Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 22-09-2011) 25-11-2011, n. 43668 Bancarotta fraudolenta

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza del locale Tribunale in data 17 maggio 2006, appellata da P.R. e PI.An., che li aveva ritenuti responsabili del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale commesso il 10 maggio 2001 in relazione al fallimento della "Immobiliare Novanta S.r.l." Avverso la sentenza in questione gli imputati propongono distinti ricorsi per cassazione. Il ricorso di P. si articola su quattro motivi.

Con il primo motivo deduce difetto di motivazione in ordine al ricorrere dell’elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta documentale, non risultando da quali elementi la Corte di merito abbia tratto la convinzione che aveva agito con l’intento di recare pregiudizio ai creditori. Con il secondo motivo deduce difetto di motivazione in ordine al ricorrere della bancarotta patrimoniale nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi, con riferimento sia alle somme che, apparentemente uscite dal patrimonio della società, in realtà sarebbero state usate per un pagamento in nero dell’importo dell’acquisto di un terreno sul quale era stato realizzato un cespite immobiliare della società, sia ad assegni incassati sul conto del P. (lecitamente perchè a ristoro di propri crediti) non essendo stato dimostrato che egli in epoca lontana dal fallimento aveva agito con lo scopo di provocare danno ai creditori.

Con il terzo motivo deduce difetto di motivazione in ordine al ricorrere della bancarotta fraudolenta per creazione di passività inesistenti, a lui contestata in concorso con il PI., essendo mancata ogni concreta motivazione che sostenesse l’affermazione che i due avessero voluto provocare danno ai creditori sociali, con il simulare tre contratti preliminari con il cognato del secondo a fronte dei quali appariva fittiziamente incassata una caparra di L..

355milioni, somma per ottenere la restituzione della quale il fittizio promissario si era poi insinuato al passivo fallimentare, senza considerare anche che egli aveva promosso, ben prima del fallimento, azione giudiziaria contro PI. ed il cognato per fare accertare l’inesistenza di quel credito. Con il quarto motivo deduce difetto di motivazione sulla richiesta contenuta nell’atto di appello di una riduzione della pena base, richiesta che la Corte di merito avrebbe del tutto ignorato. Il ricorso del PI. deduce violazione di legge in relazione al ricorrere del delitto, lui ascritto, di bancarotta per dissipazione in concorso con P. riferito alla stipula dei contratti preliminari di cui sopra.

Il delitto non sussisterebbe sotto il profilo materiale per non aver mai il P. riconosciuto passività inesistenti, anche per mera acquiescenza, avendo anzi egli prima del fallimento contestato la pretesa del promissario di addivenire alla stipula dei contratti.

Peraltro difetterebbe in capo al ricorrente anche l’elemento soggettivo, non avendo mai agito allo scopo di provocare danni ai creditori, ma semplicemente nel contesto di una più complessa sistemazione dei rapporti reciproci.

Osserva il Collegio che il primo motivo del ricorso del P. non è fondato. La sentenza della Corte d’appello ha adeguatamente e correttamente motivato in relazione all’esistenza, nell’amministrazione della società fallita, di un sistema di tenuta dei conti tale da rendere impossibile al curatore la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, e corretto è anche il rilievo della riconducibilità di quel sistema alla volontà di dare giustificazione a determinate operazioni di prelievo.

Le sentenze dei giudici del merito si sono quindi riferite al dolo generico, e ciò in modo del tutto corretto, in quanto, in materia di elemento soggettivo della bancarotta documentale, la norma prevede che è necessaria e sufficiente la consapevolezza che le modalità con cui viene tenuta la contabilità renderanno, o potranno rendere, impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio o del movimento degli affari; infatti, la locuzione "in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari" connota la condotta, è indicativa di una modalità della tenuta delle scritture che finisce per ottenere quel risultato, ma non di uno specifico fine cui deve essere diretta la volontà dell’agente, sicchè è da escludere che essa configuri il dolo specifico, necessario invece per la diversa ipotesi di sottrazione, distruzione o falsificazione delle scritture contabili per la quale occorre la specifica volontà di ottenere un profitto ingiusto o recare pregiudizio ai creditori.

Anche per quel che concerne la bancarotta patrimoniale, sempre contestata al solo P., le doglianze del ricorrente non sono fondate.

Infatti, i giudici del merito hanno osservato, adeguatamente e con motivazione esenti da vizi di logica consequenzialità, che il P., a fronte dei sicuri prelievi di fondi contabilizzati nel conto da banca a cassa e quindi divenuti in piena disponibilità dell’amministratore, non aveva fornito, oltre alle personali affermazioni dell’utilizzo nell’effettuare pagamenti in nero per esigenze della società – peraltro in parte smentite da talune emergenze processuali ben evidenziate dal primo giudice – alcun serio riscontro che tale asserzione dimostrasse in modo certo e non generico, ed a fronte di ciò non appaiono fondate le censure del ricorrente che ripropone, peraltro non in modo specifico, l’affermazione di aver dato una corretta destinazione a quei fondi di cui in concreto s’era persa ogni traccia.

Fondati sono invece i ricorsi in relazione all’ipotesi di reato ascritta in concorso ai prevenuti. Osserva al proposito il Collegio che la stessa ha per oggetto non tanto la dissipazione (cioè – Rv.

142343 – il distruggere giuridicamente o economicamente un bene per scopi estranei all’impresa, con atti a titolo gratuito o oneroso o con veri e propri atti di derelizione o di abdicazione) a cui viene fatto cenno anche nel capo di imputazione, posto che non pare tanto oggetto di contestazione una qualsiasi dispersione di beni materiali o immateriali già esistenti nel patrimonio della società, quanto la falsa creazione e rappresentazione di passività, ed in particolare la fittizia indicazione della ricezione di una somma a titolo di caparra in occasione della stipula di contratti preliminari, così da poter precostituire un titolo per il risarcimento danni nel caso, già previsto nell’ambito dell’ipotizzato accordo fraudolento fra P. e PI., in cui non fosse stato data esecuzione ai preliminari stessi.

La sentenza impugnata, nel riferirsi ancora alla dissipazione, si limita a considerare fittizia la stipulazione dei tre contratti preliminari e ne trae la conclusione dell’avvenuta creazione per accordo fra i prevenuti di una passività inesistente, ma non si sofferma ad esaminare le questioni sottoposte al giudice d’appello dal gravame degli imputati circa la possibilità di configurare, nei fatti come accertati, una bancarotta fraudolenta per esposizione di passività inesistenti, come poi pare finisca per considerare l’addebito il giudice di merito.

Tenuto conto che la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto (Sez. 5, sent. n. 2781 del 3/10/1989, Rv. 183521, ric. Marazzini) che in tema di bancarotta per esposizione o riconoscimento di passività inesistenti, il rilascio ad un creditore fittizio di scritture di ricognizione o di assunzione di obbligazioni simulate da parte dell’imprenditore insolvente integra gli estremi del reato soltanto se e quando il fallito riconosca – anche mediante acquiescenza – nella procedura fallimentare la passività inesistente e le conferisca rilevanza concorsuale, così che il creditore fittizio viene a rispondere quale concorrente nel reato proprio del fallito, occorre che il giudice di merito, nel caso di specie il giudice del rinvio, affronti nella pienezza dei suoi poteri di accertamento, le questioni evidenziate nel gravame, e nel ricorso, circa la possibilità di configurare nei fatti quali risultati dall’istruttoria dibattimentale una vera e propria esposizione di passività inesistenti in vista della procedura fallimentare, o che non si siano verificate prima del fallimento situazioni o circostanze che abbiano escluso una tale condotta del fallito, con la finalizzazione tipica richiesta dalla norma. Situazioni che il giudice d’appello non ha affrontato adeguatamente nella sentenza impugnata.

Si impone quindi l’annullamento della sentenza della Corte territoriale limitatamente al reato contestato ai due ricorrenti in concorso fra loro, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano per nuovo esame di entrambe le posizioni al proposito, compresa l’eventuale rivalutazione del complessivo trattamento sanzionatorio concernente il P..

P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata, limitatamente al reato contestato ai due ricorrenti in concorso fra loro, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano per nuovo esame.

Rigetta nel resto il ricorso di P..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *