Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 09-11-2011) 29-11-2011, n. 44088

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 24 marzo 2011, la Corte d’Appello di Palermo riformava parzialmente la pronuncia con la quale il Tribunale di Termini Imerese, in composizione monocratica, aveva riconosciuto la penale responsabilità di G.Q. per i reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c); D.Lgs. n. 42 del 2004, artt. 134 e 181; D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 64, 65, 71 e 72;

D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 83, 93, 94 e 95; artt. 734 e 483 c.p., dichiarando non doversi procedere nei confronti del predetto in ordine ai reati ascrittigli ai capi A), B), C), D) ed E) della rubrica, limitatamente al manufatto di cui al n. 2 dell’imputazione sub A) per intervenuta prescrizione, rideterminando conseguentemente la pena originariamente inflitta dal primo giudice.

Avverso tale decisione il predetto proponeva ricorso per cassazione.

Con un primo motivo di ricorso deduceva la violazione di legge ed il vizio di motivazione, rilevando che l’illecito edilizio per il quale era stato condannato doveva ritenersi penalmente irrilevante alla luce della L.R. n. 4 del 2003, art. 20 ed, in ogni caso, non soggetto a permesso di costruire o denuncia di inizio attività (D.I.A.).

Assumeva trattarsi, inoltre, di opere precarie, come dimostrato dalle dichiarazioni dei testi escussi, il cui contenuto era stato travisato dalla Corte del merito.

Con un secondo motivo di ricorso deduceva la violazione dell’art. 157 c.p. e la mancanza di motivazione in ordine alla dedotta prescrizione dei residui reati non riconosciuta dai giudici del gravame.

Con un terzo motivo di ricorso deduceva la violazione dell’art. 483 c.p., rilevando che, nella fattispecie, non poteva ritenersi configurabile il reato previsto da tale disposizione, in quanto la dichiarazione sostitutiva di cui al capo F) della rubrica non era avvenuta "in un atto pubblicò" nè, tanto meno, era "destinata a provare la verità del fatto".

Con un quarto motivo di ricorso deduceva la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla concreta determinazione della pena, la quale andava contenuta entro i minimi edittali indicando, comunque, i criteri seguiti per la sua determinazione, cosa che i giudici del merito avevano del tutto omesso.

Insisteva, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile perchè basato su motivi manifestamente infondati.

Occorre osservare, con riferimento al primo motivo di ricorso, come la semplice descrizione delle opere contenuta nell’imputazione evidenzi chiaramente la inconsistenza delle censure mosse sul punto all’impugnata sentenza.

Al ricorrente veniva infetti contestata la realizzazione, in zona vincolata ed in assenza dei prescritti titoli abilitativi, di un capannone di circa 248 mq (opera per la quale è stata dichiarata la prescrizione) ed una struttura per un capannone prefabbricato costituita da otto pilastri in ferro ancorato su plinti in cemento armato per una superficie complessiva di 207 mq.

E’ dunque del tutto corretta l’osservazione effettuata dai giudici del gravame circa l’inapplicabilità, nella fattispecie, della L.R. n. 4 del 2003 che, come pure indicato nello stesso ricorso, riguarda interventi edilizi del tutto diversi, quali la chiusura di terrazze di collegamento o la copertura di spazi interni o la chiusura di verande e balconi.

Parimenti inconferente appare l’affermazione del ricorrente circa la non assoggettabilità dell’intervento a permesso di costruire o D.I.A..

La consistenza e la natura delle opere come sopra descritte richiedeva necessariamente il permesso di costruire (oltre all’autorizzazione dell’ente proposto alla tutela del vincolo) poichè, come è noto, sono soggetti a permesso di costruire, sulla base di quanto disposto dal T.U. dell’edilizia, tutti gli interventi che, indipendentemente dalla realizzazione di volumi, incidono sul tessuto urbanistico del territorio (v. e.m. Sez. 3 n. 28457, 10 luglio 2009 n. 8064, 24 febbraio 2009; n.6930, 19 febbraio 2004) e quello realizzato dal ricorrente rientra, ad ogni effetto, nella nozione di "nuova costruzione" di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, lett. a).

Analogamente, deve escludersi la natura precaria dell’intervento edilizio in quanto l’opera precaria, per la sua stessa natura e destinazione, non deve comportare effetti permanenti e definitivi sull’originario assetto del territorio tali da richiedere, come nella fattispecie, il preventivo rilascio di un titolo abilitativo. Nel caso in esame difettano, peraltro, tutte le caratteristiche di precarietà dell’intervento individuate dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. 3 n. 25965, 22 giugno 2009).

