Cass. civ. Sez. I, Sent., 15-06-2012, n. 9859

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

C.L. e V.P., coniugi dal 24.6.1990 in regime di comunione di beni, con atto a rogito notaio Filippetti di Terni del 9.2.1994, concordavano la modificazione del regime patrimoniale scegliendo quello della separazione dei beni.

Con citazione del 15.7.1994, il C. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Terni la V. chiedendo la divisione dei beni che costituivano oggetto della comunione alla data della modificazione della convenzione.

Deduceva che prima di procedere alla divisione occorreva ricostituire il patrimonio comune che era stato alterato dal comportamento della convenuta la quale aveva: utilizzato denaro comune per complessive L. 83.636.161 allo scopo di pagare degli acconti per l’acquisto di una abitazione che poi era stata intestata soltanto a lei; trattenuto tutto il denaro, pari a L. 30.130.705, presente su un conto corrente alla medesima intestato ma da ritenere comunque oggetto di comunione;

trattenuto tutti i gioielli del valore di circa 20 milioni.

La V., costituendosi in giudizio, chiedeva la reiezione della domanda deducendo che al momento della modificazione del regime patrimoniale avevano anche concordato che ognuno sarebbe rimasto unico ed esclusivo proprietario dei beni che a tale data risultavano a ciascuno già intestati mentre il denaro utilizzato per versare gli acconti relativi all’acquisto dell’abitazione derivava dalla sua attività lavorativa come pure quello presente sul conto corrente ad essa intestato; i gioielli, poi, le erano stati donati cosicchè non ricadevano in comunione.

Il Tribunale, con sentenza del 7.1.2001 (depositata il 9.4.2001), ritenendo che effettivamente con l’atto stipulato per modificare il regime patrimoniale della comunione con quello della separazione i coniugi avevano previsto anche che ciascuno sarebbe rimasto proprietario esclusivo dei beni dei quali già era intestatario nonostante il regime della comunione, respingeva la domanda del C. relativamente alla richiesta di rimborso da parte della V. del denaro utilizzato per versare gli acconti per l’acquisto dell’abitazione, nonchè del denaro presente sul conto corrente intestato alla stessa; respingeva, altresì, la domanda relativamente ai gioielli perchè estranei alla comunione in quanto oggetto di donazione personale; l’accoglieva, invece, relativamente ai mobili che arredavano la casa coniugale, in possesso del C., disponendo, stante la loro indivisibilità, il versamento a titolo di conguaglio da parte di quest’ultimo, in favore della V., del 50% del loro valore, determinato in base a consulenza tecnica d’ufficio in L. 4.500.000.

Avverso la sentenza proponeva appello il C..

In sintesi criticava l’interpretazione dell’atto di modificazione del regime patrimoniale operata dal Tribunale, osservando che la modificazione non poteva avere rilevanza che per l’avvenire e che l’espressione utilizzata nell’atto "assumendo e conservando ciascuno dei coniugi la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio" stava a rappresentare soltanto le modalità con le quali il nuovo regime avrebbe operato, fermo restando che si riferiva ai beni che sarebbero stati acquistati in futuro e non a quelli già compresi nella comunione.

Inoltre deduceva che il Tribunale aveva erroneamente valutato le risultanze probatorie dalle quali si evinceva che la V. aveva utilizzato il denaro comune per fini personali.

Quest’ultima si costituiva in giudizio concludendo per la conferma della sentenza ma proponendo a propria volta appello incidentale al fine di conseguire, in riforma della stessa, la condanna del C. al pagamento delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio.

La Corte d’appello di Perugia, con sentenza depositata il 7 giugno 2005, in parziale riforma della sentenza di primo grado condannava la V. al pagamento della somma di Euro 29.377,84 in favore del C. relativa alle somme utilizzate dalla prima per pagare gli acconti per l’acquisto dell’abitazione a essa intestata nonchè quelle presenti sul conto di cui la V. era titolare.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione la V. sulla base di tre motivi cui resiste con controricorso il C..

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa interpretazione dell’art. 215 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 3, perchè il Giudice di merito avrebbe errato nell’escludere che l’art. 215 c.c. consenta di inserire in una convenzione matrimoniale – come quella concretamente posta in essere dalle parti – una clausola che provveda alla divisione del beni comuni.

Con il secondo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1340 e 1362 c.c., sostenendo che la Corte di appello avrebbe violato l’art. 1362 c.c., che impone al giudice,nell’interpretazione dei contratti, di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e di non limitarsi al senso letterale delle parole.

Con il terzo motivo di ricorso la V. lamenta, sotto il profilo del difetto di motivazione, che la Corte d’Appello non avrebbe considerato che i soldi per l’acquisto dell’immobile sarebbero frutto di una donazione e che gli stessi, insieme a quelli depositati sul conto corrente della ricorrente, che sarebbero proventi dell’attività separata della medesima ricorrente,non avrebbero dovuto essere ricompresi nella comunione potendo essi essere ricompresi solo nella comunione de residuo ex art. 177 c.c..

