Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 25-11-2011) 30-11-2011, n. 44388 Poteri della Cassazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 29/12/2010, la Corte di appello di Palermo, confermava la sentenza emessa dal Gup del Tribunale di Trapani, in data 28 ottobre 2009, che aveva condannato V.C. alla pena di anni due, mesi tre e gg. 20 di reclusione ed Euro 300,00 di multa per più episodi di estorsione e turbativa d’asta.

I fatti riguardavano condotte poste in essere dall’imputato, avvocato del foro di Trapani che, nell’ambito di tre procedure di aggiudicazione di immobili sottoposti a procedimenti esecutivi e fallimentari, agendo quale procuratrice del coimputato L. G. (giudicato separatamente) aveva concorso nella condotta delittuosa di quest’ultimo consistente nella indebita richiesta di somme di denaro, a fronte della minaccia di partecipare all’aggiudicazione degli immobili presentando offerte più elevate.

La Corte territoriale respingeva le censure mosse con l’atto d’appello, in punto di credibilità delle dichiarazioni delle parti offese C.F., Vi.Be. e M.G..

In punto di diritto la Corte respingeva la richiesta di assorbimento del reato di estorsione in quello di turbata libertà degli incanti, nonchè la richiesta di derubricazione dei fatti reato, ex art. 353 nell’ipotesi di reato di cui all’art. 354 c.p. e confermava le statuizioni del primo giudice, ritenendo accertata la penale responsabilità dell’imputata in ordine a tutti i reati a lei ascritti, ed equa la pena inflitta.

Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputata per mezzo dei suoi difensori di fiducia sollevando tre motivi di gravame.

Con il primo motivo deduce violazione della legge penale in relazione al reato di cui all’art. 629 c.p., nonchè mancanza assoluta di motivazione in ordine alle prove evidenziate nell’atto di appello dimostrativa dell’insussistenza dell’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 629 c.p..

Al riguardo eccepisce che nella vicenda de qua non sono integrati gli estremi dell’elemento oggettivo del reato di estorsione, poichè in nessuna delle tre ipotesi estorsive contestate all’imputata sarebbe ravvisabile la coartazione della volontà delle persone offese. Nelle vicende esaminate non sarebbe ravvisabile una minaccia nei confronti delle persone offese, quanto piuttosto un accordo illecito (ma non estorsivo) fra differenti soggetti, senza coartazione alcuna. La Corte territoriale, partendo da un erroneo presupposto avrebbe travisato le emergenze probatorie, omettendo di valutare le prove, indicate nell’atto d’appello, idonee a dimostrare una ricostruzione alternativa dei fatti. In particolare per quanto riguarda la vicenda di C.F., dalle testimonianze dell’avv. P. e della dr.ssa R., raccolte in sede di indagini difensive emerge che l’incontro fra l’imputata ed i C. avvenne per iniziativa di questi ultimi che, prima dell’inizio dell’asta, la avvicinarono.

Pertanto il successivo incontro nello studio dell’avv. V. avvenne per iniziativa dei C. i quali erano fermamente interessati a rientrare in possesso del bene di famiglia, senza rischiare che lo stesso venisse aggiudicato ad altri. Inserita in questo contesto, la conversazione registrata assume un tenore sostanzialmente diverso. La ricorrente si duole, inoltre che la Corte avrebbe sostanzialmente travisato il significato della quietanza rilasciata dall’avv. V. a tergo della fotocopia dell’assegno che, lungi dall’avere un valore contessono, dimostrava la perfetta buona fede in testa all’agente. Analoghe considerazioni svolge la ricorrente in ordine alla vicenda di Vi.Be., osservando che il contatto con l’avvocato V. avvenne esclusivamente per iniziativa del Vi., mentre il giorno dell’asta fu il Vi. ad avvicinare la V. ed a consegnarle la somma che egli aveva concordato con il L., affinchè costui rinunziasse a partecipare all’asta.

Quanto alla vicenda dell’estorsione in danno di M.G., la ricorrente propone una diversa valutazione dei fatti, facendo rilevare che la presenza alle trattative ed alla consegna dell’assegno dell’avv. v., che assisteva il M., costituisce circostanza indicativa che si trattasse di una vera transazione, anzichè un’estorsione come apoditticamente ritenuto in sentenza.

Pertanto eccepisce, in tutte e tre le ipotesi estorsive contestate l’iniziativa venne dalle persone offese, le quali, volendo rientrare in possesso di un proprio bene, fecero in modo di accordarsi per evitare la partecipazione dell’imputata alle aste, avendo – in tal modo – la certezza dell’aggiudicazione.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce erronea applicazione della legge penale, segnatamente degli artt. 15, 629 e 353 c.p., nonchè mancanza assoluta di motivazione in ordine al chiesto assorbimento dei reati di estorsione in quelli di turbativa d’asta.

Al riguardo si duole che la Corte territoriale abbia rigettato il motivo d’appello relativo all’assorbimento della estorsione nel reato di turbativa d’asta con una motivazione apparente ed erronea, indicando la minaccia come il quid pluris che distinguerebbe il reato di estorsione da quello di turbativa d’asta, sebbene il ricorso a mezzi intimidatori rappresenti un elemento della condotta che accomuna le due ipotesi di reato. Eccepisce, quindi che la norma incriminatrice, ex art. 353 c.p., prevale rispetto a quella concorrente di cui all’art. 629 c.p., con la conseguenza che quest’ultimo reato doveva ritenersi assorbito in quello di turbata libertà degli incanti.

Con il terzo motivo deduce erronea applicazione della legge penale con riferimento agli artt. 353 e 354 c.p.. Al riguardo si duole della mancata derubricazione dei fatti contestati, ex art. 353 nell’ipotesi di reato di cui all’art. 354 c.p., assumendo che il comportamento della V. che si impegnava a non partecipare all’asta doveva essere sussunto nella fattispecie di cui all’art. 354 c.p..

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato.

Per quanto riguarda il primo motivo con il quale la ricorrente eccepisce che nella vicenda de qua non sono integrati gli estremi dell’elemento oggettivo del reato di estorsione, poichè in nessuna delle tre ipotesi estorsive contestate all’imputata sarebbe ravvisarle la coartazione della volontà delle persone offese, nell’esaminare le doglianze formulate dalla ricorrente, appare utile ricordare, in via preliminare, i rigorosi limiti del controllo di legittimità sulla sentenza di merito.

Invero, ai sensi di quanto disposto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non concerne nè la ricostruzione dei fatti nè l’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile:

a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato;

b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento. Con l’ulteriore precisazione, quanto alla l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, che deve essere evidente ("manifesta illogicità"), cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento (Cass., Sez. 1, 26 settembre 2003, Castellana ed altri). In altri termini, l’illogicità della motivazione, deve risultare percepibile ictu oculi, in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Cass., Sez. 4, 4 dicembre 2003, Cozzolino ed altri). Inoltre, va precisato, che il vizio della "manifesta illogicità" della motivazione deve risultare dal testo del provvedimento impugnato, nel senso che il relativo apprezzamento va effettuato considerando che la sentenza deve essere logica "rispetto a sè stessa", cioè rispetto agli atti processuali citati nella stessa ed alla conseguente valutazione effettuata dal giudice di merito, che si presta a censura soltanto se, appunto, manifestamente contrastante e incompatibile con i principi della logica (Cass., Sez. 4, 2 dicembre 2004, Grado ed altri).

I limiti del sindacato della Corte non paiono mutati neppure a seguito della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), intervenuta a seguito della L. 20 febbraio 2006, n. 46, laddove si prevede che il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve mirare a verificare che la motivazione della pronuncia:

a) sia "effettiva" e non meramente apparente, cioè realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata;

b) non sia "manifestamente illogica", in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica;

c) non sia internamente "contraddittoria", ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute;

d) non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi del suo ricorso per Cassazione: c.d. autosufficienza) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico. Alla Corte di Cassazione, infatti, non è tuttora consentito di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti magari finalizzata, nella prospettiva del ricorrente, ad una ricostruzione dei medesimi in termini diversi da quelli fatti propri dal giudice del merito. Così come non sembra affatto consentito che, attraverso il richiamo agli "atti del processo", possa esservi spazio per una rivalutazione dell’apprezzamento del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamento riservato in via esclusiva al giudice del merito.

In altri termini, al giudice di legittimità resta tuttora preclusa – in sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa: un tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto. Pertanto la Corte, anche nel quadro nella nuova disciplina, è e resta giudice della motivazione.

Alla luce di tali pacifici principi di diritto, le censure sollevate dalla ricorrente con il primo motivo risultano inammissibili in quanto tendono a provocare una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione per pervenire ad una diversa ricostruzione del fatto, in virtù della quale le tre diverse vicende vengono considerate come delle transazioni mediante le quali le parti interessate all’acquisto degli immobili messi all’asta regolano i propri contrastanti interessi, senza che possa profilarsi alcuna minacciosa coartazione della volontà dei soggetti che hanno effettuato i pagamenti.

Per le ragioni sopra esposte la S.C. non può procedere ad una rilettura del fatto.

Per quanto riguarda il secondo motivo, in punto di assorbimento del reato di estorsione in quello di turbativa d’asta, la censura è infondata. E’ ben vero che la questione è stata oggetto di oscillazioni giurisprudenziali in quanto vi è un isolato precedente che ha escluso il concorso formale fra estorsione e turbativa d’asta, ritenendo che, in base al principio di specialità, il primo delitto deve ritenersi assorbito nel secondo (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 19607 del 03/03/2004 Cc. (dep. 28/04/2004) Rv. 228964). Tuttavia l’orientamento prevalente della giurisprudenza della S.C. che questo Collegio condivide, ammette la possibilità del concorso formale fra il delitto di estorsione e quello di turbativa d’asta. Al riguardo questa Sezione ha statuito che:

"I delitti di estorsione e di turbata libertà degli incanti possono concorrere formalmente nel caso in cui la condotta materiale e l’elemento soggettivo abbiano in concreto realizzato entrambi i fatti puniti dagli artt. 353 e 629 c.p., dal momento che l’estorsione si caratterizza per una coartazione dell’altrui volontà con lo specifico fine del conseguimento di un ingiusto profitto con altrui danno patrimoniale, ed il delitto di turbata libertà degli incanti si connota invece per il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di impedire, turbare la gara o allontanare gli offerenti, e per essere reato di pericolo che si consuma nel momento e nel luogo in cui si è impedita o turbata la gara, senza che occorra nè la produzione di un danno nè il conseguimento di un profitto" (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4925 del 26/01/2006 Cc. (dep. 08/02/2006) Rv.

233346; conforme: Sez. 2, Sentenza n. 12266 del 27/02/2008 Cc. (dep. 19/03/2008) Rv. 239753).

In particolare, questa Sezione, nella sentenza citata, ha osservato:

"Se, quindi, la turbativa d’asta si perfezioni attraverso una condotta di violenza o di minaccia, è evidente che si realizzi un rapporto di genus ad speciem rispetto alla "innominata" figura della violenza privata prevista dall’art. 610 c.p., posto che la prima comprende in sè tutti gli elementi della seconda (non ultimo, si è detto, anche l’interesse tutelato), più elementi "specializzanti" che valgono ad escludere il concorso fra le norma. Ben diversa, è, invece, la struttura e l’obiettività giuridica del delitto di estorsione, il quale pur "contiene" in sè l’ipotesi generica della violenza privata. L’estorsione, infatti, si caratterizza per una coartazione della altrui volontà con lo specifico fine del conseguimento di un ingiusto profitto, con altrui danno patrimoniale:

la differenza è pertanto evidente, sia per ciò che attiene elemento soggettivo, posto che quella finalità è del tutto estranea al reato di cui all’art. 353 c.p., connotato, invece, dal dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di impedire, turbare la gara o allontanare gli offerenti, con l’uso dei mezzi indicati dalla stessa previsione normativa; sia perciò che attiene all’evento, posto che il reato (di pericolo) si consuma nel momento e nel luogo in cui, con l’uso di uno dei mezzi previsti dalla legge, si è impedita o turbata la gara, senza che occorra nè la produzione di un danno, nè il conseguimento di un profitto (Cass., Sez. 6^, 24 ottobre 1997, Todini). La condotta che realizzi una estorsione, dunque, non può in nessun caso ritenersi "assorbita" nel reato di turbativa d’asta, nè quest’ultimo può ritenersi "consumato" nel primo, diversi essendo i "perimetri" di offensività che le due previsioni, strutturalmente e teleologicamente non sovrapponibili, mirano a delineare. Ove, dunque, la condotta materiale e l’elemento soggettivo abbiano in concreto realizzato entrambi i "fatti" puniti dagli artt. 629 e 353 c.p., le relative previsioni concorrono fra loro, giacchè soltanto in questo modo il diverso disvalore che le norme stesse esprimono ed intendono perseguire, può dirsi integralmente "coperto". Più specificamente in una fattispecie del tutto simile a quella in esame, questa Corte ha statuito che:

"Integra la condotta del delitto di estorsione la pretesa di una somma di denaro, rivolta ad uno dei partecipanti ad un’asta giudiziaria da parte di altro concorrente come compenso per l’astensione dalla partecipazione, perchè la prospettazione dell’esercizio di un diritto, nel caso di specie del diritto di prendere parte alla gara, siccome finalizzato al conseguimento di un ingiusto profitto, assume connotazioni minacciose". (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 774 del 28/11/2007 Cc. (dep. 09/01/2008) Rv. 238904).

Alla luce di quanto sopra, deve ritenersi infondata nel caso di specie l’eccezione di assorbimento dei reati di cui all’art. 629 in quelli di cui all’art. 353 c.p..

Tuttavia, ai sensi dell’art. 619 c.p.p. deve disporsi la correzione dell’errore contenuto nella motivazione della sentenza impugnata che ha identificato l’elemento specializzante nel carattere minaccioso della condotta. Infatti il "quid pluris" che impedisce l’assorbimento dell’estorsione nel reato di turbativa d’asta non è la condotta minacciosa, contemplata anche dal reato di cui all’art. 353, bensì l’evento di danno, vale a dire il conseguimento di un ingiusto profitto con altrui danno. Dalla ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito emerge con chiarezza che si è verificato l’ulteriore evento di danno, rispetto alla turbativa d’asta, in tutti e tre gli episodi di estorsione contestati.

Infine è infondato anche il terzo motivo in punto di riqualificazione giuridica del reato ex art. 353 nella differente ipotesi di reato di cui all’art. 354 c.p..

Secondo l’insegnamento di questa Corte, infatti:

"Integra il delitto di turbata libertà degli incanti e non quello meno grave di astensione dagli incanti la condotta di chi non si limita ad astenersi dal concorrere agli incanti o alle licitazioni private in cambio della dazione o della promessa di danaro o altra utilità, ma partecipa altresì in maniera attiva all’intesa illecita finalizzata ad impedire o turbare la gara ovvero allontanarne gli offerenti." (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 1934 del 20/10/2009 Ud. (dep. 15/01/2010) Rv. 245760).

Nel caso di specie la sentenza impugnata è coerente con tale principio di diritto poichè dalla motivazione della sentenza impugnata emerge chiaramente che l’imputata non si limitò ad astenersi dal partecipare (attraverso il suo cliente) agli incanti, ma partecipò attivamente all’intesa illecita, tanto da porre in essere dei comportamenti che sono stati ritenuti integranti il reato di cui all’art. 629 c.p..

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso, l’imputata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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