Cass. civ. Sez. V, Sent., 13-06-2012, n. 9627 Liquidazione dell’imposta Pagamento dell’imposta

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

La società Benazzato Gru spa ricorre nei confronti di I.C.A. – Imposte Comunali Affini – srl e del Comune di Siena per la cassazione della sentenza con cui la Commissione Tributaria Regionale della Toscana, riformando la sentenza di primo grado, ha respinto il ricorso della società avverso l’avviso di accertamento n. 439 del 15.9.06 emesso dall’I.C.A. – nella qualità di concessionario del Comune di Siena per il servizio di liquidazione, accertamento e riscossione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni – per imposta sulla pubblicità 2006.

Con detto avviso di accertamento 1T.C.A. aveva ritenuto soggetti all’imposta di pubblicità due cartelli riportanti la scritta "Benazzato" collocati su una gru, fabbricata dalla contribuente, che era stata montata in un cantiere edile nel territorio comunale.

Il ricorso della Benazzato Gru spa si fonda su sette motivi.

L’I.C.A. si è costituita depositando controricorso.

La causa è stata discussa alla pubblica udienza del 28.2.12, in cui il P.G. ha concluso come in epigrafe.

Motivi della decisione

In via preliminare la Corte rileva l’inammissibilità del controricorso dell’I.C.A, (nonchè, ai sensi dell’ultimo alinea dell’art. 370 c.p.c., comma 1, della memoria difensiva da questa depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c.), in quanto detto controricorso non è stato notificato alla ricorrente; dagli atti depositati dalla contro ricorrente, infatti, non risulta documentata alcuna ulteriore attività notificatoria successiva ad un tentativo conclusosi con una relata negativa, effettuato il 9.2.11 presso l’avvocatessa Cinzia De Micheli, difensore domiciliatario della ricorrente, a un indirizzo (Via della Mercede 52, in Roma) diverso dal domicilio eletto nel ricorso (via Tacito 23, in Roma).

Passando all’esame dei motivi di ricorso, si osserva quanto segue.

Col primo motivo – rubricato: "Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 639 del 1972, art. 5, (art. 360 c.p.c., n. 3)" – la ricorrente censura l’affermazione della sentenza gravata secondo cui i due cartelli per cui è causa "paiono assolutamente integrare il presupposto di imponibilità di cui al D.P.R. n. 639 del 1972, art. 5"; al riguardo la ricorrente argomenta che la Commissione Tributaria Regionale avrebbe violato appunto il D.P.R. n. 639 del 1972, art. 5, richiamandolo impropriamente, perchè esso non concerne la definizione del presupposto d’imposta, bensì la facoltà dei Comuni di suddividere le località del proprio territorio ai fini della tariffazione dell’imposta. Il motivo è infondato, perchè l’errore della Commissione Tributaria Regionale nella citazione della norma applicata alla fattispecie – oltre che facilmente riconoscibile come lapsus calami (essendo palese che l’estensore della sentenza gravata intendeva riferirsi al D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 5) – è comunque irrilevante, posto che la norma pretesamente violata, per un verso, è abrogata e, per altro verso, ha un contenuto precettivo del tutto estraneo alla ratio decidendi. Col secondo motivo del ricorso – rubricato: "Omessa o insufficiente valutazione circa fatti decisivi per la decisione (art. 360 c.p.c., n. 5) relativamente al secondo capo della sentenza (afferente alla valutazione della sussistenza dei presupposti per procedere a tassazione)" – la ricorrente lamenta l’apoditticità del riferimento della sentenza gravata al fatto che i due cartelli avessero dimensioni di mq 5 ciascuno; rileva in proposito la ricorrente che nella sentenza non si esplicita da dove la Commissione Tributaria Regionale tragga il convincimento che i due cartelli fossero delle dimensioni di mq 5 ciascuno, a fronte di risultanze processuali contrastanti, così riepilogate a pag. 18 del ricorso per cassazione: a) l’avviso di accertamento impugnato, nel quale si parla di 2 cartelli delle dimensioni complessive di mq 10;

b) la memoria versata dall’I.C.A. in primo grado, nella quale si parìa di 1 cartello di mq 2; c) l’atto di appello dell’I.C.A., nel quale si parla di 2 cartelli di mq 2.

