Cass. civ. Sez. II, Sent., 20-06-2012, n. 10208 Distanze legali

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 2002 il Tribunale di Belluno, Sezione distaccata di Pieve di Cadore, accolse la domanda proposta da D.Z.C. e T.D.Z.M.E. avverso i proprietari confinanti D. Z.B., D.Z.M. e C.D.Z.E. diretta ad ottenere la loro condanna all’eliminazione della nuova veduta da essi aperta sul fondo degli istanti a distanza inferiore a quella legale, mediante realizzazione, in luogo di una preesistente piccola finestra, di una terrazza al piano sottotetto.

Interposto gravame, la pronuncia di primo grado fu completamente riformata dalla Corte di appello di Venezia che, con sentenza n. 1864 del 24 novembre 2005, rigettò la domanda degli attori affermando che, sulla base degli accertamenti svolti dal consulente tecnico d’ufficio, le nuove aperture prospicienti il terrazzino rispettavano la distanza legale posta dagli artt. 905 e 907 cod. civ. per le vedute dirette e laterali, essendo la distanza tra il confine ed il serramento delle stesse di m. 1,67 frontalmente e di m. 0.80 lateralmente, aggiungendo altresì che la suddetta terrazza era stata munita di parapetti in legno ai due lati alti m. 1,53, in corrispondenza con le falde spioventi del tetto, e di un vetro frontale alto m. 1,46, che non consentivano ad una persona di normale statura di esercitare la veduta mediante lo sporgersi sul fondo vicino.

Per la cassazione di questa decisione, con atto notificato il 30 marzo 2006, ricorrono T.D.Z.M.E., D.Z. S. e D.Z.C., affidandosi a cinque motivi, illustrati da successiva memoria.

D.Z.B., D.Z.D.B.M. e C.D.Z. E., resistono con controricorso.

Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso, denunziando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1067 cod. civ., censura la decisione impugnata per avere escluso l’aggravamento della servitù di veduta nonostante che, come compiutamente risulta dai documenti di causa, i convenuti avessero sostituito la finestra di ridotte dimensioni da dove in precedenza era esercitata con una terrazza aperta su tre lati, dando rilievo all’esistenza di un parapetto nonostante che esso fosse stato aggiunto alla costruzione originaria.

Il secondo motivo denunzia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, lamentando che la Corte di appello abbia affermato, contrariamente alle risultanze di causa, che i lati della terrazza erano stati chiusi fino alle falde del tetto, laddove invece rimaneva uno spazio per vedere, per non avere rilevato che essa superava di ben 90 cm. la lunghezza dell’originario avancorpo dell’edificio e per avere, al fine di escludere trattarsi di veduta, fatto riferimento ad una persona di statura normale, senza precisarne i caratteri, e per non avere infine considerato che il parapetto della terrazza era alto m.

1.03 e che solo in corso di causa sono stati aggiunti accorgimenti, peraltro del tutto provvisori.

Il terzo motivo, denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 900, 901, 903, 905 e 906 cod. civ., lamenta che il giudice di secondo grado abbia escluso che dalla terrazza in contestazione potesse esercitarsi la prospectio sul fondo dei ricorrenti, in forza della predisposizione da parte degli appellanti di accorgimenti soltanto provvisori, che comunque non impedivano del tutto di affacciarsi.

I tre motivi, che vanno trattati insieme per la loro connessione obiettiva, sono in parte inammissibili ed in parte infondati.

La Corte di appello di Venezia ha escluso la sussistenza della violazione delle distanze legali della veduta da parte del fabbricato dei convenuti in ragione sia del rilievo che tali distanze apparivano rispettate in relazione alle aperture ed alla portafinestra prospicienti il terrazzino, che della considerazione che le parti terminali dello stesso erano state muniti di parapetti in legno ai due lati di altezza di metri 1,53 e sul fronte in vetro di metri 1,46 che impedivano ad una persona normale di affacciarsi e sporgere il capo.

Tanto precisato, le censure sollevate dai ricorrenti appaiono inammissibili nella misura in cui contestano i risultati e le conclusioni dell’accertamento compiuto dal giudice di merito, che, costituendo un apprezzamento di fatto, è censurabile in sede di giudizio di legittimità solo sotto il profilo del vizio di motivazione, non potendo questa Corte, che è giudice del diritto e non del fatto, procedere ad una nuova valutazione delle risultanze di cause.

