Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 13-10-2011) 28-11-2011, n. 44038

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza in data 22 ottobre 2010 la Corte di Appello di Reggio Calabria rigettava la richiesta di riparazione per l’ingiusta detenzione subita da R.G., il quale, dopo essere stato sottoposto a misura cautelare carceraria dal 17.12.1997 al 1 luglio 1998, era stato assolto dalla Corte di Assise di Palmi, con sentenza in data 26.02.2004, dall’imputazione di associazione di tipo mafioso.

La Corte territoriale rilevava che dagli atti di Indagine emergeva che R. era stato tratto in arresto, perchè gravemente indiziato di appartenere alla associazione di stampo mafioso denominata Avignone-Zagari-Viola, come emerso dalle dichiarazioni rese dal collaboratore G.S.R.. Il Collegio considerava altresì il fatto che R.G. appartiene a famiglia in strettissimi rapporti con G.D..

Al riguardo, la Corte territoriale sottolineava che il richiedente è il nipote di R.F.V., ucciso nello stesso agguato che cosò la vita anche al G.; ed è pure parente di R.G., ucciso a sua volta in un precedente guerra di mafia. La Corte evidenziava che l’esponente era stato arrestato per tentata estorsione e danneggiamento.

Il Giudice della riparazione considerava che R.G. era stato condannato alla pena di anni sette di reclusione in primo grado; che la sentenza era stata confermata in Appello; che la Suprema Corte aveva annullato la condanna, ritenendo che gli elementi indiziari valorizzati dal giudice del merito non avessero rilevanza conclusiva, difettando elementi che ricollegavano il singolo fatto di reato all’imputato; e che nel giudizio di rinvio i giudici del merito avevano evidenziato che R. era raggiunto dalle dichiarazioni accusatorie di quattro collaboratori e che non si rinvenivano ulteriori elementi a carico, diversi da quelli già esaminati. In particolare, era emerso che solo G.R. aveva indicato il R. quale killer degli Avignone, mentre altro collaboratore aveva fatto riferimento alle vicende sentimentali del R., prima legato a Z.R. (evenienza ritenuta fonte di coesione tre i gruppi Avignone e Zagari), e quindi alla sorella di Z. P., a seguito della rottura del primo fidanzamento, in coincidenza con la crisi dei rapporti tra i due citati gruppi.

Tanto rilevato, la Corte di Appello osservava che il comportamento posto in essere dal R. rientrava nel concetto di colpa grave di cui all’art. 314 c.p., come elemento ostativo al riconoscimento dell’indennizzo per l’ingiusta detenzione.

2. Avverso la richiamata ordinanza della Corte di Appello di Reggio Calabria ha proposto ricorso per cassazione R.G., a mezzo del difensore, deducendo con unico motivo, il vizio motivazionale in relazione agli artt. 314 e 315 c.p.p..

L’esponente ritiene che la Corte territoriale abbia disatteso i principi affermati dalla Suprema Corte, in ordine alla individuazione dei comportamenti ostativi al riconoscimento della equa riparazione.

Osserva che il Giudice della riparazione ha valorizzato: le dichiarazioni rese da un collaboratore; il contesto socio-familiare di riferimento del richiedente; i precedenti di polizia e le frequentazioni intrattenute dalla parte. Al riguardo, l’esponente considera che le parole del G. sono rimaste prive di riscontri; tanto che la Suprema Corte ebbe ad annullare la sentenza di condanna a carico dell’imputato. La parte ritiene che la Corte di Appello abbia errato nel ritenere sussistenti elementi ostativi al riconoscimento del richiesto indennizzo sulla base di quelle indimostrate dichiarazioni rese da un solo collaboratore di giustizia. L’esponente osserva che difetta l’elemento della colpa a carico del richiedente, il quale risulta raggiunto dalla dichiarazione accusatoria di un collaboratore, dichiarazione rimasta indimostrata; ed osserva che il Collegio non ha specificato quali comportamenti posti in essere direttamente dal R. potevano ritenersi ostativi alla equa riparazione, interpretabili noni come semplice connivenza.

3. Il Procuratore Generale con requisitoria scritta, ha rilevato che la Corte di Appello ha motivato esaurientemente in ordine alla individuazione degli elementi ritenuti ostativi al riconoscimento del diritto azionato, a norma dell’art. 314 c.p.p., ed ha chiesto pertanto che la Suprema Corte rigetti il ricorso.

Motivi della decisione

4. Il ricorso è infondato, per le ragioni di seguito esposte.

4.1 Come è noto, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice di merito, per valutare se chi l’ha patita vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti, fornendo del convincimento conseguito una motivazione che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità. Al riguardo, il giudice deve fondare la sua deliberazione su fatti concreti e precisi, esaminando la condotta tenuta dal richiedente sia prima che dopo la perdita della libertà personale, al fine di stabilire, con valutazione ex ante – e secondo un iter logico motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito – non se tale condotta integri estremi di reato ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorchè in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di "causa ad effetto" (Cass. Sez. U, Sentenza n. 34559 del 26/06/2002, dep. 15/10/2002, Rv. 222263).

Condotte rilevanti in tal senso possono essere di tipo extraprocessuale (grave leggerezza o trascuratezza tale da avere determinato l’adozione del provvedimento restrittivo) o di tipo processuale (autoincolpazione, silenzio consapevole sull’esistenza di un alibi) che non siano state escluse dal giudice della cognizione.

A tal fine, nei reati contestati in concorso, va apprezzata la condotta che si sia sostanziata nella consapevolezza dell’attività criminale altrui e, nondimeno, nel porre in essere una attività che si presti sul piano logico ad essere contigua a quella criminale (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 4159 del 09/12/2008, dep. 28/01/2009, Rv.

242760).

5. L’ordinanza impugnata si colloca coerentemente e puntualmente nella linea del suddetto quadro interpretativo. Invero, la Corte territoriale ha osservato che dagli elementi probatori valutati dalla Corte di Assise di Appello di Reggio Calabra – ritenuti insufficienti ai fini della condanna dell’imputato – emergeva che R. apparteneva ad una famiglia coinvolta direttamente nella faida tra famiglie contrapposte; e che il richiedente non aveva reciso le logiche familiari, tanto da esserne direttamente condizionato nell’ambito delle proprie relazioni sentimentali. Il Giudice della riparazione ha considerato, inoltre, che R. era raggiunto dalle propalazioni accusatorie del collaboratore G. e che il richiedente annovera carichi pendenti per tentata estorsione e danneggiamento. Tenuto conto del fatto che gli omicidi si erano verificati in danno di stretti familiari, la Corte di Appello ha, quindi, ritenuto che le richiamate evenienze avessero dato causa alla adozione del titolo custodiale. Oltre a ciò, il Collegio ha sottolineato che R., nella nota del 21.4.2010 della Divisione Anticrimine della Questura di Reggio Calabria, era stato indicato quale soggetto contiguo ad ambienti mafiosi sin dalla giovane età e che la sua pericolosità aveva giustificato l’adozione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, oltre alla confisca di immobili, evenienza quest’ultima emergente dalla nota del 10.05.2010 della Divisione Anticrimine della Questura di Brescia. E’ poi appena il caso di rilevare che anche la mera connivenza, fattispecie alla quale fa riferimento la parte ricorrente, può essere ritenuta ostativa al riconoscimento della riparazione, quando si sia presentata con caratteristiche tali da potere essere facilmente scambiata, almeno inizialmente, per concorso nel reato.

6. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *