Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 27-10-2011) 28-11-2011, n. 44000

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con la decisione in epigrafe la Corte di assise di appello di Napoli confermava la sentenza in data 24.9.2008 della Corte di assise della medesima città nella parte in cui aveva, tra l’altro, dichiarato:

– A.M., R.A. e M.M. responsabili dell’omicidio volontario, aggravato dal numero dei concorrenti superiore a cinque e dalla premeditazione, di R. F. e di tentato omicidio, parimenti aggravato all’indirizzo di F.A., fatti commessi in (OMISSIS) (capo 45);

– A.M., D.L. e R.A. responsabili dell’omicidio di S.A., fatto commesso in (OMISSIS) (capo 86);

– D.L. responsabile dell’omicidio, aggravato dal numero dei concorrenti superiore a cinque e dalla premeditazione, di R.G. e di tentato omicidio ai danni di M.D. (capo 60), nonchè dei connessi delitti di detenzione e porto illegali di armi da sparo, fatti commessi in (OMISSIS) (capo 61);

riconoscendo a D.L., R.A. e M. M. l’attenuante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8.

La Corte di assise d’appello assolveva invece A.M. dai delitti ai capi 60) e 61), e rideterminava nei suoi confronti la pena nell’ergastolo con isolamento diurno per otto mesi; riduceva per gli altri le pene, determinando in dodici anni di reclusione la pena inflitta a M.M. per il reato al capo 45); in dodici anni e nove mesi di reclusione la pena inflitta a D.L. per i reati, ritenuti in continuazione, ai capi 60), 61) e 86); in sedici anni e sei mesi di reclusione la pena inflitta a R.A. per i reati, ritenuti in continuazione, ai capi 45) e 86).

A ragione della conferma dell’affermazione di responsabilità dei ricorrenti, la Corte di assise di appello ricordava che oggetto del procedimento erano innumerevoli omicidi, oltre ad altri reati, commessi negli anni ’80 prevalentemente nel territorio di Somma Vesuviana, riconducibili alla guerra di camorra tra l’associazione di stampo mafioso Nuova Camorra Organizzata, capeggiata da C. R., e il cartello di organismi criminali Nuova Famiglia, capeggiato, in quel territorio, da Al.Ca..

Più in particolare, gli omicidi attribuiti ai ricorrenti risultavano essere stati commessi dal gruppo criminale guidato dai fratelli D., che aveva affiancato l’ Al. nella lotta contro i cutoliani. Di essi per lungo tempo erano rimasti ignoti gli autori, e i relativi procedimenti s’erano conclusi con archiviazioni. Solamente l’intervenuta collaborazione di alcuni partecipi, tra cui personaggi di spicco quali gli stessi fratelli D., aveva consentito la riapertura delle indagini e l’accertamento di fatti e responsabilità.

Il compendio probatorio era dunque essenzialmente formato dalle dichiarazioni dei collaboratori.

In relazione all’omicidio di R.F. e al tentato omicidio di F.A. (capo 45), avevano reso dichiarazioni R.A., N.M. e D.F., che si erano autoaccusati di esserne autori materiali e D.F. di averlo altresì voluto e organizzato, accusando l’ A. di avere dato il suo assenso all’omicidio e di avere partecipato alla fase organizzativa ed esecutiva.

In relazione all’omicidio di S.A. (capo 86), avevano reso dichiarazioni R.A., D.L. e D. F., che si erano autoaccusati di avere concorso al fatto, come killer il R., come esecutore materiale D.L., come corresponsabile della decisione D.F.; tutti indicando l’ A. come colui che aveva deciso e voluto l’omicidio, per realizzare il quale aveva chiesto aiuto ai fratelli D..

In relazione all’omicidio di R.G. e al tentato omicidio di M.D., nonchè ai reati connessi (capi 60 e 61) avevano reso dichiarazioni D.F. e D.L., che si erano autoaccusati, rispettivamente, di avere deciso e organizzato i delitti e di avere partecipato alla loro realizzazione.

2. A.M. ricorre a mezzo del difensore, avvocato Giuseppe Ricciulli, che chiede l’annullamento della sentenza impugnata, allegando al ricorso stralci delle trascrizioni delle dichiarazioni dibattimentali dei collaboratori.

2.1. Con il primo motivo denunzia inutilizzabilità delle prove dichiarative, apparenza e manifesta illogicità della motivazione.

