Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 27-09-2011) 28-11-2011, n. 44025

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Ricorrono per cassazione G.A., Gu.Vi. e A.M., quali eredi di Gu.Gi., tramite il comune difensore di fiducia, avverso l’ordinanza emessa in data 9.6.2010 dalla Corte di Appello di Salerno con la quale veniva rigettata l’istanza di equa riparazione per l’ingiusta detenzione subita dal de cuius per otto mesi e dieci giorni per imputazione di concorso in omicidio aggravato, occultamento di cadavere ed altro in danno di D.M. – in ordine al quale era stato prosciolto dal GUP all’esito dell’udienza preliminare (a seguito delle dichiarazioni scagionanti di un coimputato pervenute in quella sede) per non aver commesso il fatto – per la causa ostativa prevista dall’art. 324 c.p.p., comma 1 per avere lo stesso Gu.

G. concorso a dare causa alla misura cautelare detentiva con colpa grave.

In particolare, erano stati accertati colpevoli e gravi collegamenti con gli altri coimputati, condannati con sentenza definitiva che, insieme ad accuse dei collaboratori (tra cui le dichiarazioni rese da E.C. circa i significativi commenti espressi in carcere dal Gu. e dal suo interlocutore M. sulla circostanza del mancato, o meglio effettuato in termini di elevata probabilità e forte somiglianza, riconoscimento fotografico del Gu. da parte del collaboratore e coimputato L.P.) e ad un riconoscimento fotografico (effettuato dal collaboratore di giustizia D.N., che aveva indicato il Gu., assieme al Ga., tra i soggetti che avevano preso parte agli incontri preparatori dell’omicidio), aveva indotto gli inquirenti ad emettere il provvedimento restrittivo; la privazione della libertà aveva avuto così lunga durata perchè il Gu. si era avvalso, nel corso delle indagini, della facoltà di non rispondere, scelta difensiva legittima, ma che nel caso di specie aveva impedito il tempestivo accertamento del suo alibi, l’essere stato, cioè, nel periodo in questione, agli arresti domiciliari in altra e distante località.

I ricorrenti deducono il vizio motivazionale sotto il profilo dell’inammissibile valutazione a carico dell’imputato sia del suo silenzio in ordine ad una circostanza (gli arresti domiciliari) nota agli inquirenti e respinta dal tribunale del riesame sia della sussistenza dei collegamenti con i coimputati, elemento anch’esso noto agl’inquirenti e posto a base dell’ordinanza cautelare.

Il Procuratore generale in sede, all’esito della requisitoria scritta, ha concluso per il rigetto del ricorso.

Il ricorso è destituito di fondamento e va rigettato.

La Suprema Corte ha ritenuto che "in tema di riparazione per ingiusta detenzione il giudice di merito deve valutare se chi l’ha patita vi abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di norme o regolamenti, fornendo del convincimento conseguito motivazione, che se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità. Il giudice deve fondare la deliberazione conclusiva su fatti concreti e precisi e non su mere supposizioni, esaminando la condotta del richiedente, sia prima e sia dopo la perdita della libertà personale, indipendentemente dall’eventuale conoscenza che quest’ultimo abbia avuto dell’attività d’indagine, al fine di stabilire, con valutazione ex ante, non se tale condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stato il presupposto che ha ingenerato, ancorchè in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurazione come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto" (Cass. pen. Sez. Un. 26.6.2002 n. 34559, Rv. 222263).

E la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione di tali principi, non mancando di evidenziare nell’ordinanza impugnata quegli elementi della condotta che hanno dato origine all’apparenza di illecito penale, ponendosi come causa della detenzione.

Sono stati indicati, a tal riguardo, in primo luogo, i plurimi rapporti e collegamenti criminali tra Ga.Pa., poi condannato, con altri, dalla Corte di Assise di Salerno per l’omicidio in questione, e i tre napoletani, tra cui il Gu., chiamati in causa dai collaboratori, rapporti storicamente accertati attraverso l’esame di testi attendibili quali Ufficiali di P.G., l’emissione di una comune ordinanza di custodia cautelare a carico del Ga. e degli altri "napoletani", tra cui il Gu., per il reato di estorsione all’epoca dei fatti ((OMISSIS)) e le ammissioni dello stesso Ga. nel corso del suo esame nel processo in Corte di Assise, sì da farli assurgere ad elementi che hanno influito sulla configurazione del quadro indiziario, incidendo sulla determinazione del Giudice di applicare la misura cautelare. Siffatta valutazione appare conforme all’orientamento di questa Corte, secondo cui "in tema di riparazione per ingiusta detenzione, le frequentazioni ambigue, ossia quelle che si prestano oggettivamente ad essere interpretate come indizi di complicità, quando non sono giustificate da rapporti di parentela, e sono poste in essere con la consapevolezza che trattasi di soggetti coinvolti in traffici illeciti, possono dare luogo ad un comportamento gravemente colposo idoneo ad escludere la riparazione stessa" (Cass. pen. Sez. 3, 30.11.2007 n. 363, Rv. 238782).

E tali frequentazioni devono ritenersi necessariamente integrate, nei reati contestati in concorso, dalla condotta "di chi, pur consapevole dell’attività criminale altrui, abbia nondimeno tenuto comportamenti idonei ad essere percepiti come indicativi di una sua contiguità ad essa…" (Cass. pen. Sez. 4, 24.6.2008, n. 37528 Rv. 241218):

circostanza confermata dall’evidenziato coinvolgimento del Gu. in altra e coeva impresa criminosa assieme al Ga..