Il motivo è inammissibile, perchè il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, deve riguardare un fatto "controverso", oltre che "decisivo", laddove i fatti su cui incide il vizio motivazionale censurato col motivo in esame non sono controversi. L’accertamento del giudice di merito sul numero e la dimensione dei cartelli de quibus, infatti, si fonda sulle indicazioni contenute nell’avviso di accertamento impugnato, le quali non hanno formato oggetto di specifica contestazione nel ricorso introduttivo proposto dalla contribuente in primo grado, come si rileva dalla sintesi del contenuto di tale ricorso che si legge nelle pagg. 2-5 del ricorso per cassazione. Con il terzo e il quarto motivo di ricorso – pur essi, entrambi, rubricati "Omessa o insufficiente valutazione circa i fatti decisivi per la decisione (art. 360 c.p.c., n. 5) relativamente al secondo capo della sentenza (afferente alla valutazione della sussistenza dei presupposti per procedere a tassazione)" – la ricorrente afferma che la statuizione della sentenza gravata secondo cui "sarebbe innegabile che i suddetti cartelli rechino di per sè un messaggio pubblicitario tale da sollecitare la domanda del bene sul quale sono posti, tanto più se, come nel caso di specie, vengono collocati in luogo soggetto ad essere visto da un numero indeterminato di destinatari, astrattamente possibili acquirenti" sarebbe viziata da insufficienza motivazionale per non avere la Commissione Tributaria Regionale esplicitato le ragioni di tatto da cui aveva tratto il convincimento che:

per un verso (motivo terzo), la scritta "Benazzato" fosse idonea a pubblicizzare in Toscana un’attività imprenditoriale di produzione di gru esercitata in Piemonte, ancorchè detta scritta non fosse accompagnata da altra specificazione e, in particolare, dall’indicazione della ragione sociale completa ("Benazzato Gru spa"), della sede e dell’oggetto della produzione;

per altro verso (motivo quarto), il luogo in cui erano stati collocati i cartelli fosse "soggetto ad essere visto da un numero indeterminato di destinatari, astrattamente possibili acquirenti"; e, ciò, nonostante che dalle fotografie in atti non emergesse alcun elemento relativo all’accessibilità al pubblico del cantiere in cui era collocata la gru sui cui erano apposti i cartelli. Al riguardo va preliminarmente sottolineato che, per costante insegnamento di questa Corte, per poter configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza; precisandosi altresì che il mancato esame di elementi probatori contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato (vedi, tra le tante, Cass. 5473/06, 14973/06, 21249/06).

Tanto premesso, si rileva che, nella specie, il giudice territoriale ha ritenuto – sulla scorta degli atti di causa (fotografie e verbale di constatazione) – che i cartelli de quibus assolvessero ad una funzione pubblicitaria per le loro dimensioni, per la forma e presentazione grafica e perchè collocati in luogo soggetto ad essere visto da un numero indeterminato di persone. La censura di omessa o insufficiente motivazione avanzata dalla ricorrente si appunta su fatti – la mancanza, nei cartelli, della ragione sociale completa, dell’indirizzo e dell’indicazione dell’attività della società Benazzato, nonchè la non accessibilità al pubblico del cantiere dove si trovavava la gru su cui erano collocati i cartelli – la cui considerazione non avrebbe portato con certezza ad esiti decisionali differenti, ben potendo ipotizzarsi, quanto al primo profilo, che l’effetto pubblicitario operi già con la mera esposizione del cognome incorporato nella ragione sociale, e, quanto al secondo profilo, che un cartello apposto su una gru sia visibile, per la sua altezza, anche da chi transiti all’esterno del cantiere in cui la gru è installata.

I motivi pertanto vanno disattesi, perchè essi – basandosi su circostanze la cui considerazione non avrebbe portato necessariamente ad un esito decisionale diverso – non censurano un vizio motivazionale, ma si risolvono in una inammissibile richiesta alla Corte di cassazione di operare una rivalutazione di merito delle risultanze istruttorie del giudizio (si veda ancora, da ultimo, Cass. 6288/11; "Il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione"). Il quinto motivo del ricorso è rubricato: "Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 507 del 1993, art. 6, (art. 360 c.p.c., n. 3) relativamente al terzo capo della sentenza (afferente alla individuazione del soggetto principale dell’imposta e di quanto da essa conseguente)". Con tale motivo la ricorrente censura la sentenza gravata per aver ritenuto valido un avviso di accertamento notificato esclusivamente alla società Benazzato, soggetto pubblicizzato, e non anche al soggetto che disponeva della gru su cui insistevano i cartelli, ossia del mezzo di diffusione pubblicitaria, ancorchè costui non risultasse irreperibile. In proposito la ricorrente – dopo aver sottolineato che anche il Ministero delle Finanze, nella circolare n. 10 del 17.3.94, aveva affermato che l’avviso di accertamento dell’imposta sulla pubblicità sarebbe stato da notificare al soggetto pubblicizzato solo nel caso in cui colui che disponeva del mezzo pubblicitario fosse risultanto insolvente o irreperibile – argomenta che l’interpretazione seguita nella sentenza gravata del D.P.R. n. 507 del 1993, art. 6, comma 2, porrebbe una questione di legittimità costituzionale di tale disposizione, con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede che l’accertamento venga notificato al soggetto pubblicizzato (obbligato solidale) successivamente (o quanto meno contestualmente) alla notifica a colui che dispone del mezzo attraverso il quale il messaggio pubblicitario viene diffuso (obbligato principale).

Il motivo è infondato.

Questa Corte ha già espresso, nella sentenza n. 7314/05, i seguenti principi, ai quali il Collegio intende dare continuità:

– L’obbligazione tributaria, quale sottospecie delle obbligazioni pubbliche, non si differenzia nella sua struttura, una volta venuta ad esistenza, dalle obbligazioni di diritto privato: la solidarietà deve essere ricondotta integralmente alle regole concernenti la solidarietà di diritto comune, sia sotto l’aspetto sostanziale che per quanto concerne la disciplina processuale (Cass. Sez. Un. 2580/1973).

– Le obbligazioni solidali pongono i debitori in un piano di parità nel confronti del creditore e la solidarietà non è esclusa dal fatto che i singoli debitori siano tenuti ciascuno con modalità diverse (art. 1293 c.c.).

– Il vincolo di solidarietà di cui al D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 6, connota storicamente la disciplina dell’imposta di pubblicità, essendo previsto già nella previgente normativa di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 639, art. 7, che espressamente recitava: "l’imposta è dovuta in solido da chiunque effettua la pubblicità e da chi produce o vende la merce o fornisce i servizi oggetto della pubblicità stessa"; in relazione a detta normativa, questa Corte aveva già avuto modo di precisare che – ai sensi del D.P.R. n. 639 del 1972, art. 7, – il soggetto passivo dell’imposta sulla pubblicità era tanto chi effettuava la pubblicità quanto chi produceva o vendeva la merce o forniva i servizi oggetto della pubblicità stessa (Cass. 8220/1993).

All’esito della sentenza 557/2000 della Corte Costituzionale, possono escludersi profili illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 6, comma 2, con riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., nella parte in cui non dispone la preventiva escussione dell’obbligato principale e non condiziona il sorgere dell’obbligatone solidale all’esistenza di un effettivo rapporto giuridico – economico tra i due soggetti.

