Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 09-11-2011) 30-11-2011, n. 44421

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

Con sentenza del 27 ottobre 2010, la Corte d’Appello di Milano confermava la pronuncia con la quale, in data 26 settembre 2009, i Tribunale di Monza aveva riconosciuto R.L.M. colpevole del reato di cui all’art. 609bis c.p. in danno di T. E., sua dipendente, la quale veniva costretta a subire il palpeggiamento dei glutei.

Al R. erano stati originariamente contestati altri episodi di abuso sessuale in danno della T., consistenti in palpeggiamenti del seno e dei glutei in un periodo compreso tra la primavera del 2002 ed il 3 ottobre del 2006, in ordine ai quali il giudice di prime cure dichiarava l’improcedibilità per difetto di querela ed il reato di maltrattamenti dal quale, invece, il R. era stato assolto per insussistenza del fatto.

Avverso tale decisione il predetto proponeva ricorso per cassazione.

Con un primo motivo di ricorso deduceva il vizio di motivazione con riferimento alla valutazione circa la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato.

Osservava, a tale proposito, come il gesto a lui attribuito era scevro da qualsivoglia connotazione sessuale e, nonostante ciò, la Corte del merito avesse omesso ogni apprezzamento in ordine all’elemento psicologico del reato, limitandosi ad affermazioni del tutto apodittiche e generiche.

Tale valutazione, inoltre, non teneva conto dell’intero contesto entro il quale la vicenda si era svolta, risultando dall’istruzione dibattimentale l’attitudine dell’imputato ad una incontenibile gestualità che lo portava ad accompagnare le parole toccando l’interlocutore anche in zone potenzialmente erogene senza, tuttavia, alcuna finalità di natura sessuale, cosicchè la persona offesa avrebbe potuto erroneamente interpretare un comportamento abitualmente rivolto a tutti i soggetti, uomini e donne, che l’imputato frequentava.

Aggiungeva che l’episodio, svoltosi lungo una stretta scala, poteva essere avvenuto accidentalmente.

Con un secondo motivo di ricorso lamentava la carenza di motivazione in ordine alla richiesta di riduzione della pena formulata con l’atto di appello.

Rilevava, sul punto, che non era stata integralmente applicata la riduzione di due terzi, prevista dall’art. 609 c.p., u.c., nonostante la lieve entità del fatto contestato, connotato da una minima lesività.

Insisteva, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile perchè basato su motivi manifestamente infondati.

Occorre preliminarmente osservare che la sussistenza del fatto non è in contestazione nè, tanto meno, l’attendibilità della persona offesa che la Corte territoriale ha pienamente riconosciuto, respingendo con fermezza i rilievi contenuti nell’atto di appello sul punto, sottolineando la gratuità dei giudizi espressi ed osservando, più volte, come gli stessi, ancorchè contenuti in uno scritto difensivo, fossero assai prossimi alla calunnia.

Ciò che il ricorrente pone in discussione in questa sede è la scarsa attenzione che sarebbe stata prestata dalla Corte territoriale alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato alla luce di quanto emerso dall’istruzione dibattimentale circa la particolare e comprovata esuberanza gestuale che il ricorrente manifestava sul luogo di lavoro con i propri dipendenti e senza considerare la possibilità di una erronea valutazione da parte della persona offesa di un gesto accidentale.

Date tali premesse, deve ricordarsi come questa Sezione, sull’elemento soggettivo nel reato di violenza sessuale, abbia già avuto modo di precisare che è del tutto irrilevante, quando sia sussistente la coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà sessuale della persona non consenziente, l’eventuale fine ulteriore, sia esso di concupiscenza, ludico o d’umiliazione, propostosi dal soggetto agente (Sez. 3, n. 21336, 4 giugno 2010; Sez. 3, n. 39718, 12 ottobre 2009; Sez. 3, n. 28815, 11 luglio 2008; Sez. 3, n. 4402, 10 aprile 2000).

Si è ulteriormente chiarito, inoltre, che la prova del dolo, quando difettino esplicite ammissioni del soggetto attivo del reato, può essere desunta da elementi esterni e, segnatamente, da quei dati della condotta che, per la loro offensività o per l’obiettivo disvalore sociale, siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente (Sez. 3, n. 11866, 26 marzo 2010).

