Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 06-10-2011) 25-11-2011, n. 4 2 Trattamento penitenziario,

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con decreto in data 12.1.2010, il Ministro della Giustizia applicava nei confronti di C.G. nuova sospensione delle regole del trattamento penitenziario ordinario, ai sensi della L. n. 354 del 1975, art. 41 bis, comma 2, (ordinamento penitenziario), come modificato dalla L. 15 luglio 2009, n. 94.

Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di Sorveglianza di Roma, investito del reclamo proposto dal C., riteneva violati i limiti di durata previsti (in caso di proroga) dall’art. 41 bis, comma 1 bis, e riduceva per l’effetto a due anni la durata della rinnovata sospensione delle regole ordinarie. Respingeva nel resto le censure del C..

2. Ha proposto ricorso il detenuto, a mezzo del difensore avvocato Nicolo Gervasi, che chiede l’annullamento del provvedimento denunziando violazione di legge e vizi di motivazione.

2.1. Con il primo motivo lamenta che il Tribunale di sorveglianza non aveva affrontato adeguatamente il problema della qualificazione del decreto alla stregua di proroga, ovvero prima applicazione, ovvero, ancora, ripristino del regime detentivo speciale. Il Tribunale aveva, difatti, nella sostanza considerato il emesso in data 12.1.2010, come se costituisse una proroga del precedente regime. Avrebbe dovuto invece rilevare che la precedente sottoposizione al regime differenziato, che era stata interrotta a seguito dell’accoglimento del reclamo da parte del Tribunale di sorveglianza – pur annullato con rinvio dalla Corte di cassazione – era ripresa a seguito del provvedimento del giudice del rinvio, in data 22.7.2009. Sicchè il condannato aveva, alla data del decreto impugnato, ancora da patire un regime differenziato che, secondo le regole previgenti e le prescrizioni in concreto imposte, sarebbe stato meno gravoso, di 8 mesi e 25 giorni.

2.2. Con il secondo motivo denunzia che, dovendosi considerare il decreto oggetto di reclamo alla stregua di una prima applicazione, si sarebbe dovuto constatare la sua difformità rispetto al modello legale, che richiedeva la prova della sussistenza di legami con un’associazione criminale e non poteva essere riferito apoditticamente alla già valutata pericolosità nè motivato come si trattasse di mera proroga.

Si assume, in altri termini, che il decreto poteva essere emesso soltanto sulla base di elementi nuovi – ad esempio riferiti a circostanze o comportamenti interessanti il biennio durante il quale, annullato il regime ex art. 41 bis, il C. era stato assegnato al circuito E.I.V. (ora A.S.l) – non valutati nei precedenti decreti.

Non poteva, invece, riferirsi alle vicende, "antiche", concernenti la moglie e il figlio del ricorrente, con il quale questo aveva interrotto i rapporti (cosa agevolmente riscontrabile in base ai colloqui), o ad altra famiglia mafiosa, nè poteva in esso omettersi di considerare la vita "monastica" e solitaria, e il comportamento ineccepibile, tenuti dal ricorrente dal giorno del suo arresto. Il decreto si esprimeva, per altro, in termini affatto generici in punto di collegamenti del detenuto con la criminalità organizzata (che la modestia delle somme da lui ricevute avrebbe dovuto, al contrario, fare escludere).

Motivi della decisione

1. Osserva il Collegio che il primo motivo di ricorso è infondato.

Intervenuta la L. n. 94 del 2009, che ha in parte modificato i contenuti del regime di sospensione, previsto dall’art. 41 bis ord. pen, delle regole intramurali comuni, correttamente è stato emesso nei confronti del C. un nuovo provvedimento, al fine di porre in esecuzione le nuove regole e consentire allo stesso di proporre reclamo.

Correttamente, quindi, il Tribunale ha qualificato tale provvedimento alla stregua di una sostanziale proroga dei precedenti decreti di sottoposizione al regime speciale: novati, in effetti, soltanto con riguardo alle modalità di applicazione del regime speciale, considerata la già scrutinata validità e la persistenza delle ragioni che ne avevano legittimato l’adozione. E siffatta qualificazione, riducendo da un lato la durata degli effetti del provvedimento a due anni, in luogo dei quattro imposti; anticipando dall’altro il termine di efficacia della precedente proroga, è in favore del condannato.