La Corte di merito, secondo la ricorrente avrebbe infine omesso ogni motivazione sul fatto della inesistenza, al momento dello scioglimento della comunione, delle somme di denaro indicate nella sentenza impugnata e quindi sulla conseguente impossibilità di procedere alla divisione.

Il primo motivo è inammissibile.

Lo stesso è del tutto generico limitandosi alla affermazione che il giudice di seconde cure avrebbe errato nell’escludere che l’art. 215 c.c., potesse consentire di inserire in una convenzione matrimoniale una clausola che preveda la separazione dei beni senza riportare il contenuto effettivo della motivazione del giudice di appello e senza argomentare perchè la stessa sarebbe erronea.

A tale proposito questa Corte ha ripetutamente affermato che l’illustrazione del singolo motivo deve contenere l’esposizione degli argomenti invocati a sostegno della decisione assunta con la sentenza impugnata e l’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della sentenza (da ultimo Cass. 18421/09).

Inoltre la censura non coglie la ratio decidendi che non ha affatto escluso che l’art. 215 c.c., potesse consentire quanto sopra ed anzi lo ha implicitamente ammesso ma ha però interpretato la clausola contrattuale ritenendo che le parti avevano convenuto che la separazione dei beni in comunione avrebbe operato per il futuro e che i beni già caduti in comunione dovevano essere divisi.

Il secondo motivo, con cui si deduce la violazione dell’art. 1362 c.c. nell’interpretazione della clausola relativa all’introduzione del regime della separazione dei beni, è anch’esso inammissibile.

Questa Corte ha ripetutamente affermato che l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione. Ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è peraltro sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato, nonchè, in ossequio al principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, con la trascrizione del testo integrale della regolamentazione pattizia del rapporto o della parte in contestazione, ancorchè la sentenza abbia fatto ad essa riferimento, riproducendone solo in parte il contenuto, qualora ciò non consenta una sicura ricostruzione del diverso significato che ad essa il ricorrente pretenda di attribuire (ex plurimis Cass. 4178/07).

Nel caso di specie la ricorrente non solo non riporta il testo integrale della clausola pattizia, ma non spiega neppure le ragioni per cui il giudice sarebbe incorso nella violazione dell’art. 1362 c.c.. A tal fine avrebbe dovuto riportare le argomentazioni svolte sul punto dalla Corte di merito ed evidenziarne le ragioni del discostamento dai canoni ermeneutici legali.

Nulla di tutto ciò si rinviene nel motivo onde lo stesso non è scrutinabile in questa sede di legittimità.

Parimenti deve dirsi per il terzo motivo.

La ricorrente, pur deducendo vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia della motivazione, censura la complessiva valutazione delle risultanze processuali compiuta dai giudici di appello a cui ha contrapposto una sua diversa interpretazione, secondo cui le somme utilizzate da essa ricorrente per l’acquisto della casa ad essa intestata sarebbero state frutto di una donazione da parte della madre del C., così mirando alla revisione da parte della Corte di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito che ha, invece, escluso l’asserita donazione sulla base di una attenta analisi basata sull’esame delle testimonianze rese dai testi B., O. e L. nonchè sulla circostanza che la Ve., sulla quale, sussistendo il regime di comunione dei beni, gravava l’onere di provare la proprietà esclusiva delle somme di denaro, nessuna prova aveva fornito in proposito (Cass. 7972/07;

Cass. 8 maggio 2000, n. 5806; 20 novembre 2003, n. 17651; 12 agosto 2004, n. 15675).

Assume rilievo a tale riguardo il principio, più volte affermato da questa Corte e pienamente condiviso dal Collegio, che i vizi della sentenza posti a base del ricorso per cassazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito (Cass. 25 agosto 2003, n. 12467), o consistere in censure che investano la ricostruzione della fattispecie concreta (Cass. 4 giugno 2001, n. 7476) o che siano attinenti al difforme apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte (Cass. 7 agosto 2003, n. 11918).

Inoltre, questa Corte ha a più riprese affermato che la denuncia del vizio di motivazione dev’essere effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e, cioè, connotati da un’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza. Sotto tale profilo il motivo non contiene alcun esame delle argomentazioni svolte dalla Corte d’appello limitandosi la ricorrente a prospettare alcune circostanze generiche che risulterebbero dagli atti di causa in modo del tutto insufficiente ad evidenziare le carenze logico-fattuali del ragionamento della sentenza.

Quanto infine alla presenza del denaro sul conto corrente al momento dello scioglimento della comunione, la ricorrente non contesta in modo specifico l’affermazione della sentenza che ha accertato che dalla documentazione in atti risultava che al momento della cessazione della comunione sul conto corrente della V. vi era la somma di L. 30.130.705.

Il ricorso va in conclusione dichiarato inammissibile.

La ricorrente va di conseguenza condannata al pagamento delle spese processuali liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in Euro 1500,00 per onorari oltre Euro 200,00 per esborsi oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 31 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2012

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