Lamenta in particolare che i collaboratori di giustizia in dibattimento non ricordavano nulla dei fatti e s’erano limitati a confermare le dichiarazioni rese durante le indagini, a seguito di "contestazioni" che consistevano nella estesa citazione delle dichiarazioni in precedenza rese; s’era così violato il principio della formazione della prova in dibattimento e in contraddittorio e s’era fatta surrettizia, sostanziale applicazione dell’art. 412 recte, verosimilmente, art. 512 cod. proc. pen., quasi che l’amnesia fosse causa d’impossibilità oggettiva di ripetizione. I collaboratori avevano inoltre avuto ampia possibilità di scambiare tra loro informazioni; ricorreva pertanto la causa d’inutilizzabilità delle loro dichiarazioni individuata dall’art. 13, comma 15, in relazione alla violazione delle prescrizioni del D.L. n. 8 del 1991, comma 14, come modificato. Le risposte date dalla Corte di assise di appello alle analoghe eccezioni prospettate con l’atto d’appello erano viziate e illogiche.

2.2. Con il secondo motivo, relativo all’omicidio di R. F., lamenta apparenza e manifesta illogicità della motivazione, nonchè travisamento delle prove. L’assunto della coincidenza e credibilità delle dichiarazioni accusatorie di D.F., M. e R. circa la partecipazione dell’ A. all’esecuzione del delitto (in realtà consistente nella mera sua presenza su una delle vetture adoperate nell’occasione) era contraddetto dall’obiettivo tenore delle dichiarazioni: di D.F. sul ruolo del ricorrente (aveva prima detto che A. aveva consentito d’individuare la vittima; aveva poi dichiarato che non aveva "partecipato" all’omicidio); di N. in ordine ai mezzi usati (l’uso di un mitra, smentito dai rilievi balistici) e alla natura deduttiva della sua indicazione dell’ A. quale mandante; di R. sulla funzione dell’ A. (consentire l’individuazione della vittima, che però il dichiarante già conosceva). In definitiva le tre versioni erano: l’una contraddittoria, la seconda ipotetica, la terza incoerente; e non potevano perciò riscontrarsi reciprocamente.

2.3. Con il terzo motivo, relativo all’omicidio S. (capo 86) analogamente lamenta apparenza e manifesta illogicità della motivazione, travisamento delle prove. Anche in questo caso le dichiarazioni dei collaboratori non potevano riscontrarsi reciprocamente. D.L. conosceva solo la fase esecutiva (dunque non conoscendo i mandanti non poteva parlarne al fratello F.); D.F., organizzatore, indicava come mandanti A. e R. e parlava de relato dal fratello L. (la qual cosa comportava comunque una circolarità della prova) e R., esecutore, attribuiva a A.M. il ruolo di semplice nuncius del fratello A., quindi non riscontra D.F..

2.4. Con il quarto motivo, sempre relativo all’omicidio S. (capo 86) deduce quindi apparenza e contraddittorietà della motivazione. Richiama a proposito della impossibilità di ritenere le dichiarazioni dei tre collaboratori l’una riscontro dell’altra, le considerazioni della stessa sentenza di primo grado (i primi giudici, si sostiene, pur ammettendo che i D. non si riscontravano tra di loro nè riscontravano il R. giungeva alla conclusione che le loro dichiarazioni erano però "rafforzative" dell’attendibilità dei dichiaranti e del movente).

3. R.A. ricorre a mezzo del difensore, avvocato Sergio Luceri, che chiede l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente al diniego delle circostanze attenuanti generiche.

Con unico motivo denunzia illogicità e contraddittorietà della motivazione e violazione dell’art. 62-bis cod. pen.. Deduce che erroneamente la Corte di assise di appello aveva, implicitamente, ritenuto che non potevano riconoscersi le circostanze attenuanti generiche sulla base degli stessi elementi che avevano condotto al riconoscimento dell’attenuante della collaborazione. Era in ogni caso viziato l’argomentare della sentenza impugnata, che aveva assunto a premessa la gravità dei fatti, il gran numero dei delitti commessi e il ruolo dell’imputato nella compagne associativa, senza considerare, in particolare, che l’associazione era sciolta, che i delitti erano assai risalenti nel tempo, che l’imputato aveva mutato vita intraprendendo un proficuo percorso riabilitativo, che, a fronte dell’evidenziata condotta processuale ed esistenziale del ricorrente, non residuavano elementi per una valutazione in termini negativi, all’attualità, della sua personalità. 4. D.L. e M.M. ricorrono con atti distinti, aventi analogo contenuto e redatti dal medesimo difensore, avvocato Sergio Luceri, che chiede per entrambi, l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente alle circostanze generiche e al trattamento sanzionatorio.