La richiamata decisione, inoltre, pone l’accento sulla complessità della prova del dolo nelle ipotesi di toccamenti non particolarmente invasivi o univoci nella collocazione in un contesto diverso da quello inerente la sessualità, quale quello ludico, o perchè connotati da eventuale casualità, affermando che, in tali casi, non può prescindersi da una verifica su dati controllabili "… sia pure sulla base di elementi empiricamente riscontrabili e di massime di esperienza pertinenti, avuto riguardo alle caratteristiche concrete del fatto e non alla fattispecie astratta. Poichè il dolo si trasfonde nel fatto nel momento della sua attuazione, per il suo accertamento, rilievo preminente assumono le modalità della condotta e le circostanze che l’hanno preceduta e l’hanno seguita. Tuttavia anche elementi estranei alla condotta, come ad esempio, per rimanere nella fattispecie concreta, ì disagi causati nella vittima, possono assumere rilievo a condizione però che abbiano valore sintomatico per la ricostruzione dell’atteggiamento psichico dell’agente".

Alla luce dei principi richiamati, che il Collegio condivide pienamente, deve rilevarsi come, nella fattispecie, la Corte territoriale abbia fornito una adeguata e coerente motivazione circa la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato non incorrendo in omissione motivazionale.

Invero i giudici del gravame richiamano, in primo luogo, la inequivoca obiettività del gesto compiuto dall’imputato, ricordando che la persona offesa, nel corso della sua deposizione, l’aveva descritto non come un semplice palpeggiamento, quanto, piuttosto, come "una vera e propria strizzata della natica", trovando poi conferma delle intenzioni dell’imputato nella risposta da questi data alla dipendente che, reagendo, gli chiedeva cosa stesse facendo, sentendosi rispondere "ti sento le forme".

Del tutto correttamente, a fronte di tali dati fattuali, i giudici del gravame hanno tralasciato ogni ulteriore approfondimento la cui superfluità risultava di macroscopica evidenza.

Invero, la concreta materialità del gesto escludeva ogni possibilità di ricondurlo in un ambito diverso da quello prettamente sessuale, essendo del tutto evidente che una simile condotta non poteva in nessun modo ritenersi accidentale nè, tanto meno, sintomatica di una particolare gestualità che, per quanto incontenibile e ben nota all’interlocutore, non consentirebbe in nessun caso un’azione decisamente invasiva dell’altrui sfera sessuale come lo "strizzamento della natica" che la persona offesa venne costretta a subire.

Fugava, inoltre, ogni eventuale dubbio la risposta data dall’imputato alla persona offesa.

Non era pertanto necessario, a fronte dell’evidenza dei fatti, alcun ulteriore approfondimento da parte dei giudici del gravame.

La manifesta infondatezza del secondo motivo di ricorso appare altrettanto evidente.

Lamenta il ricorrente la carenza di motivazione in ordine alla richiesta di riduzione della pena e, segnatamente, per la mancata applicazione della concessa attenuante di cui all’art. 609bis c.p., comma 3 nella massima estensione.

Va preliminarmente ricordato che, nel caso in cui il giudice, concessa un’attenuante, diminuisca la pena in una misura prossima al massimo consentito dalla legge, non ha l’obbligo di motivare espressamente le ragioni per le quali non è stata diminuita nella misura massima (Sez. 2, n. 1490, 8 febbraio 1996).

Ciò posto, deve osservarsi come la Corte territoriale, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, ha contrariamente motivato in ordine alla dosimetria della pena, rilevando che il giudice di prime cure, senza indicarne le ragioni, ha riconosciuto all’imputato le attenuanti generiche ritenendole prevalenti sull’aggravante contestata ed applicando l’attenuante dell’art. 609 bis c.p. operando quasi il massimo della riduzione.

A fronte di tale giustificazione, che va ovviamente letta non in modo isolato come riferita alle complessive valutazioni formulate nell’intera motivazione, non erano necessarie ulteriori precisazioni, avendo i giudici del merito adeguatamente assolto all’obbligo di motivazione.

Il ricorso, conseguentemente, va dichiarato inammissibile e, a norma dell’art. 616 c.p.p., alla declaratoria di inammissibilità – non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186) – consegue l’onere delle spese del procedimento nonchè quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti, di Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende, nonche0 alla rifusione delle spese del grado in favore della parte civile costituita che liquida in complessivi Euro 2.500,00 ad IVA ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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