E’ stato poi rimarcato il silenzio serbato dal Gu. nel corso dell’interrogatorio di garanzia.

Orbene, nell’ipotesi in cui solo l’indagato e/o imputato sia in grado di fornire una logica spiegazione, al fine di eliminare il valore indiziante di elementi acquisiti nel corso delle indagini, non il silenzio o la reticenza, in quanto tali, rilevano, ma il mancato esercizio di una facoltà difensiva, quanto meno sul piano dell’allegazione di quelle circostanze, a lui note, che contrastino l’accusa, o vincano ragioni di cautela. Tale condotta processuale può valere a far ritenere l’esistenza di un comportamento omissivo causalmente efficiente nel permanere della misura cautelare.

Tuttavia, una cosa è il diritto di difendersi con qualsiasi mezzo per preservare la propria libertà personale da un’imputazione penale, altra cosa è il diritto a una riparazione giudiziaria quando la detenzione patita si rivela ingiusta perchè la strategia difensiva ha avuto successo o ha comunque ottenuto l’assoluzione dall’imputazione. Il legislatore, infatti, non ha riconosciuto incondizionatamente siffatto diritto alla riparazione, ma l’ha esplicitamente escluso quando il comportamento dell’indagato, da solo o con altre circostanze, ha indotto in errore il giudice cautelare circa l’esistenza di indizi di colpevolezza a carico dello stesso indagato. E ciò In forza del principio generale stabilito dall’art. 1227 c.c., comma 2, secondo cui il risarcimento del danno non è dovuto quando il creditore avrebbe potuto evitarlo usando l’ordinaria diligenza.

Insomma nel giudizio per la riparazione (la cui natura civilistica è esclusa dalle Sezioni Unite penali, orientate, ormai, nel configurarlo, pur pronunciando a diversi fini, quale procedimento penale autonomo non incidentale: v., tra le altre, sent. nn. 14/98, 3435/01, 34559/01, 35760/03 1153/2009), il giudice può valutare il comportamento silenzioso o mendace dell’imputato per escludere il suo diritto all’equo indennizzo. Spetterà poi allo stesso giudice della riparazione decidere se il silenzio o il mendacio bastino da soli, o necessitino del concorso di altri elementi di colpa, per escludere il diritto all’indennizzo (cfr. Cass. pen. Sez. 4, n. 48287 del 13.11.2008, Rv. 242758; Sez. 4, n. 40291 del 10.6.2008, Rv. 242755).

Nel caso di specie, già gravato dalla sopra evidenziata contiguità con le attività criminali del Ga. e coimputati, a fronte della precisa contestazione del tempus e focus commissi delicti, Gu.Gi. avrebbe potuto opporre la circostanza che egli, nel medesimo periodo ((OMISSIS)) si trovava in località diversa e lontana dal luogo teatro degli eventi e consentire, pertanto, gli immediati riscontri da parte dell’A.G. e della Polizia giudiziaria per appurare la circostanza e verificare i tempi e i controlli cui era sottoposto a cagione del suo status detentivo all’epoca dei fatti.

Nè la circostanza, sostenuta in ricorso, che fossero noti i rapporti e collegamenti criminali con i coimputati condannati per il medesimo omicidio (la cui oggettiva sussistenza non potette che incidere nella valorizzazione e riscontro del quadro indiziario – propalazioni dei collaboratori – raccolto a carico del Gu.) al momento dell’emissione dell’ordinanza cautelare e, almeno, in sede di riesame, anche quella della pregressa sottoposizione agli arresti domiciliari, può valere ad alterare la valutazione "ex ante" come gravemente colposa della condotta pregressa del Gu., tale da incidere sull’emissione e mantenimento della misura cautelare.

Invero, a sostegno della suddetta tesi, ed in particolare della conoscenza da parte del GIP, al momento dell’emissione del provvedimento restrittivo, della sottoposizione del Gu. agli arresti domiciliari al momento del fatto, si richiama in ricorso una pagina (p. 48) dell’ordinanza del Tribunale del riesame in cui si rileva che "la p.g. verificava che il giorno 12.3.02 nessuna delle forze dell’ordine effettuò controlli presso il domicilio del Gu., con la conseguenza che la sua presenza in (OMISSIS) nelle ore del sequestro è pienamente compatibile con il rischio assunto…". Ma è chiaro che ciò non dimostra che della circostanza fosse al corrente, e in quali termini, anche il G.I.P., mancando nel ricorso, come correttamente osservato dal P.G., un’analoga puntuale indicazione concernente il provvedimento restrittivo: tale palese carenza, incidendo sull’autosufficienza del ricorso, lo mina in radice in quanto, secondo le reiterate pronunce di questa Corte al riguardo, "il ricorso per cassazione che denuncia il vizio di motivazione deve contenere, a pena di inammissibilità e in forza del principio di autosufficienza, le argomentazioni logiche e giuridiche sottese alle censure rivolte alla valutazione degli elementi probatori, e – non può limitarsi a invitare la Corte alla lettura degli atti indicati, il cui esame diretto è alla stessa precluso" (cfr. tra le più recenti, Cass. pen. Sez. 6, n. 29263 dell’8.7.2010, Rv. 248192; Sez. 1, 22.1.2009, n. 6112, Rv. 24322;

Sez. 4, 26.6.2008 n. 37982, Rv. 241023).

Il ricorso va, pertanto, rigettato, ed a tale pronuncia segue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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