Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 06-10-2011) 25-11-2011, n. 43744

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con ordinanza in data 25 febbraio 2011 il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha revocato a F.L. la misura alternativa dell’affidamento terapeutico ex D.P.R. n. 309 del 1990, art. 94, concessagli a far data dal 5 gennaio 2010, in relazione alla condanna di anni 2 e mesi 10 di reclusione inflittagli dal Tribunale di Roma con sentenza divenuta irrevocabile il 18 maggio 2009, per violazione legge stupefacenti.- Il Tribunale ha disposto la revoca della misura sulla base delle seguenti considerazioni: – gli organi della comunità terapeutica residenziale, presso la quale il F. era stato ammesso, avevano riferito della resistenza da lui manifestata ad inserirsi nel programma terapeutico ed a seguire le regole dettate dal relativo contratto; – il F. aveva più volte riferito agli altri utenti la propria intenzione di abbandonare il programma, una volta terminata la misura alternativa; – il medesimo, contravvenendo alle regole della comunità, aveva indebitamente l’atto uso di un telefono cellulare ed era stato sorpreso il (OMISSIS) mentre conversava di nascosto con un cellulare, negando poi l’evidenza dei fatti; – a seguito di tale episodio il F. aveva infine scelto di abbandonare il programma. Pertanto la misura adottata nei suoi confronti – argomentava il Tribunale – si era rivelata inidonea a perseguire il suo recupero psico-fisico.- Ciò posto, il Tribunale aveva ritenuto che la revoca dovesse farsi decorrere ex tunc, dal 5 gennaio 2010, data del suo inserimento nella comunità terapeutica residenziale, risultando invero evidente che il condannato avesse dato solo formale adesione all’intrapresa misura e non avesse raggiunto un grado neppure parziale di risocializzazione.

2. Avverso tale provvedimento proponeva ricorso per cassazione l’anzidetto condannato che, per il tramite del suo difensore, ha dedotto inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nonchè motivazione illogica e contraddittoria, sostenendo che il Tribunale di Sorveglianza di Roma aveva disposto nei suoi confronti la revoca dell’affidamento terapeutico sulla sola base della relazione del responsabile della comunità terapeutica, senza consultare l’assistente sociale assegnato al condannato dal direttore dell’ufficio dell’esecuzione penale esterna e cioè del centro di servizio sociale, l’unico preposto a riferire trimestralmente agli uffici di sorveglianza in ordine al comportamento dei condannati.

Pertanto – deduceva ancora il ricorso – sia la revoca dell’affidamento terapeutico, sia la gravosa decorrenza della stessa ad oltre un anno prima costituivano una palese violazione della norma di cui alla L. n. 354 del 1975, art. 47, comma 10 e del D.P.R. n. 230 del 2000, art. 97, commi 8 e 9, oltre a porsi in contrasto con l’art. 13 della Costituzione, in quanto il mancato computo del periodo trascorso in affidamento si era tradotto nell’inflizione di un supplemento di pena illegittimo, atteso che le prescrizioni applicate al condannato con l’affidamento terapeutico comportavano significative limitazioni all’esercizio di una serie di diritti costituzionalmente garantiti. Non era stato poi tenuto conto – assumeva ancora il ricorrente;- di quanto riferito dal comandante della stazione carabinieri di Roma Aventino il quale aveva dichiarato che era stato esso F. ad essere stato estromesso dal centro di recupero, sì che non era stato lui ad abbandonare volontariamente il percorso riabilitativo; quindi la mera violazione della prescrizione intracomunitaria del divieto di utilizzare cellulari non poteva condurre alla gravissima sanzione aggiuntiva di anni uno e giorni venti di reclusione, a lui in concreto inflitta, a seguito del ritenuto esito negativo dell’intero periodo di prova.

3. Il Procuratore generale presso questa Corte depositava quindi requisitoria con la quale richiedeva annullamento parziale dell’impugnata ordinanza, ritenendo non adeguatamente motivata la revoca ex tunc. 4. Il ricorso proposto dal F., infondato in ogni sua deduzione, non può trovare accoglimento.

Va invero dapprima rilevato come il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 94, comma 6 ter affidi al responsabile della struttura presso la quale si svolge il programma terapeutico di recupero il compito di segnalare eventuali violazioni commesse dalla persona sottoposta al programma, sì che – contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente nel suo primo profilo di censura – nessun addebito può essere mosso al provvedimento impugnato per avere esso fondato esclusivamente sulla relazione del direttore della struttura il giudizio negativo formulato a carico del ricorrente, non evidenziandosi la necessità di ulteriori istruttorie cognitive. Peraltro, nel merito, il ricorrente stesso non contrasta, in sostanza, gran parte delle condotte insofferenti alla disciplina, ed in particolare la sua conclamata volontà di non compiere il percorso socio-riabilitativo, da cui deriva il giudizio di evidente solo formale adesione iniziale alla misura alternativa.

Quanto poi alla fatto che revoca sia stata disposta ex tunc, va ribadito che, alla stregua della giurisprudenza di legittimità, il Tribunale di sorveglianza, nel procedere alla revoca dell’affidamento terapeutico, è tenuto a determinare il periodo di pena da considerarsi eventualmente scontato da parte del condannato, procedendo ad un’attenta disamina del periodo di prova trascorso dallo stesso e delle limitazioni ivi patite, onde stabilire, al là di ogni automatismo, se ed eventualmente fino a qual punto possa ragionevolmente ritenersi che l’affidato abbia raggiunto un grado sia pur parziale di risocializzazione (cfr. Cass. Sez. 1 n. 5128 del 22/09/1997 dep. l’8/10/1997, PG in proc. contro De Pascale, Rv.

208585). Nella specie, dunque, il Tribunale, con motivazione incensurabile nella presente sede di legittimità, siccome conforme ai canoni della logica e della non contraddizione, ha indicato in modo valido, seppur sintetico, i motivi per i quali ha ritenuto che l’intero periodo trascorso dal ricorrente presso la comunità terapeutica non fosse computabile come pena espiata, avendo fatto riferimento al costante atteggiamento non collaborativo da lui tenuto ed al fatto che il medesimo abbia dato prova di avere costantemente considerato il periodo da lui trascorso in affidamento terapeutico come un sistema per evitare l’espiazione della pena in carcere e non come percorso riabilitativo psico-fisico, finalizzato al suo recupero ed al reinserimento nella vita civile. In tal senso va qui rilevato come neppure il ricorrente possa affermare – nè su ciò in alcun modo si sofferma il ricorso – di avere avuto un qualche positivo esito dai trattamenti, con apprezzabili risultati. Trattasi, dunque, di motivazione del tutto corretta, conforme ai parametri di legge ad alla giurisprudenza di questa Corte di legittimità, per nulla incisa dalle contrarie affermazioni del condannato, odierno ricorrente, in gran parte autoreferenziali ed apodittiche, ovvero non prive di rilevabile genericità. In particolare, quindi, non può essere accolto il parere del P.G. in sede, posto che la motivazione adottata dal Tribunale non si fonda "sulla gravità della violazione contestata" – come inesattamente rilevato – bensì proprio sulla inconcludente condotta del condannato durante la precedente fruizione del beneficio.

In definitiva il ricorso, infondato in ogni sua deduzione, deve essere rigettato. Segue ex lege, in forza del disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente F.L. al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 25 novembre 2011

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