La censura che denunzia vizio di motivazione, nella misura in cui, sulla base della considerazione che precede, appare ammissibile, è invece infondata, apparendo la ricostruzione dei fatti operata dalla sentenza impugnata fondata su dati e elementi fattuali tratti dalla consulenza tecnica d’ufficio che non risultano specificatamente contestati dal ricorso e le conclusioni raggiunte adeguate e conformi, dal punto di vista logico, a tali risultanze. Tale apprezzamento di sufficienza e congruità della motivazione va esteso, in particolare, anche all’affermazione del giudice di merito secondo cui l’apposizione dei parapetti in legno ed in vetro sul terrazzino impediva, in ragione della loro altezza, l’affaccio sul fondo degli attori ad una persona di normale statura.

Con riferimento all’utilizzo, da parte del giudice a quo, di tale ultimo criterio al fine di valutare la possibilità dell’esercizio in concreto della veduta vanno altresì disattese le ulteriori critiche svolte dai ricorrenti. Il ricorso al criterio della persona di normale statura appare infatti conforme all’orientamento costante di questa Corte, secondo cui la veduta, per sue caratteristiche, deve consentire di poter guardare e sporgersi sul fondo del vicino in condizioni di comodità, sicurezza e normalità (Cass. n, 5421 del 2011 ; Cass. n. 22844 del 2006; Cass. n. 480 del 2002). Nè può ravvisarsi, rispetto a tale affermazione, un vizio di motivazione per non avere spiegato il giudicante cosa debba intendersi per persona di normale statura, trattandosi di espressione di immediata evidenza, facendo essa chiaro riferimento alla fascia di altezza delle persone intermedia tra un minimo e un massimo (Cass. n. 18637 del 2003; Cass. n. 1382 del 1983).

Inammissibile, infine, va considerata la doglianza che lamenta il mancato accertamento da parte del giudice di merito dell’aggravamento della servitù di veduta, dal momento che essa pone una questione nuova, tenuto conto che, come risulta dall’esposizione del fatto contenuta nella sentenza impugnata e nello stesso ricorso, la domanda introdotta in giudizio dagli attori aveva sempre avuto ad oggetto il rispetto della distanza legale della veduta, e non l’aggravamento di un’asserita preesistente servitù.

Il quarto motivo denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 91 cod. proc. civ., assumendo che il giudice a quo non avrebbe potuto ritenere gli attori soccombenti, condannandoli per tale ragione al pagamento delle spese di giudizio, atteso che solo in corso di giudizio i convenuti avevano predisposto accorgimenti tali da limitare il diritto di veduta, così riconoscendo implicitamente la fondatezza della domanda originaria.

Il motivo è infondato.

La statuizione impugnata, che ha condannato gli attori al pagamento delle spese di entrambi i gradi di giudizio, appare conforme al consolidato indirizzo di questa Corte, secondo cui il criterio della soccombenza deve essere riferito alla causa nel suo insieme, con particolare diretto riferimento all’esito finale della lite, con l’effetto che deve considerarsi totalmente vittoriosa la parte nei cui confronti la domanda avversaria sia stata totalmente respinta (Cass. n. 17351 del 2010; Cass. n. 17523 del 2011). Di nessun rilievo a tal fine appare quindi la circostanza dedotta dal ricorso, che nemmeno risulta provata mediante il richiamo ad elementi di causa, secondo cui la domanda degli attori sarebbe stata respinta solo in virtù dell’attività riparatoria successiva dei convenuti, situazione che avrebbe potuto essere apprezzata sotto il profilo, del tutto discrezionale, della sussistenza dei giusti motivi di compensazione, ma non al fine della individuazione della parte soccombente.

Il quinto motivo denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1140 e 1170 cod. civ., assumendo che, poichè gli attori avevano agito in giudizio chiedendo la mera manutenzione del possesso, il giudicante doveva limitarsi a verificare se in fatto la situazione di esercizio della servitù di veduta era stata o meno modificata, mentre è invece andato oltre tale accertamento.

Il mezzo va dichiarato inammissibile sia per la sua scarsa intelligibilità che per la sua palese genericità, omettendo di precisare, illustrandone le ragioni, con riferimento a quale specifico accertamento o statuizione il giudice a quo avrebbe superato i limiti del giudizio possessorio.

Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese di giudizio, per il principio di soccombenza, vanno poste a carico dei ricorrenti.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento in favore delle controparti delle spese di lite, che liquida in Euro 1.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 17 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2012

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