La disciplina non prevede a favore del soggetto pubblicizzato alcuna forma di beneficium excussionis e comunque, in relazione alla solidarietà passiva, la particolarità di assegnare ad uno dei condebitori un determinato vantaggio – sia che si risolva nell’onere per il creditore di chiedere in primo luogo l’adempimento ad un altro debitore (c.d., beneficio d’ordine), sia che consista nel più gravoso onere per il creditore di escutere preventivamente il patrimonio di un altro debitore (c.d. beneficium excussionis) – concerne solamente la fase di esercizio del credito, senza tuttavia che, in considerazione di tale vantaggio, si possa ritenere che l’obbligazione del debitore solidale non possa coesistere con le altre secondo lo schema della solidarietà passiva. Sulla scorta di detti principi, deve escludersi che, in materia di imposta di pubblicità, la legittimità dell’avviso di accertamento al soggetto pubblicizzato dipenda dalla previa o contestuale emissione di altro avviso nei confronti del soggetto che dispone del mezzo attraverso il quale il messaggio pubblicitario viene diffuso. Tale conclusione non ha – al contrario di quanto paventato dalla difesa della ricorrente – portata abrogatrice dell’espressione "in vìa principale " con cui il D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 6, comma 1, descrive la modalità con la quale è tenuto al pagamento dell’imposta chi dispone del mezzo attraverso il quale il messaggio pubblicitario viene diffuso, giacchè tale espressione vale a fondare a favore del soggetto che produce o vende la merce o fornisce i servizi oggetto della pubblicità (non un, inesistente, "beneficio d’ordine", ma) il diritto di rivalsa nei confronti di chi dispone del mezzo attraverso il quale il messaggio pubblicitario viene diffuso (vedi C. Cost.

557/2000: "alla solidarietà passiva nel senso sopra precisato si ricollegano quali necessari corollari il diritto di rivalsa dell’obbligato solidale nei confronti del debitore principale e il diritto al risarcimento del danno nel caso in cui la diffusione del messaggio pubblicitario avvenga in difformità o, come di fatto possibile, in difetto di un sottostante rapporto giuridico").

Manifestamente infondato, infine, appare il dubbio di illegittimità costituzionale della normativa in esame, sollevato dalla ricorrente con riferimento al paramentro dell’art. 24 Cost., in quanto la solidarietà passiva nell’obbligazione tributaria – dalla quale discende la legittimità dell’emissione di un avviso di accertamento nei confronti di uno soltanto dei coobligati – pertiene ai profili sostanziali, e non processuali, del rapporto tributario.

Con il sesto motivo – rubricato: "Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 507 del 1993, art. 10, comma 3, e L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 87, art. 360 c.p.c., n. 3) relativamente al quarto capo della sentenza (afferente alla legittimità dell’apposizione di firma a stampa sull’avviso di accertamento impugnato)" – la ricorrente censura la sentenza gravata per aver ritenuto legittimo l’avviso di accertamento ancorchè il medesimo non recasse alcuna sottoscrizione, ma solo l’indicazione a stampa del nome del legale rappresentate dell’I.C.A.; indicazione che – secondo la ricorrente – non sarebbe stato possibile equiparare alla sottoscrizione, non avendo mai l’I.C.A. prodotto in giudizio alcun provvedimento di livello dirigenziale contenente il nominativo del funzionario responsabile e la fonte dei dati.

Il motivo è fondato.

Il D.P.R. n. 507 del 1993, art. 10, – abrogato dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 172, lett. b), con decorrenza 1.1.2007, ma applicabile ratione temporis perchè l’avviso impugnato è stato emesso il 15.9.06 – recita, nel comma 3: "Gli avvisi di accertamento sono sottoscritti dal funzionario designato dal comune per l’organizzazione e la gestione dell’imposta, ovvero, nel caso di gestione in concessione, da un rappresentante del concessionario"; la L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 87, a propria volta, recita: "La firma autografa prevista dalle norme che disciplinano i tributi regionali e locali sugli atti di liquidazione e di accertamento è sostituita dall’indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile, nel caso che gli atti medesimi siano prodotti da sistemi informativi automatizzati. Il nominativo del funzionario responsabile per l’emanazione degli atti in questione, nonchè la fonte dei dati, devono essere indicati in un apposito provvedimento di livello dirigenziale".