2. Inammissibile è, per conseguenza, il secondo motivo, laddove denunzia la motivazione del provvedimento impugnato partendo dall’erroneo presupposto che il decreto oggetto di reclamo doveva considerarsi come se avesse disposto "una nuova (prima) applicazione" del regime speciale, e sostiene perciò che si sarebbero dovuti considerare, ai fini della pericolosità e dei collegamenti con l’associazione di stampo mafioso di provenienza, soltanto gli elementi sopravvenuti ai precedenti periodi di sottoposizione al regime di cui all’art. 41 bis.

La fletto iuris evocata dal ricorrente non ha base giuridica ed essendo incontestabile che il condannato era stato nel passato già sottoposto alla sospensione del regime ordinario di trattamento, interrotto solo in forza di provvedimento annullato, correttamente il Tribunale ha richiamato le circostanze che avevano determinato l’imposizione del regime, e ha quindi concentrato il suo esame sull’assenza di elementi idonei a dimostrare che il pericolo che il condannato avesse contatti con associazioni criminali o eversive non poteva ritenersi venuto meno, facendo applicazione dei principi che secondo la giurisprudenza costituzionale (Corte cost., sentenze nn. 349 e 410 del 1993, 351 del 1996, 376 del 1997; ordinanza n. 417 del 2004;

sentenza n.) e di legittimità (Sez. 1, n. 4599 del 26/01/2004, Zara;

Sez. 1, n. 4480 del 10/12/2004, Galatolo; Sez. 1 n. 14551 del 3/3/2006, Di Giacomo; Sez. 1 n. 15283 del 30/03/2006, Orefice; sez. 1, n. 12477 del 16.1.2007, Putrone; Sez. 1) rendono l’istituto compatibile con il rispetto dei diritti fondamentali e legittima la sua applicazione.

3. Per il resto, il ricorso articola doglianze sulla motivazione improponibili in questa sede, giacchè avverso il decreto del Tribunale che decide sul reclamo ex L. n. 354 del 1975, art. 41 bis, il ricorso è ammesso solo per violazione di legge.

Ora è vero che nella nozione di violazione di legge rientra la mancanza o la mera apparenza della motivazione, ma questo non è il caso del provvedimento impugnato, che non soltanto non ha omesso di considerare se sussistevano elementi capaci di far ritenere cessato Il pericolo di collegamenti con la criminalità mafiosa, ma ha sul punto offerto giustificazioni plausbili e adeguate, che il ricorrente confuta opponendo meri argomenti di fatto, per di più privi di autosufficienza.

Basterà a tale proposito perciò ricordare che, a giustificazione della decisione, il Tribunale non s’è limitato a riprodurre un escursus di principi giurisprudenziali o a richiamare genericamente gli argomenti dei precedenti decreti, ma ha articolatamente affermato che doveva ritenersi persistente la pericolosità qualificata e la capacità del sottoposto di tenere collegamenti con l’associazione criminale d’appartenenza sulla scorta degli specifici elementi indicati nei pareri della DDA di Palermo in data 24.11 e 29.12.2009, dalla DDA di Firenze in data 27.10.2009, dalla DNA il 15.12.2009, in particolare evidenziando: la sua qualità di uomo di onore ed esponente di primo piano della famiglia mafiosa di Castellammare del Golfo; il suo ruolo di spicco nell’organizzazione "Cosa nostra" delle province di Trapani e di Alcamo (mandamento vitale e pericoloso, secondo quanto emergeva dalla ordinanza cautelare 27.10.2009 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo); il coinvolgimento mafioso dei suoi familiari (moglie e figlio, arrestati nel 2004); la perdurante latitanza di pericolosi esponenti del gruppo mafioso; la assenza di qualsivoglia elemento da cui indurre un mutamento del ruolo; il tenore elevato di vita dei familiari nonostante la mancanza di attività lavorative lecite; l’assenza di suoi comportamenti in conflitto con l’appartenenza mafiosa (la mancanza cioè di un qualunque segnale di "ravvedimento").

4. Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

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