La sentenza impugnata si presenta pertanto, sul punto, del tutto immune da censure.

Il secondo motivo di ricorso è del tutto generico ed, in ogni caso, i giudici del gravame hanno correttamente interpretato l’art. 157 c.p., contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, fornendo anche una esauriente indicazione delle ragioni che li hanno indotti a ritenere maturata la prescrizione del reato limitatamente alle opere di cui al n. 2 dell’imputazione, applicando la previgente disciplina, più favorevole al reo ed individuando al data di ultimazione dei lavori (luglio 2004) dalla aerofotogrammetria acquisita agli atti.

Per gli altri interventi, gli stessi giudici hanno coerentemente evidenziato che non poteva operare la prescrizione in quanto le opere, all’atto del sopralluogo da parte della polizia giudiziaria operante, effettuato il 25 settembre 2006, erano ancora in corso di esecuzione (al termine massimo quinquennale, peraltro, andrebbe comunque aggiunto il periodo di sospensione di giorni 62 determinato dal rinvio del processo su istanza della difesa).

Ne consegue che giustamente, per tali opere, è stata confermata l’affermazione di penale responsabilità e l’ordine di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi.

Anche l’infondatezza del terzo motivo di ricorso risulta di macroscopica evidenza.

La giurisprudenza di questa Corte è infatti orientata nel senso di ritenere che le false dichiarazioni rese da un privato nella domanda di condono integrino il reato di cui all’art. 483 c.p. (Sez. 5 n. 2978, 22 gennaio 2010; Sez. 5 n. 5122, 9/2/2006; Sez. 3 n. 9527, 3 marzo 2003; Sez. 5 n. 3762, 23 marzo 2000; Sez. 5 n. 10377, 1 settembre 1999) sul presupposto che l’ordinamento attribuisce a tali dichiarazione valenza probatoria privilegiata – con esclusione di produzioni documentali ulteriori – e, quindi, di dichiarazione destinata a dimostrare la verità dei fatti cui è riferita e ad essere trasfusa in atto pubblico (Sez. 5 n.2978/2005 cit.).

Tale orientamento è pienamente condiviso dal Collegio che non intende discostarsene.

E’ appena il caso di osservare, inoltre, che il ricorrente limita comunque le sue censure alla pressochè testuale riproduzione di quanto affermato in una sentenza del G.I.P. del Tribunale di Termini Imerese (n.837 del 15 aprile 2008) la quale, impugnata dal Procuratore Generale della Corte di appello di Palermo, è stata annullata da questa Corte (Sez. 5 n. 2978/2005 cit.) con diffusa indicazione delle ragioni per le quali la soluzione interpretativa adottata dal detto giudice del merito doveva ritenersi errata ed in contrasto con principi di diritto consolidati.

Anche il quarto motivo di ricorso evidenzia profili di manifesta infondatezza.

Contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, i giudici del gravame, accogliendo la doglianza relativa alla quantificazione della pena, hanno fornito adeguata e coerente indicazione delle ragioni che li hanno indotti a rideterminare l’entità delle sanzioni.

La Corte territoriale precisa, infatti, che tali ragioni erano da individuarsi nell’eccessivo distacco dal minimo edittale previsto per il reato di cui all’art. 483 c.p., entro il quale si era attestato il giudice di prime cure e nella necessità di ridurre l’aumento per la continuazione in conseguenza della declaratoria di estinzione di alcune contravvenzioni.

Aggiungevano, inoltre, che la quantificazione era stata effettuata secondo quanto specificato dall’art. 133 c.p. in generale e, in particolare, in considerazione della personalità dell’imputato.

Tali argomentazioni risultano del tutto sufficienti a giustificare il corretto esercizio del potere discrezionale di determinazione della pena e dei criteri di valutazione fissati dall’art. 133 c.p., non essendo richiesto al giudice di procedere ad una analitica valutazione di ogni singolo elemento esaminato, ben potendo assolvere adeguatamente all’obbligo di motivazione limitandosi anche ad indicarne solo alcuni o quello ritenuto prevalente (v. Sez. 2 n. 12749, 26 marzo 2008).

Il ricorso, conseguentemente, va dichiarato inammissibile e, a norma dell’art. 616 c.p.p., alla declaratoria di inammissibilità – non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186) – consegue l’onere delle spese del procedimento, nonchè quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti, di Euro 1000,00

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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