E’ necessario esaminare partitamente le due disposizioni appena trascritte, per coglierne l’esatto contenuto precettivo con riferimento all’ipotesi, che qui interessa, in cui l’imposta di pubblicità sia gestita in concessione.

Il D.P.R. n. 507 del 1993, art. 10, stabilisce che, in caso di imposta gestite in concessione, l’avviso di accertamento è sottoscritto da un rappresentante del concessionario. La legge non contempla espressamente l’ipotesi che l’avviso di accertamento venga sottoscritto direttamente dal concessionario, vale a dire dall’imprenditore individuale titolare della concessione o dalla persona fisica che ha la legale rappresentanza della società titolare della concessione. Ciò però non può indurre a ritenere che la norma imponga in ogni caso al concessionario della gestione dell’imposta di nominare un proprio rappresentante. Se questa fosse stata la volontà del legislatore, ciò sarebbe dovuto risultare da una previsione espressa e, peraltro, una simile disposizione non risulterebbe immune da dubbi di legittimità costituzionale, con riferimento al parametro dell’articolo 41 Cost.; per contro – coerentemente con la ratio della disposizione, che è evidentemente quella di rendere più snella l’attività dei soggetti pubblici (i comuni) o privati (i concessionari) che gestiscono l’imposta sulla pubblicità, legittimando alla sottoscrizione degli avvisi di accertamento i funzionari del comune o i rappresentanti del concessionari – deve ritenersi che la disposizione in commento va intesa nel senso di legittimare alla firma dell’avviso di accertamento in materia di imposta sulla pubblicità un rappresentante del concessionario, ove un rappresentante sia stato nominato; ferma restando la possibilità che, in caso contrario, l’avviso venga firmato personalmente dal concessionario. In definitiva, quindi, dal D.P.R. n. 507 del 1993, art. 10, si desume che, in caso di imposta gestita in concessione, l’avviso di accertamento deve essere sottoscritto dal concessionario o da un suo rappresentante.

Passando all’esame della L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 87, si osserva che esso contiene due disposizioni. Con la prima, si stabilisce che, negli atti di liquidazione e di accertamento dei tributi regionali e locali che siano prodotti da sistemi informativi automatizzati, la firma autografa è sostituita dalla indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile; con la seconda, si stabilisce che il nominativo del funzionario responsabile per l’emanazione degli atti in questione, nonchè la fonte dei dati, vengano indicati in un apposito provvedimento di livello dirigenziale. La ratio legis è chiara: il legislatore ha voluto favorire rinformatizzazione delle procedure di liquidazione e accertamento dei tributi regionali e locali consentendo che gli atti prodotti da tali procedure non rechino alcuna firma autografa, bensì la sola indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile della loro emanazione; al contempo, però, ha previsto – a garanzia del contribuente e, in generale, della trasparenza dell’azione amministrativa – che il nome del soggetto responsabile (nonchè la fonte dei dati utilizzati nelle procedure di liquidazione e accertamento dei tributi) risultino da un apposito provvedimento di livello dirigenziale; cosicchè il cittadino possa in ogni tempo, accedendo al provvedimento che contiene l’indicazione del nome del soggetto responsabile dell’emanazione degli atti impositivi, verificare che il nominativo indicato a stampa in calce all’atto impositivo corrisponda effettivamente a quello del soggetto responsabile dell’emanazione dell’atto medesimo. Per l’affermazione che la firma autografa è legittimamente sostituita dall’indicazione a stampa del nominativo del funzionario responsabile, negli atti impositivi relativi a tributi locali, solo se tale nominativo risulti da un apposito provvedimento di livello dirigenziale, si vedano i precedenti di questa Corte nn. 13231/09, 25573/09, 15447/10,3941/11.

