Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 30-09-2011) 29-11-2011, n. 44106

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propone ricorso per cassazione F.A. avverso la sentenza della Corte di appello di Brescia in data 28 settembre 2010 con la quale è stata confermata quella di primo grado di condanna per di ingiuria e minacce continuate gravi, fatti aggravati ex art. 61 c.p., n. 10.

Era accaduto che il (OMISSIS) il ricorrente, detenuto per altra causa, aveva apostrofato l’agente della polizia penitenziaria M. con gli epiteti "pezzo di merda e figlio di puttana" nonchè aveva minacciato il medesimo ed altri colleghi successivamente intervenuti (il v. sovr. B. e l’assistente S.) impugnando una lametta.

Erano scaturite da tali fatti le imputazioni ex art. 594 c.p. e art. 61 c.p., n. 10 (capo A) e art. 81 c.p., art. 612 c.p., comma 2 (in relazione all’art. 585 c.p.) e art. 61 c.p., n. 10 (capo b) .

Deduce il ricorrente, limitatamente alla imputazione sub B), il vizio di motivazione.

In ordine ai fatti che si assumono posti in essere in danno dell’agente M., la difesa afferma di "non potere condividere" le conclusioni della Corte di appello.

In primo luogo dubita che le frasi siano state effettivamente pronunciate e, nella eventualità della prova, afferma che sarebbe errata la qualificazione giuridica come minaccia grave ai sensi dell’art. 612 c.p., comma 2.

Delle due ipotesi previste da tale comma, la prima e cioè quella della gravità della minaccia, non si ritiene sufficientemente analizzata. In particolare non vi è disamina dell’entità del turbamento psichico della vittima.

In ordine alla seconda ipotesi, quella cioè dell’uso di un’arma, la difesa ricorda che la minaccia sarebbe stata proferita quando l’imputato era stato rinchiuso dentro la cella, momento caratterizzato da una certa reazione dell’imputato che, in quel frangente, non impugnava nulla.

D’altra parte la istruttoria aveva fatto emergere che l’agente M. non aveva mai visto la lametta nelle mani del detenuto in cella ed era anche da escludere che egli avesse subito alcun turbamento essendo semmai l’imputato in posizione di soggezione;

2) lo stesso vizio di motivazione con riferimento al reato di minacce in danno di B. e S..

La descrizione del comportamento del prevenuto lascia comprendere che lo stesso, quando erano intervenuti i due predetti, teneva in mano la lametta ma non la usava per minacciare. Anche la relazione di altro collega (ispettore St.) evidenziava che il detenuto veniva fatto camminare nei corridoi e pertanto inveiva ma non minacciava.

La difesa concludeva rilevando la anomalia dell’accertamento sul possesso della lametta che, incredibilmente, sarebbe stata lasciata per un lunghissimo tempo nelle mani del detenuto senza che nessuno fosse intervenuto.

Il ricorso è inammissibile perchè fondato in parte sulla mera riedizione dei motivi di appello cui la Corte di merito ha già adeguatamente risposto e in parte su ragioni diverse da quelle che possono essere sottoposte alla Cassazione.

Invero il primo motivo appare integralmente ripetitivo delle doglianze formulate con i motivi di appello e privo di qualsiasi riferimento al testo e agli argomenti della motivazione della sentenza impugnata.

Invero è del tutto evidente che la difesa continua a lamentare la assenza di prova in ordine alla integrazione di una minaccia grave sotto il profilo della insussistenza di una seria entità del turbamento psichico dell’agente, nonostante che in sentenza si sia chiaramente spiegato che l’art. 612 c.p., comma 2, viene in considerazione sotto altro profilo: quello cioè della minaccia proferita con uso di un’arma, quale la lametta deve ritenersi.

La censura è dunque inammissibile per genericità in quanto costituisce la semplice ripetizione di un motivo di appello già analizzato dal giudice a quo.

Quanto al secondo punto del primo motivo e cioè quello del mancato uso della lametta al momento della esposizione della minaccia a M., si rileva la inammissibilità della doglianza dal momento che è basata su una ricostruzione della vicenda alternativa a quella operata, del tutto plausibilmente da giudice a quo.

E’ noto che, in tema di vizi della motivazione, il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, ne1 deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verifica re se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (rv 215745).

Orbene, il giudice ha accreditato la versione, già fatta propria dal giudice del merito sulla base della deposizione degli agenti, secondo cui il prevenuto ha minacciato il M. di tagliargli la faccia tenendo dietro la schiena il braccio come per nascondere un oggetto che, successivamente, si rivelava appunto una lametta.

Rispetto a tale argomentazione, inammissibilmente la difesa trascrive nel ricorso altri brani della deposizione dell’agente M. dai quali si inferirebbe che l’agente stesso era riuscito a chiudere la porta della cella dietro al detenuto il quale, in quel frangente, non maneggiava alcunchè.

La Cassazione infatti non è organo deputato ad apprezzare in via diretta i risultati di prova e ad interpretarli in modo autonomo rispetto al giudice del merito e, d’altra parte, un simile apprezzamento sarebbe impedito anche dalla evidente impossibilità di evocare il travisamento della prova: infatti è del tutto evidente che l’argomento della difesa attiene ad un passo della testimonianza dell’agente del tutto compatibile con la interpretazione che il giudice ha dato dell’intero comportamento del prevenuto, tenuto conto soprattutto di quanto accadde quando il F. fu fatto riuscire dalla cella per essere accompagnato dall’Ispettore per motivi disciplinari.

Inammissibile perchè versato in fatto è anche il secondo motivo di ricorso.

La difesa ancora una volta ricorre alla citazione di prove (la relazione dell’ispettore St.) che a Cassazione non può valutare in sè, indipendentemente cioè dalla valutazione datane dal giudice del merito e secondo una linea che si discosti dall’apprezzamento della razionalità e della completezza del ragionamento esibito nel provvedimento impugnato.

Non può dunque, la Cassazione, essere chiamata, come invece fa il ricorrente, ad accreditare una ricostruzione alternativa del comportamento del detenuto e ad accedere alla tesi difensiva (peraltro contraddittoria intrinsecamente) secondo cui quello avrebbe sì inveito contro gli agenti che lo scortavano ma, pur brandendo una lametta, si sarebbe astenuto dal minacciarli.

Infine del tutto inammissibile è la riproposizione dei dubbi della difesa sulla logicità della affermazione – proveniente invero da tutte le testimonianze – del possesso di una lametta da parte del detenuto che per lungo tempo non ne sarebbe stato privato coattivamente, atteso che si tratterebbe di una osservazione incapace di rappresentare una massima di esperienza e, come tale, di poter essere considerata dal giudice della legittimità come utile parametro di riferimento per saggiare la razionalità del ragionamento del giudice.

Infatti l’id quod plerumque accidit è semmai nel segno della possibile predisposizione di armi improprie, nel carcere, e comunque di una gestione della situazione di pericolo da parte del personale penitenziario tale da non aggravare la esposizione dei presenti.

Alla inammissibilità consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che appare equo determinare in Euro 500.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed a versare alla Cassa delle ammende la somma di Euro 500.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *