, donde l’inammissibilità o improponibilità in grado di appello delle suddette eccezioni, ex art. 437 c.p.c.. In ogni caso, richiama giurisprudenza di legittimità a sostegno dell’assunto secondo cui le conseguenze "dell’illegittimità del licenziamento intimato a dirigente pubblico sono quelle di cui all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ossia la reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno. Osserva, ulteriormente, che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2 citato prevede la derogabilità, ad opera di c.c.n.l. successivi, di disposizioni di legge, regolamento o statuto che introducano discipline dei rapporto di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti della P. A. e che, nel caso in esame, la disciplina dello Statuto (estesa al pubblico impiego dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 51, comma 2) era valida anche per i lavoratori privati, donde l’inderogabilità della stessa da parte di norme contrattuali successive. Pur ritenendosi assorbente il rilievo, rileva che la contrattazione collettiva non ha previsto, in ogni caso, una deroga alla tutela reale.

Il ricorso è fondato quanto al primo motivo di impugnazione.

La specifica questione posta all’esame riguarda la rilevanza di un procedimento penale in corso, ai fini della disciplina transitoria prevista dalla L. 27 marzo 2001, n. 97, art. 10 in relazione all’applicabilità delle pene accessorie ai procedimenti penali, ai giudizi civili ed amministrativi ed ai procedimenti disciplinari in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa, ed in particolare nello specifico, dell’art. 32 quinquies c.p., introdotto dall’art. 5 della suddetta legge.

Premesso che la questione dell’applicabilità ratione temporis di tale ultima norma prescinde dalla necessità dell’eccezione di parte, deve rilevarsi che la legge ha previsto che, dopo l’art. 32 quater c.p., è inserito l’art. 32 quinquies, relativo ai "casi nei quali alla condanna consegue l’estinzione del rapporto di lavoro o d’impiego", prevedendo che, "salvo quanto previsto dagli artt. 29 e 31, la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni per i delitti di cui all’art. 314, comma 1, artt. 317, 318, 319, 319- ter e 320 importa altresì l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di amministrazioni od enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica".

Il successivo art. 10 della legge citata stabilisce la disciplina transitoria, in via generale stabilendo, al comma 1, che "le disposizioni della presente legge si applicano ai procedimenti penali, ai giudizi civili e amministrativi e ai procedimenti disciplinari in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa, ma prevedendo, al comma 2, che " ai procedimenti di cui al comma 1 non si applicano le pene accessorie le sanzioni patrimoniali previste dalla presente legge, ferma restando l’applicazione delle sanzioni previgenti".

Dal combinato disposto dei due commi è dato rilevare che nel caso in esame la sanzione accessoria prevista per i reati indicati all’art. 5, comma 2 (estinzione del rapporto di lavoro o d’impiego) non può applicarsi ove il procedimento penale sia in corso, situazione verificatasi, in modo incontestato, nel caso in esame, ove il rinvio a giudizio era stato disposto con decreto del il 17.7.2000 ed il dibattimento era stato aperto il 7.12.2000.

Non essendo necessario, per quanto affermato anche dal giudice del gravame, il procedimento disciplinare, in relazione ad ipotesi in cui la sentenza penale irrevocabile fa stato nel rapporto di lavoro, è evidente che la estinzione del rapporto di lavoro non possa conseguire all’accertamento dei reati per la esistenza della stessa norma transitoria che esclude l’applicazione della sanzione al procedimenti penali in corso e, quindi, a maggior ragione, ne preclude l’effetto automatico anche in sede civilistica.

Poichè non era in corso un procedimento disciplinare alla data di entrata in vigore della L. n. 97 del 2001, art. 5, comma 4, l’estinzione del rapporto avrebbe potuto essere decisa dall’Amministrazione solo dopo aver formulato la contestazione disciplinare.

Esclusa l’applicabilità dell’estinzione automatica del rapporto di lavoro, deve, pertanto, cassarsi la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, laddove, ogni questione riguardante la considerazione o meno della pena base del reato continuato ovvero la pena complessiva ai fini della applicazione della pena accessoria deve ritenersi assorbita.

Quanto alla questione relativa alle conseguenze della ritenuta illegittimità della estinzione del rapporto di lavoro del D., questione che va rimessa al giudice del rinvio in ordine alla determinazione dell’entità del risarcimento del danno conseguente alla detta invalidità del provvedimento dell’amministrazione, vale richiamare, per quanto attiene alle conseguenze ripristinatorie del rapporto di lavoro, quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte con sentenza n. 2333 del 2007, che ha rilevato come le conseguenze della illegittimità del recesso di dirigente pubblico siano di carattere reintegratorio. E ciò in considerazione di quanto previsto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 51 che, dopo avere al comma 1 affermato che il rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche è disciplinato secondo le disposizioni dell’art. 2, commi 2 e 3, e dell’art. 3, comma 1 che comprendono anche i dirigenti, prevede, al comma 2, che la L. 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti.

Al riguardo è stato ritenuto che, poichè il rapporto fondamentale stabile dei dipendenti pubblici con attitudine dirigenziale è assimilato dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 21, a quello della categoria impiegatizia e poichè la L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 10 si riferisce ai dirigenti privati, la L. n. 300 del 1970 non si applichi con i limiti categoriali di cui alla L. n. 604 del 1966, ma che l’estensione operata dall’art. 51, comma 2 cit. si applichi anche al rapporto fondamentale di lavoro dei dirigenti pubblici (cfr. Cass. 2333/2007 cit.).

Peraltro, al di là della necessità di interpretazione del contratto collettivo di comparto applicabile, alla luce di tale interpretazione dell’art. 51 del D.Lgs. menzionato, occorre osservare che nell’ipotesi all’esame il rapporto di lavoro è stato estinto in virtù del ritenuto effetto automatico sul piano civilistico della sanzione accessoria di cui all’art. 32 quinquies c.p., ritenuta, per quanto sopra detto, inapplicabile, onde, in relazione all’accertata impossibilità di incidenza della dedotta causa estintiva, il rapporto deve considerarsi come mai interrotto nella sua funzionalità giuridica. In sostanza, il provvedimento dell’amministrazione deve ritenersi improduttivo di effetti in quanto contrario al contenuto di norma imperativa, con conseguente obbligo dell’A.R.P.A. di ripristinare "ex tunc" il rapporto ed adempiere tutte le obbligazioni nascenti dallo stesso.

La sentenza va, in conclusione, cassata in relazione al primo motivo del ricorso e rinviata alla Corte di appello designata in dispositivo, la quale valuterà i termini e le conseguenze economiche della tutela ripristinatoria, con riguardo alla effettiva quantificazione dell’obbligo risarcitorio.

Al giudice di rinvio va rimessa la determinazione delle spese di lite anche del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo ed il terzo; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte di Appello di Milano.

Così deciso in Roma, il 27 aprile 2012.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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