Se la ratio della L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 87, è chiara, non può tuttavia non evidenziarsi che la relativa formulazione non si coordina agevolmente con l’ipotesi di gestione dell’imposta in regime di concessione. In particolare, il testo del secondo alinea del comma risulta calibrato esclusivamente sull’ipotesi di gestione diretta dell’imposta da parte dell’ente pubblico impositore, come emerge sia dal riferimento al "nominativo del funzionario responsabile", che trascura del tutto l’ipotesi che l’atto impositivo sia emesso da un concessionario, personalmente o tramite suoi rappresentanti non qualificabili come funzionari, sia, e soprattutto, dal riferimento ad un "provvedimento di livello dirigenziale", che rimanda inevitabilmente ad un atto della pubblica amministrazione, ossia all’atto di un dipendente, con qualifica dirigenziale, dell’ente locale o della regione. Poichè, per contro, la persona alla quale, nell’ambito dell’impresa concessionaria dell’imposta, viene affidata la responsabilità dell’emanazione degli atti impositivi non può che essere indicata dal titolare dell’impresa stessa (e non da un dirigente dell’ente locale o della regione concedente), non vi è spazio, nell’ipotesi di gestione dell’imposta in concessione, per l’adozione di un "provvedimento di livello dirigenziale" avente ad oggetto l’indicazione del responsabile dell’emanazione degli atti impositivi. La conclusione ora illustrata, tuttavia, non può condurre nè alla conclusione che, nell’ipotesi di imposta gestita in concessione, non trovi applicazione l’intera L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 87, nè alla conclusione che in detta ipotesi non trovi applicazione il solo secondo alinea di tale comma;

nulla infatti consente di affermare che l’esigenza di semplificazione e snellimento dell’azione impositiva delle regioni e degli enti locali, a cui è orientato il primo alinea del comma, e, per contro, l’esigenza di garantire la trasparenza e la legalità dell’azione amministrativa, a cui è orientato il secondo alinea del comma, non operino egualmente, entrambe, tanto nel caso in cui l’imposta sia gestita direttamente dall’amministrazione quanto in quello in cui l’imposta sia gestita da un privato concessionario. Deve pertanto affermarsi una intepretrazione teleologia del secondo alinea della L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 87, secondo cui, anche qualora l’imposta sia gestita da un concessionario, sugli atti di liquidazione e di accertamento prodotti da sistemi informativi automatizzati la firma autografa è sostituita dall’indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile, purchè tale nominativo, nonchè la fonte dei dati, risultino indicati in un apposito atto sottoscritto dal concessionario (o da altro soggetto che da questi abbia ricevuto il relativo potere), destinato ad assolvere alla stessa funzione assolta, nell’ipotesi di gestione diretta dell’imposta da parte dell’ente pubblico impositore, dal "provvedimento di livello dirigenziale" di cui al secondo alinea della L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 87. Corollario di tale ermeneusi normativa è che – quand’anche, come nella specie, il concessionario (ossia il legale rappresentate della società concessionaria) non abbia proceduto alla nomina di alcun soggetto responsabile della procedura di liquidazione e accertamento dell’imposta, mantenendo tale responsabilità direttamente su di sè, è comunque necessario, ai fini della validità dell’atto impositivo prodotto da sistemi informativi automatizzati in cui la firma autografa sia sostituita dall’indicazione a stampa del nominativo del concessionario, che quest’ultimo – con scrittura di data certa anteriore all’emissione dell’atto impositivo – abbia indicato se stesso come responsabile dell’emanzione degli atti di liquidazione ed accertamento del tributo. Solo con tale atto, infatti, risulta soddisfatta, anche nel caso di imposta gestita tramite concessionario, l’esigenza, presidiata dal secondo alinea della L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 87, di mettere il contribuente in condizione di verificare, con la stessa immediata speditezza con cui può accedere al "provvedimento di livello dirigenziale" menzionato da detta disposizione, se il nominativo indicato a stampa in calce all’atto impositivo emesso dall’impresa concessionaria corrisponda a quello della persona tìsica concretamente investita, in base alle scelte organizzative concretamente adottate da tale impresa, della specifica responsabilità dell’emanazione degli atti impositivi;

senza che gravi sul contribuente l’onere di svolgere specifiche ricerche volte alla identificazione del titolare dell’impresa concessionaria e, in caso di società, del titolare (o dei titolari) dei relativi poteri rappresentativi e degli ambiti e limiti di detti poteri.