4.1. Con il primo motivo di entrambi i ricorsi si denunzia violazione del D.L. n. 152 del 1991, art. 8 per la non corretta applicazione della relativa diminuzione di pena. Si afferma che nel rideterminare le pene la Corte di assise di appello non aveva specificato in che misura esse erano state diminuite per effetto dell’attenuante dell’art. 8; che attesa l’importanza del contributo dei collaboratori, più volte rimarcato, e la spontaneità dello stesso (intervenuto, autoaccusandosi, quando le loro posizioni erano state già archiviate) la diminuzione delle pene avrebbe dovuto essere calcolata nella massima estensione possibile; si evoca, infine, Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245930, per evidenziare che l’attenuante non poteva essere soggetta a giudizio di comparazione.

4.2. Con il secondo motivo di entrambi i ricorsi si denunzia il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Si sostiene che erroneamente la Corte di assise di appello aveva ritenuto che il comportamento collaborativo aveva completo riconoscimento nell’attenuante del D.L. n. 152 del 1991, art. 8; le circostanze attenuanti generiche erano al contrario pienamente compatibili con detta attenuante speciale e dovevano essere riconosciute alla luce dei criteri dell’art. 133 cod. pen., in considerazione della condotta endoprocessuale e della dimostrata volontà di emenda.

Motivi della decisione

1. Il ricorso di A.M. appare sotto ogni profilo inammissibile.

1.1. La tesi dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni dei collaboratori – sull’assunto che essi non ricordavano nulla dei fatti e che s’erano limitati a confermare, previa contestazione, le dichiarazioni rese durante le indagini, e che in tal modo si sarebbero surrettiziamente e arbitrariamente fatte confluire nel materiale utilizzabile per la decisione prove dichiarative unilateralmente assunte – è, in fatto, smentita da quanto osservato dalle sentenze di merito e dagli stessi stralci dei verbali degli esami dibattimentali prodotti a corredo del ricorso. In relazione ad essi, per quanto slegati e all’evidenza incompleti, non può difatti non evidenziarsi che il primo, su cui parrebbe essenzialmente fondarsi la censura relativa ai continui "non ricordo" dei collaboratori, non consente neppure di comprende a quale delitto, fra quelli oggetto di ricorso, si riferisca (parendo, al contrario, relativo alla morte di tale T., uno dei concorrenti nell’omicidio al capo 86); gli altri mostrando l’esistenza di risposte più che adeguate e pertinenti alle domande delle parti, per nulla risolventisi in mere conferme per relationem alle dichiarazioni rese durante le indagini.

Manifestamente infondata risulta dunque l’asserzione che i dichiaranti a dibattimento avevano affermato di non ricordare più "nulla". Mentre, in diritto, non è certamente causa d’inutilizzabilità la sollecitazione dei ricordi mediante contestazioni, che a tale funzione sono appunto, per regola, deputate.

Del tutto generica è quindi l’asserzione che i collaboranti avrebbero avuto tra di loro contatti tali da inquinare i contenuti delle loro dichiarazioni.

1.2. Manifestamente infondati e generici, perchè omettono di fare riferimento ad aspetti importanti del discorso giustificativo, sono anche gli ulteriori motivi con i quali si intende confutare la valenza probatoria delle dichiarazioni dei collaboratori in relazione al ruolo assunto dal ricorrente negli omicidio di R.F. e di S.A..

Si è già evidenziato, in fatto, come la sentenza impugnata riconduca la prova di ciascuno dei fatti a plurime e specifiche dichiarazioni dei coimputati, che risultano essere state congruamente valutate e del tutto plausibilmente ritenute attendibili e convergenti dai giudici del merito.

In particolare, le dichiarazioni dei collaboratori D.F., M. e R. circa la partecipazione dell’ A. all’esecuzione del primo delitto, e dei collaboratori D. F., R., D.L. circa la partecipazione al secondo, non appaiono affatto, in base alla lettura e alle spiegazioni datene dalla sentenza impugnata e, ancor prima da quella della Corte di assise, non coincidenti, nè contraddittorie, ipotetiche e incoerenti. Correttamente, al contrario, si è evidenziato che i collaboratori sono attendibili e riscontrati, quanto a dati obiettivi, anche dagli accertamenti effettuati e da dichiarazioni testimoniali, e sono sostanzialmente concordi circa i ruoli avuti dall’ A. anche nelle fasi esecutive; mentre gli argomenti difensivi che tentano di confutare tali conclusioni inammissibilmente s’appuntano su pretesi equivoci di tenore meramente lessicale, sull’evidentemente irrilevante, atecnico, significato attribuito dai dichiaranti al termine partecipazione, su dati affatto marginali e, soprattutto, per lo più ipotetici. Neppure considera il ricorso e specificamente contrasta, d’altra parte, l’indicazione, affatto coincidente, dell’ A. come ideatore, vero interessato e mandante di entrambi i delitti.

D’altronde, e con più specifico riferimento alle denunzie di circolante della fonte dichiarativa sviluppate con riferimento all’omicidio S., dallo stesso allegato 8, citato in ricorso, parrebbe emergere la conferma che D.F., mandante con A.M. e organizzatore dell’omicidio S., ha conosciuto dal fratello le fasi esecutive, ma è dichiarante diretto sul mandato da A.M.; mentre R., secondo quanto sembra risultare dall’allegato 9, aveva affermato che l’omicidio interessava anche a M., e ne aveva parlato a D.F., avendone dallo stesso conferma. Non v’è insomma alcuna dimostrazione della asserita circolarità e unicità della prova, argomentatamente esclusa dalla sentenza impugnata in relazione a detto omicidio, ciascun dichiarante avendo riferito anche di fatti di propria diretta conoscenza.

In relazione ad entrambi gli omicidi, le censure, pur denunziando formalmente violazioni di legge e vizi del discorso giustificativo, muovono dunque, nella sostanza, da asserzioni che, presupponendo una diversa lettura del significato di quanto riferito dai dichiaranti, non sono proponibili in questa sede.

2. Inammissibili sono pure i ricorsi proposti nell’interesse di R., D.L. e M., che denunziano soltanto il trattamento sanzionatorio.

2.1. Manifestamente infondate sono, in particolare le censure, analoghe, articolate dai tre ricorrenti con riferimento al diniego delle circostanze attenuanti generiche.

I giudici del merito non hanno negato la possibilità di riconoscere loro dette attenuanti comuni in base all’assunto che, ritenuta l’attenuante della collaborazione operosa, ogni altro comportamento di dissociazione dall’ambiente criminale o dimostrativo di volontà di emenda, ed ogni ulteriore valutazione di tali comportamenti era di necessità da ritenere assorbito nell’attenuante speciale. Hanno invece evidenziato come, a fronte di tali aspetti favorevoli, ve ne fossero però numerosi altri contrari, inerenti alla gravità dei fatti (premeditazione, motivi abietti, feroci modalità esecutive) e alla capacità criminale degli imputati (si trattava di elementi di spicco, seppure con ruoli diversi, di una spietata organizzazione camorristica ed autori, confessi di innumerevoli fatti di sangue); le circostanze attenuanti generiche avrebbero reso le sanzioni affatto inadeguate alla gravità dei delitti commessi.

Il diniego è dunque il frutto di un giudizio di bilanciamento che risulta ampiamente giustificato ed è stato correttamente effettuato prendendo a base e valutando comparativamente tutti i criteri dell’art. 133 cod. pen., e che, attenendo ad aspetti squisitamente di merito, non è suscettibile di censure in questa sede.

2.2. Manifestamente infondate sono infine le doglianze articolate nel ricorso proposto da D.L. e M.M. in ordine alla diminuzione di pena calcolata per effetto dell’attenuante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8. Ad entrambi è stata inflitta, calcolata l’attenuante speciale, la pena base di dodici anni di reclusione: espressamente riferita, per M. al solo omicidio di R.F. (capo 45, così evidentemente obliterandosi il tentato omicidio di T.A. contestato nell’ambito del medesimo capo a titolo di continuazione) e, per D.L., all’omicidio di R.G. (capo 60, con aumento di soli otto mesi di reclusione per l’altro omicidio, al capo 86). Si è dunque applicata la pena minima, prevista dall’art. 8 menzionato, per i reati punibili – come nel caso degli omicidi pluriaggravati contestati nel caso in esame – con l’ergastolo. E si è fatta così corretta (oltre che mitissima) applicazione dei principi stabiliti da Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, secondo cui l’attenuante di cui si discute non è soggetta a giudizio di comparazione ed opera, in assenza di altre attenuanti, sulla pena in concreto irrogabile.

3. All’inammissibilità dei ricorsi consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna di ciascuno dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento e – per i profili di colpa correlati all’irritualità delle impugnazioni (C. cost. n. 186 del 2000) – di una somma in favore della Cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento nonchè ciascuno al versamento della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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