T.A.R. Lazio Roma Sez. I ter, Sent., 04-01-2012, n. 65

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La sig.a T., odierna ricorrente, è stata la convivente di G.M., un tempo esponente di spicco della Sacra Corona Unita e, successivamente, a seguita della condotta collaborativa prestata in procedimenti penali a carico di affiliati a detta associazione mafiosa, ammesso a regime di detenzione domiciliare e, il 07.4.2005, a Programma speciale di protezione (di seguito :P.s.p.) con delibera della Commissione centrale ex art.10 della L. 15 marzo 1991, n.82 (di seguito: Commissione ovvero Commissione centrale). Nel citato P.s.p. veniva anche inserita la sig.a T., in ragione della relazione di convivenza all’epoca intrattenuta col citato collaboratore.

Di seguito ad un insieme di fatti delittuosi di estrema gravità addebitati al collaboratore (evasione dal luogo protetto ove di trovava in detenzione domiciliare, omicidio premeditato, detenzione e porto abusivo di arma da fuoco, tentata estorsione e tentata rapina aggravata), sinteticamente elencati nel provvedimento in epigrafe e, dietro richiesta della D.D.A. di Lecce (che è l’ufficio che, a suo tempo, aveva proposto l’ammissione del detenuto a P.s.p.), la Commissione, ritenuta la condotta del G.M. del tutto incompatibile con le finalità proprie del regime speciale di protezione di cui beneficiava, ne disponeva la revoca (Delib. del 21 maggio 2009) estendendone i relativi effetti anche alla convivente alla luce della posizione c.d. "derivata" (secondo l’insegnamento di cui alla sent. del Cons. St. n.243/2008) di costei. Contestualmente la Commissione deliberava di non accordare alla T. la corresponsione di un contributo di capitalizzazione di Euro70.000,00, che essa aveva precedentemente richiesto per fuoriuscire dal P.s.p.

Avverso detta delibera della Commissione è stato azionato il ricorso in epigrafe prospettando un unico, complesso, mezzo di gravame, così rubricato: violazione e falsa applicazione dell’art.13 quater della L. n. 82 del 1991 e dell’art.11 del D.M. n. 161 del 2004; eccesso di potere per carenza istruttoria, falsità del presupposto e sviamento.

L’intimata amministrazione si è costituita in giudizio ed ha depositato, oltre ad articolata memoria difensiva con cui contesta partitamente le deduzioni avversarie, documenti d’ufficio inerenti la controversia la carenza di alcuni dei quali era stata rilevata dalla ricorrente che, peraltro, in esito alla loro produzione non ha interposto ulteriori mm.aa. di gravame.

All’udienza dell’1.12.2011 la causa è stata trattenuta per la relativa decisione.

Motivi della decisione

I)- Con l’atto introduttivo dell’odierno giudizio, è stato impugnato il provvedimento di revoca del P.s.p. adottato nei confronti del collaboratore G.M. e contestualmente nei confronti della sig.a T. cui detto Programma era stato, a suo tempo, esteso a causa della relazione di convivenza allora intrattenuta col citato collaboratore.

La revoca in questione, come si evince da una serena lettura dell’atto gravato, ha chiara natura discrezionale e si correla alla serie impressionante di reati commessi dal G.M. durante il periodo in cui (per effetto dell’iniziale collaborazione resa) fruiva, unitamente al P.s.p., del beneficio della detenzione domiciliare. Da tale contegno la Commissione ne ha tratto, logicamente, il convincimento dell’inosservanza degli impegni assunti (in sede di ammissione al P.s.p.) e della sopravvenuta insussistenza della situazione di pericolo ricollegabile all’originaria collaborazione: in definitiva, l’essersi ingenerata una situazione incompatibile con la permanente fruibilità delle misure speciali di protezione di cui al Programma citato.

Della revoca de qua è stata destinataria anche la sig.a T. essendo essa titolare di una posizione derivata rispetto a quella del titolare del P.s.p., in sintonia con l’insegnamento offerto dalla decisione n.243 del 2008 del Cons. Stato.

Il provvedimento della Commissione è stato impugnato dalla sola sig.a T.. Nel ricorso:

a) si lamenta, in primo luogo, la mancata conoscenza della comunicazione della Procura distrettuale di Lecce a seguito della quale sarebbe stato avviato il procedimento culminato con l’avversata revoca, con accessiva riserva della produzione di mm.aa. una volta acquisito tale documento agli atti di causa;

b) si sottolinea che non v’è stato alcun definitivo accertamento dei fatti di reato imputato al titolare del P.s.p.;

c) si deduce l’omessa richiesta del parere del Procuratore nazionale antimafia ovvero del parere del Procuratore generale presso la Corte d’appello di Lecce: fatto questo che spende riflessi invalidanti sul provvedimento avversato;

d) si contesta che sia venuto meno lo stato di pericolo per l’incolumità del collaboratore e dei familiari;

e) si esclude ogni contiguità tra la corrente controversia e quella esaminata dal Consiglio di Stato e definita con la decisione sopra richiamata; e, per l’effetto, si assume che la Commissione avrebbe dovuto autonomamente valutare la posizione della familiare del collaboratore cui nessun contegno inadempiente è addebitabile.

II)- Le censure sopra rassegnate per quanto articolate e perspicue non persuadono.

Fermo restando che, in esito al deposito del documento, sub lett.a) del precedente paragrafo, della Procura della Repubblica di Lecce, parte ricorrente non ha introdotto i mm.aa. di gravame che pur si era riservata di produrre, il secondo profilo di censura – che pone l’accento sul mancato accertamento giurisdizionale dei fatti contestati al G.M. – non merita condivisione poiché trascura il principio, che trova costante conferma in sede giurisprudenziale (cfr., Cons.St. nr.2541 del 2009 e n. 5649 del 2005) che ammette, a fronte dell’inosservanza degli obblighi assunti (ovvero della cessazione e/o del mutamento della situazione di pericolo), la possibilità di revoca della protezione pur in assenza della commissione di alcun illecito penale da parte del soggetto tutelato.

Che poi, nel caso di specie, i contegni assunti dal G.M. siano stati attentamente scrutinati, lo dimostra la circostanza che lo stesso è stato, successivamente, condannato per tali fatti di reato ed, in particolare, è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio premeditato di cui si è reso responsabile.

Va poi ricordato che, ex art.12 della L. n. 81 del 1992 ed ex art.9 del D.M. n. 161 del 2004, le speciali misure di protezione sono sottoscritte dagli interessati, i quali si impegnano personalmente ad osservarle. Con tale sottoscrizione si dà vita ad un contratto ad oggetto pubblico nel cui ambito trovano applicazione i principi generali del codice civile in materia contrattuale, e segnatamente quelli di buona fede, lealtà, correttezza. Sicché, non c’è dubbio che la persona assoggettata a regime speciale di protezione debba rispettare le misure di sicurezza e collaborare attivamente alla loro applicazione, e farlo nel rispetto dei canoni essenziali della buona fede e della correttezza (cfr, in tal senso Cons. St. nr. 6548/2009); e ciò anche perché la loro inosservanza può dar luogo, come visto, a seconda della gravità della violazione, alla revoca obbligatoria ovvero discrezionale delle misure di sicurezza stesse.

Rimane fermo il postulato che l’eventuale attualità dello stato di pericolo non giustifica, dunque, di per sé sola, la fruibilità di uno speciale programma di protezione da parte degli interessati, allorché il loro comportamento non solo renda superflue le speciali misure di protezione accordate, ma risulti – come acclarato nel caso di specie, con conseguente infondatezza anche della doglianza sub lett. d) del precedente paragrafo – in oggettivo contrasto con le finalità perseguite dalla stessa L. n. 82 del 1991 e successive modifiche e integrazioni.

Quest’ultima, invero, non accorda alle persone ammesse allo speciale programma di protezione una sorta di autorizzazione a commettere atti illeciti, vincolandole anzi al rigoroso rispetto della legge, indipendentemente dagli obblighi specificatamente assunti all’atto della sottoscrizione del programma medesimo.

L’espressa previsione contenuta nell’art. 11 del D.M. n. 161 del 2004, che consente alla Commissione centrale di disporre la modifica o la revoca del programma in presenza di inosservanze agli impegni assunti a norma dell’art. 12 cit. o del compimento di fatti costituenti reato o per altra ragione comunque connessa alla condotta di vita del soggetto interessato, si limita pertanto a dare concretezza e specificazione ad un obbligo morale e giuridico già insito nella L. n. 82 del 1991, la cui "ratio" giustificatrice non è certo quella di esonerare da responsabilità gli autori di comportamenti illeciti, ma di offrire adeguata protezione e sostegno economico a chi dimostri la seria intenzione di collaborare con la giustizia nella lotta dello Stato contro il crimine e, in particolare, contro la delinquenza di tipo mafioso, estendendo detta protezione anche nei confronti delle persone a lui care che, in conseguenza della sua condotta collaborativa, vengano a trovarsi esposte a pericolo per la loro incolumità.

La revoca o la modifica dell’originario programma speciale di protezione non è, dunque, una specie di prassi seguita dalla Commissione centrale in presenza della constatata inosservanza agli obblighi derivanti dal programma di protezione stesso, ma rappresenta, come si è detto, diretta conseguenza, prevista sia dalla legge che dal richiamato Regolamento attuativo, dell’inosservanza agli impegni assunti all’atto della sottoscrizione prevista dal citato art. 12, comma secondo, della L. 15 marzo 1991, n. 82.

Anche la censura sub lett. c) del precedente paragrafo – con cui si deduce l’omessa richiesta del parere del Procuratore nazionale antimafia ovvero del parere del Procuratore generale presso la Corte d’appello di Lecce – è infondata. E ciò in quanto (ved. art.11 commi 2 e 3 della L. n. 82 del 1991) la Commissione è tenuta a sentire il parere (non vincolante) dell’Autorità proponente, del Procuratore nazionale antimafia o del Procuratore generale presso la Corte d’Appello nel solo caso in cui sia il Prefetto ovvero il Servizio centrale di protezione a comunicare comportamenti e/o circostanze che possono integrare i presupposti per la revoca delle speciali misure di protezione (il citato Procuratore va, altresì, sentito allorquando le dichiarazioni collaborative attengono ai reati di cui all’art. 51 c.3 quater c.p.p. e cioè per i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale).

Nel caso in trattazione, però, è stato (non il Prefetto od il Servizio centrale di protezione, ma) la Procura della Repubblica di Lecce -Direzione distrettuale antimafia – ad aver partecipato alla Commissione, "in ordine alla revoca del P.s.p." la misura della custodia cautelare in carcere applicata al titolare del P.s.p. Si è, altrimenti detto, concretizzata la fattispecie prevista dall’art.11 c.5 del D.M. n. 161 del 2004 che impone alla Commissione, in presenza di tale comunicazione, di verificare la permanenza delle condizioni che hanno determinato l’applicazione del P.s.p. senza la necessaria mediazione della richiesta di altri pareri ad altre autorità (la cui consultazione rimane ovviamente facoltativa).

Tanto comporta l’infondatezza della doglianza in trattazione.

Da ultimo, nonostante l’impegno della Difesa della ricorrente nel tentare di rimarcare le circostanze che, a suo avviso, differenzierebbero la causa in esame da quella scrutinata e definita dal Cons. St. con la decisione nr. 243 del 2008 (a differenza di quest’ultima, nel caso in esame, viene contestata la cessazione dello stato di pericolo nei confronti del titolare della misura), non può negarsi una significativa assonanza fra le due controversie. In quella come in questa agiscono i soli familiari del collaboratore al quale la misura viene revocata perché ritenuto responsabile di comportamenti, al vaglio dell’Ago, incompatibili col suo stato di persona sottoposta a speciale regime di protezione. Tale sostanziale omogeneità di situazioni non è certamente compromessa dalla, invero generica se non apodittica, affermazione (di parte attrice) della permanenza, in capo al titolare del programma, di una situazione di rischio; e ciò in quanto, certamente, costui, attraverso la commissione di una serie di gravi delitti, è da presumere, quantomeno in applicazione di un criterio di logica e di razionalità, non percepisca alcuna seria situazione di grave ed attuale pericolo se non quella derivante, come insegna il Supremo Consesso amministrativo, "dall’ordinaria competizione per la supremazia propria di certi ambienti della criminalità organizzata".

In realtà, nella decisione del Consiglio di Stato (evocata dalla Commissione nel provvedimento impugnato), il richiamo (pag.11) alla circostanza che, in quella sede contenziosa non sia stata contestata dai ricorrenti "la valutazione della cessazione del pericolo operata nei confronti del titolare del P.s.p.", costituisce un mero obiter dictum che, tanto logicamente quanto razionalmente, non vale a condizionare le conclusioni cui approda il Giudice di appello. Detto Giudice, nell’ampia dissertazione che riserva all’esegesi delle norme contenute negli articoli 13 quater e 9 della L. n. 82 del 1991, rileva:

– che in caso di revoca discrezionale " l’insieme delle valutazioni operate implica, ed accerta, un elemento immanente nelle situazioni di fatto legittimanti la revoca, e cioè "il mutamento o la cessazione dello stato di pericolo"……. che contraddistingue, al di là della concreta esemplificazione contenuta nella norma, l’intero istituto della revoca";

– che detta " ratio risulta essere la medesima pure nel caso della revoca "vincolata" di cui alla prima parte del comma cit. (ndr.: il comma 2 dell’art.13 quater), ove si procede in base ad una presunzione "de jure" ".

Ne consegue che:

a) nei casi di revoca obbligatoria ( cui, ad esempio, si accede nei casi in cui il prevenuto, pur dopo aver iniziato l’attività di collaborazione con dichiarazioni auto ed etero-accusatorie, si rifiuti di sottoporsi ad ulteriori interrogatori; ovvero si accede qualora il prevenuto, pur dopo l’ammissione alle speciali misure di protezione, non versi il denaro frutto di attività illecite), ci si trova di fronte ad una presunzione legislativa di mutamento e/o di cessazione dello stato di pericolo, a fronte della quale inane viene ad essere la contestazione di parte sulla persistenza di una situazione di rischio;

b) nei casi di revoca facoltativa, ove l’insieme delle valutazioni operate dalla Commissione sulle situazioni di fatto che legittimano la stessa, non è – come accade nel caso di specie – idoneamente ed efficacemente contraddetto dalla parte privata, scatta egualmente il meccanismo legislativamente previsto che si estende, "in modo automatico agli altri soggetti indicati dal comma 5 dell’art.9" della L. n. 82 del 1991, "nel senso della incompatibilità con il proseguire della protezione". Ciò in quanto, "nella considerazione della legge" tali persone " non risulterebbero…. più esposte al pericolo di ritorsioni e di intimidazione del "gruppo criminale", dato che tale situazione di pericolo è venuta meno per effetto delle sopravvenute condotte tenute da colui, il collaboratore titolare, che ad essa aveva dato causa". Potrebbe pure residuare " un pericolo derivante dall’appartenenza o dalla vicinanza ad ambienti della criminalità organizzata in dipendenza della condotta di vita tenuta, comunque e già in precedenza, (a prescindere dal rilascio di dichiarazioni a carico di associati a gruppi criminali), dal titolare, ma tale pericolo…… non è quello considerato, in via sistematica e complessiva, dalle norme sulla protezione", e cioè:

– non coincide con la "… stessa ragione di pericolo normativamente "tipizzata", quantomeno in base alla valutazione chiaramente operata dal legislatore con il combinato disposto degli art. 13-quater, comma 2, e 9, comma 5 e 6, della citata L. n. 82 del 1991";

– può essere fronteggiato con ricorso a misure di tutela della persona diverse da quelle incluse nel P.s.p.

Accede a tanto che il provvedimento impugnato va esente dalla censura di mancata valutazione dell’estraneità della ricorrente al comportamento tenuto dal titolare del P.s.p.; ne consegue l’infondatezza della residua doglianza in trattazione.

II)- Le spese di lite attesa la peculiarità della controversia possono essere compensate tra le parti in causa.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Ter) respinge il ricorso in epigrafe.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 1 dicembre 2011 con l’intervento dei magistrati:

Linda Sandulli, Presidente

Pietro Morabito, Consigliere, Estensore

Roberto Proietti, Consigliere

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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