Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 09-11-2011) 30-11-2011, n. 44412 Determinazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 21 novembre 2008, la Corte d’Appello di Napoli riformava parzialmente la sentenza emessa il 29 giugno 2006 dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, appellata da Pubblico Ministero e dagli imputati, con la quale F.L. e FI.Ma. erano stati condannati, unitamente ad altri coimputati, per i reati di associazione per delinquere e sfruttamento della prostituzione e, conseguentemente, applicava nei confronti dei predetti la misura di sicurezza detentiva della casa di lavoro per un anno ciascuno, confermando nel resto la sentenza impugnata.

Avverso tale decisione i predetti proponevano ricorso per cassazione.

F.L. deduceva il vizio di motivazione con riferimento:

all’inutilizzabilità dei decreti di intercettazione telefonica e dei successivi decreti di proroga, rilevando che la Corte territoriale si era limitata alla mera citazione del contenuto dell’art. 267 c.p.p. senza effettuare il doveroso controllo che la natura dell’atto di indagine avrebbe imposto;

alla mancata assoluzione nel merito, rilevando che gli esiti delle intercettazioni non potevano ritenersi sufficienti per pervenire alla condanna ed, in ogni caso, all’affermazione di penale responsabilità per il reato associativo, potendosi al più ritenere che la condotta ascrittagli potesse qualificarsi come mero concorso nel favoreggiamento dell’altrui prostituzione;

alla quantificazione della pena, che non appariva commisurata alla gravità del fatto contestato, in quanto l’affermazione di responsabilità per i gravi reati attribuitigli si era basata sulla sola frequentazione di un locale pubblico ed alcune conversazioni alla applicazione della misura di sicurezza detentiva, alla quale la Corte territoriale sarebbe pervenuta sulla base di un inammissibile automatismo, senza operare alcuna valutazione in concreto sulla pericolosità.

FI.Ma. deduceva anch’essa il vizio di motivazione con riferimento:

alla affermazione di responsabilità per il reato associativo, in ordine alla quale non era dato conoscere il percorso argomentativo seguito dai giudici e connotata dalla sola messa a disposizione degli altri associati dell’utenza del proprio bar, peraltro confusa con un’utenza cellulare;

alla collocazione della condotta, concretatasi nella custodia del denaro delle prostitute, nell’ambito del favoreggiamento della prostituzione alla mancata esclusione dell’ipotesi grave di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 4, in quanto la condotta posta in essere risultava connotata dall’assenza di violenza e minaccia alla mancata concessione delle attenuanti generiche.

Entrambi insistevano, pertanto, per l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.

Motivi della decisione

Occorre preliminarmente osservare che entrambi i ricorsi sono caratterizzati da estrema genericità, in quanto, pur deducendo il vizio di motivazione, non indicano specificamente le ragioni delle doglianze sollevate, limitandosi a indefinite considerazioni e sommarie prospettazioni di valutazione alternativa del complessivo impianto probatorio.

Contrariamente a quanto affermato nei primi tre motivi di ricorso del F. e nei motivi di ricorso della FI., tutti manifestamente infondati, la sentenza impugnata appare immune da censure.

Date tali premesse, è anche i caso di ricordare come la consolidata giurisprudenza di questa Corte è orientata nel senso di ritenere che il controllo sulla motivazione demandato al giudice di legittimità resta circoscritto, in ragione della espressa previsione normativa, al solo accertamento sulla congruità e coerenza dell’apparato argomentativo con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo e non può risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti (si vedano ad esempio, limitatamente alla pronunce successive alle modifiche apportate all’art. 606 c.p.p. dalla L. n. 46 del 2006, Sez. 6, n. 10951, 29 marzo 2006; Sez. 6, n. 14054, 20 aprile 2006; Sez. 6, n. 23528, Sez. 3, n. 12110, 19 marzo 2009).

Nell’ambito di tale cognizione deve rilevarsi che la Corte territoriale ha fornito adeguata risposta a tutte le doglianze prospettate negli atti di appello con argomentazioni solide, esaustive e prive di cedimenti logici.

Venendo ai singoli motivi del ricorso presentato dal F., occorre rilevare, con riferimento alle operazioni di intercettazione, che la Corte ha compiutamente dato atto della circostanza che l’atto di appello mancava di specifiche indicazioni sulle omissioni o carenze lamentate nei decreti, tanto che non era possibile valutare in concreto la generica censura mossa ed aggiungeva che, in ogni caso, la motivazione era congrua.

Anche in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato associativo non si riscontra alcuna carenza motivazionale.

La Corte territoriale precisa, infatti, che le indagini si sono svolte non solo attraverso l’ascolto delle conversazioni telefoniche, ma anche mediante appostamenti e pedinamenti e successiva identificazione dei soggetti coinvolti nel sodalizio criminoso.

Si precisa che le conversazioni intercettate sono eloquenti e che il risultato degli accertamenti espletati ha consentito di individuare le modalità con le quali i singoli associati operavano attraverso una serie di attività, dettagliatamente descritte, che chiaramente evidenziavano il ruolo svolto da ciascun consociato ed il contributo offerto da ciascuno per la commissione dei reati – fine.

Il F. risultava peraltro essere stato più volte individuato in compagnia di altri imputati presso il locale della FI., che costituiva il luogo di incontro degli associati, mentre il contenuto delle conversazioni intercettate consentiva di evidenziarne la piena partecipazione all’attività delittuosa.

Altrettanto generiche appaiono le doglianze in ordine alla quantificazione della pena, che semplicemente si assume non proporzionata ai fatti contestati.

La Corte ha evidenziato la gravità dei fatti stessi, le modalità della condotta e l’allarmante entità dei reati ascritti, chiarendo che la pena irrogata dal primo giudice non appariva connotata da eccessiva severità.

Tali argomentazioni risultano del tutto sufficienti a giustificare il corretto esercizio del potere discrezionale di determinazione della pena e dei criteri di valutazione fissati dall’art. 133 c.p., non essendo richiesto al giudice di procedere ad una analitica valutazione di ogni singolo elemento esaminato, ben potendo assolvere adeguatamente all’obbligo di motivazione limitandosi anche ad indicarne solo alcuni o quello ritenuto prevalente (v. Sez. 2, n. 12749, 26 marzo 2008).

A conclusioni analoghe deve giungersi con riferimento al ricorso della FI..

Le generiche argomentazioni poste a sostegno dello stesso non intaccano, infatti, l’articolata indicazione del preciso ruolo assunto dalla ricorrente nell’ambito dell’associazione mettendo a disposizione il proprio esercizio commerciale e l’utenza telefonica ivi ubicata e fungendo da raccordo tra i singoli componenti del gruppo e da cassiera delle singole prostitute.

Altrettanto infondata è la considerazione circa la mancanza di violenza e minaccia che avrebbe connotato la sua condotta, posto che dalla semplice descrizione dei fatti indicati nell’imputazione e nella decisione impugnata appare di tutta evidenza che la costrizione al meretricio delle singole vittime avveniva anche attraverso minacce di morte e percosse.

Anche in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche la Corte territoriale ha fornito idonea spiegazione, chiarendo che la richiesta della ricorrente non era supportata da alcuna specifica indicazione di elementi positivi di valutazione e che, in ogni caso, il ruolo dalla stessa svolto non deponeva favorevolmente.

A tale proposito occorre ricordare che la concessione delle attenuanti generiche presuppone la sussistenza di positivi elementi di giudizio e non costituisce un diritto conseguente alla mancanza di elementi negativi connotanti la personalità del reo, cosicchè deve ritenersi legittimo il diniego operato dal giudice in assenza di dati positivi di valutazione (Sez. 1 n. 3529, 2 novembre 1993; Sez. 6, n. 6724, 3 maggio 1989; Sez. 6, n. 10690, 15 novembre 1985; Sez. 1, n. 4200, 7 maggio 1985).

Il quarto motivo di ricorso proposto dal F. appare, invece, fondato.

Invero, la Corte territoriale ha ritenuto applicabile la misura di sicurezza detentiva ai sensi dell’art. 538 c.p. richiamando la pacifica giurisprudenza che ha escluso l’abrogazione di tale disposizione ad opera della L. n. 75 del 1958 ed osservando che, in caso di condanna per il reato di sfruttamento della prostituzione, tale misura è obbligatoria.

Tale opzione ermeneutica non tiene tuttavia conto delle indicazioni fornite da questa Corte in una recente e condivisibile pronuncia (Sez. 3, n. 8843, 27 febbraio 2009), ove si è precisato che occorre considerare come la L. 10 ottobre 1986, n. 663, art. 31 abbia determinato la soppressione della presunzione della qualità di persona socialmente pericolosa, abrogando l’art. 204 c.p., con la conseguenza che, in tema di sfruttamento della prostituzione, la misura di sicurezza detentiva può essere applicata soltanto a seguito dell’accertamento in concreto che il soggetto attivo sia persona socialmente pericolosa.

Sul punto la Corte territoriale non fornisce alcuna indicazione specifica, con la conseguenza che la lacuna motivazionale dovrà essere colmata nel successivo giudizio di rinvio.

Dell’effetto estensivo dell’annullamento della sentenza impugnata potrà ovviamente giovarsi la FI..

P.Q.M.

Annulla il provvedimento impugnato con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Napoli limitatamente alla misura di sicurezza quanto al F. e, per l’effetto estensivo, anche nei confronti della FI..

Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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