La sentenza gravata, affermando che il requisito della sottoscrizione dell’avviso di accertamento risulterebbe soddisfatto dalla mera "presenza sullo stesso del nome dell’amministratore unico della società di riscossione", si è posta in contrasto con i principi sopra esposti e pertanto il sesto motivo di ricorso va accolto.

Il settimo motivo del ricorso è rubricato: "Error in procedendo (art. 360 c.p.c., n. 4) in relazione all’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia su un motivo di appello incidentale espressamente formulato (carenza di motivazione sotto il profilo di omessa allegazione di atti espressamente richiamati nell’avviso di accertamento)". Con tale motivo la ricorrente espone di aver riproposto in secondo grado, mediante appello incidentale subordinato, la deduzione – ritenuta assorbita dalla sentenza di prime cure – del vizio di motivazione dell’avviso di accertamento impugnato, e lamenta l’omessa pronuncia della Commissione Tributaria Regionale sull’appello incidentale.

Il motivo è fondato.

In effetti, come si legge nella narrativa del processo svolta nella sentenza gravata (pag. 1, rigo 11), già nel ricorso introduttivo di primo grado la contribuente aveva dedotto il vizio di carenza di motivazione dell’atto impositivo impugnato; tale deduzione non era stata esaminata dalla Commissione Tributaria Provinciale, perchè assorbita dall’annullamento dell’atto impositivo da questa pronunciato in accoglimento di altre doglianze della contribuente, ed era stata quindi riproposta in secondo grado dalla contribuente (appellata) come motivo di appello incidentale subordinato. In particolare, nelle controdeduzioni in appello (debitamente trascritte in parte qua alle pagg. 45 e segg. del ricorso per cassazione, in adempimento dell’onere di autosufficienza) la contribuente aveva chiesto che la Commissione Tributaria Regionale, nel denegato caso di accoglimento dell’appello dell’I.C.A., annullasse comunque l’avviso di accertamento per duplice violazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 10, comma 1, consistente, da un lato, nella mancata indicazione delle relative ragioni di fatto e di diritto e, d’altro Iato, nella omessa allegazione all’avviso medesimo del verbale delle verifiche su cui detto avviso era fondato. Su tale domanda la sentenza gravata non si è in alcun modo pronunciata, nè in dispositivo, nel quale si accoglie l’appello dell’I.C.A. senza nulla statuire sull’appello incidentale subordinato della contribuente, nè in motivazione, nella quale la Commissione Tributaria Regionale non affronta in alcun modo il tema del vizio formale dell’avviso di accertamento per carenza di motivazione, D.Lgs. n. 507 del 1993, ex art. 10, comma 1, limitandosi ad argomentare esclusivamente sulle ragioni per cui ritiene, al contrario della Commissione Tributaria Provinciale, che i cartelli in questione siano qualificabili come mezzi pubblicitari, nonchè sui motivi per cui giudica infondate le eccezioni svolte dalla contribuente in punto di titolarità passiva dell’obbligazione tributaria e in punto di sottoscrizione dell’avviso di accertamento.

Ricorre pertanto il denunciato vizio di omessa pronuncia e pertanto anche il settimo motivo di ricorso va accolto.

I definitiva, disattesi i primi cinque motivi di ricorso, devono accogliersi i motivi sesto e settimo, cassare la sentenza gravata e rinviare alla Commissione Tributaria Regionale perchè si attenga ai principi sopra enunciati sulla questione della sottoscrizione dell’avviso di accertamento e perchè si pronunci sulla questione, se non assorbita, del vizio di motivazione dell’avviso di accertamento.

P.Q.M.

La Corte accoglie il sesto e settimo motivo di ricorso, respinti gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Toscana, in altra composizione, che regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 28 febbraio 2012.

Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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