Cass. civ. Sez. V, Sent., 20-06-2012, n. 10167 Detrazioni Oneri deducibili Redditi d’impresa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La controversia concerne l’impugnazione di una serie di avvisi di accertamento ai fini IVA, IRPEG ed IRAP relativamente ad una attività di acquisto di autoveicoli di provenienza estera (cessioni intracomunitarie) da società intermediarie e successiva rivendita realizzando un meccanismo contabile di fatturazioni soggettivamente inesistenti nel quadro di una "frode carosello": Ulteriore contestazione mossa dall’amministrazione, ma successivamente abbandonata, era quella relativa a certi "bonus straordinari" versati ad agenti o ad altri intermediari.

La Commissione adita accoglieva il ricorso della società contribuente, ma la decisione era riformata in appello, con la sentenza in epigrafe che dava atto anche della rinuncia dell’Ufficio alla pretesa relativa ai cd. "bonus qualitativi", avverso la quale la società contribuente propone ricorso per cassazione con quattordici motivi. L’amministrazione non ha notificato controricorso, ma ha depositato un atto di costituzione ai fini della partecipazione all’udienza di discussione.

Motivi della decisione

I motivi di ricorso, salvo l’ultimo che deve essere considerato separatamente, rappresentano una "artificiale" parcellizzazione di una sostanzialmente unica censura che investe, sotto il profilo del vizio di violazione di legge e del vizio di motivazione, la sentenza impugnata sul punto relativo alla natura di "cartiere" delle società interposte e al carattere "evasivo" della società contribuente sulla base delle prove presuntive addotte dall’amministrazione e ritenute, dalla parte ricorrente, non assistite dai requisiti di gravità, sufficienza e concordanza, nonchè sulle conseguenze che da tanto sono state dedotte quanto alla affermata indetraibilità dell’IVA (con violazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19) e alla ritenuta indeducibilità dei costi (con violazione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis).

Per valutare la fondatezza o infondatezza del complesso delle censure articolate nel ricorso (molte delle quali si palesano inammissibili quali istanze per una mera revisione del giudizio di merito e per difetto di autosufficienza), va rilevato che la sentenza impugnata, con analitico approfondimento di tutti gli elementi della fattispecie sottoposta al suo esame, ha accertato in fatto, con congrua motivazione, l’esistenza di una ipotesi di "frode carosello" in un quadro probatorio tanto grave da far concludere il giudice per un comportamento della società contribuente che, al di là di "fatture e di operazioni soggettivamente inesistenti", si sostanzia in "un comportamento globalmente fraudolento nel suo insieme, che si traduce in un pregiudizio per l’erario per effetto del versamento di una minore imposta, nonchè in un vulnus alla correttezza e alla regolarità commerciale e del mercato, realizzato per effetto dell’abuso di circostanze a sè favorevoli". Contrariamente a quanto la società ricorrente dimostra di credere – il giudice d’appello ha verificato la sussistenza di un comportamento fraudolento più grave di quello originariamente ipotizzato dall’amministrazione finanziaria, spiegandone efficacemente e compiutamente le ragioni:

sicchè non vi è stata omissione di pronuncia, bensì rigetto implicito della contraria ipotesi avanzata, nè vi è stata violazione di legge o inadeguatezza della motivazione. Punto centrale resta la prova che il contribuente, a fronte di operazioni inesistenti, è tenuto a dare (anche secondo l’orientamento giurisprudenziale della Corte di Giustizia) della propria buona fede (e che nel caso il giudice ha ritenuto non sia stata data).

Quel che la ricorrente insiste nel ritenere una parte "debole" della sentenza impugnata – e cioè, l’affermazione che: "Questa Commissione non parlerebbe tanto di fatture e di operazioni soggettivamente inesistenti, bensì di un comportamento globalmente fraudolento nel suo insieme, che si traduce in un pregiudizio per l’erario…." – è, invece, un elemento "forte" della decisione, in quanto, come già rilevato, esprime il convincimento, raggiunto dal giudice d’appello, sulla sussistenza di un quadro indiziario di tale capacità probante, da eccedere la dimostrazione persuasiva dell’esecuzione di singole "operazioni inesistenti", per far emergere un più complessivo sistema fraudolento, nel quale sarebbe impossibile negare la consapevolezza della società contribuente nella partecipazione alla "frode". E analiticamente il giudice spiega come siffatte conclusioni fossero giustificate dall’assenza di una qualsiasi convincente spiegazione dell’intera operazione, in particolare in ordine alla necessità dell’interposizione di altre società – peraltro prive di mezzi e strutture "sufficienti per organizzare operazioni di acquisto e rivendita di autoveicoli della dimensione quantitativa di quelle realizzate grazie alla Baiauto S.p.A." -, e dalla qualità di "operatore qualificato di quest’ultima che, attraverso l’intervento di funzionali esperti nel settore, ben difficilmente poteva non conoscere a quali obiettivi potesse mirare la presenza di un terzo intermediario dell’operazione". Tanto più che si trattava di un terzo privo di quelle caratteristiche proprie necessarie per realizzare l’operazione stessa e fonte, comunque, di ulteriori ed "evitabilissimi costi". Sicchè la sentenza impugnata si dimostra adeguatamente motivata e riesce ad illuminare efficacemente le ragioni per le quali il giudice ha ritenuto nella specie la gravita, precisione e concordanza del quadro indiziario. Nè la ricordata affermazione del giudice di merito si presta ad essere interpretata come una violazione del precetto di dovuta corrispondenza tra chiesto e pronunciato, nè come una terza via "a sorpresa" eletta dal giudice per risolvere le questioni sottopostegli: si tratta, in verità, di una semplice enunciazione dell’efficacia probante del quadro indiziario teso a dimostrare, come necessario e come possibile mediante l’utilizzo di presunzioni semplici dotate del requisito di gravita, precisione e concordanza, "gli elementi di fatto della frode, attinenti il cedente, ovvero la sua natura di "cartiera", la inesistenza di una struttura autonoma operativa, il mancato pagamento dell’IVA come modalità preordinata al conseguimento di un utile nel meccanismo fraudolento e in secondo luogo, la connivenza nella frode da parte del cessionario", ossia "elementi obiettivi tali da porre sull’avviso qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto sull’inesistenza sostanziale del contraente" (v. Cass. n. 10414 del 2011). Questo e non più di questo è il senso dell’affermazione, a torto criticata, che il giudice d’appello pone a fondamento della sua decisione.

Tanto premesso deve essere valutato separatamente, quanto alle conseguenze dell’accertamento di fatto compiuto dal giudice di merito, il profilo relativo alla indetraibilità dell’IVA da quello relativo al profilo della indeducibilità dei costi.

Quanto al primo profilo, non può esservi dubbio, sulla scorta del costante orientamento di questa Corte, che quanto affermato dalla sentenza impugnata in tema di sussistenza nella fattispecie di operazioni soggettivamente inesistenti, non può costituire una violazione della sesta direttiva CEE relativamente alla indetraibilità dell’imposta. "In tema di IVA" ha stabilito questa Corte", nelle cd. "frodi carosello" – fondate sul mancato versamento dell’imposta incassata da società "cartiere" a seguito di acquisti intracomunitari, o altrimenti esenti, e successive rivendite anche attraverso l’interposizione di una o più società filtro (buffers) – il meccanismo dell’operazione e gli scopi che la stessa si propone (acquisizione di materiali a prezzi più contenuti al fine di praticare prezzi di vendita più bassi, con alterazione a proprio favore del libero mercato), fanno presumere la piena conoscenza della frode e la consapevole partecipazione all’accordo simulatorio del beneficiario finale, con la conseguenza che, in applicazione del relativo principio sancito dall’art. 17 della direttiva 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, l’IVA assolta dal medesimo beneficiario nelle operazioni commerciali con la società filtro non è detraibile ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19, anche se le predette operazioni siano state effettivamente compiute e le relative fatture, al pari dell’intera documentazione contabile, sembrino perfettamente regolari" (Cass. n. 867 del 2010). Nel caso di specie, come si è già rilevato, il giudice di merito, con congrua motivazione, ha accertato che nel giudizio non è stata conseguita la prova della "buona fede" della società contribuente, anzi che vi sono convincenti indizi della consapevolezza del carattere delle operazioni da parte di detta società.

Quanto al secondo profilo, quello relativo alla indeducibilità dei costi rispetto al quale viene dedotta la violazione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis, occorre tener conto della modifica apportata alla predetta disposizione con il D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 1. Detta norma prevede che la L. n. 537 del 1993, art. 4, comma 4-bis sia sostituito dal seguente: "Nella determinazione dei redditi di cui al testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, comma 1, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi". A norma del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 3: "Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano, in luogo di quanto disposto dalla L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4-bis, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, ove più favorevoli, tenuto conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in base al comma 4- bis previgente non si siano resi definitivi; resta ferma l’applicabilità delle previsioni di cui al periodo precedente ed ai commi 1 e 2 anche per la determinazione del valore della produzione netta ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive". La relazione al disegno di legge di conversione del decreto all’esame del Parlamento spiega lo scopo della norma con la volontà del legislatore di "inibire in modo inequivoco la deducibilità dei componenti negativi di reddito direttamente connessi al compimento delle fattispecie di reato più gravi, evitando che tale indeducibilità possa essere letta come una sanzione impropria, venendo invece la stessa inquadrata come regola generale nell’ambito della determinazione del reddito imponibile". Venendo a quel che più interessa la fattispecie che si discute nella presente controversia, la ricordata relazione al disegno di legge di conversione, afferma:

"Per effetto di questa disposizione, l’indeducibilità non trova applicazione per i costi e le spese esposti in fatture o altri documenti aventi analogo rilievo probatorio che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi, ferme restando le regole generali in materia di detrazione della relativa imposta sul valore aggiunto di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 e in tema di deduzione previste dal testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917; pertanto, ove del caso, l’indeducibilità dei costi rappresentati in documenti emessi da soggetti che in tutto o in parte non hanno effettivamente posto in essere l’operazione, sarà, comunque, rilevabile per effetto delle altre disposizioni normative eventualmente applicabili e connesse ai requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità dei componenti negativi". Ciò significa che ai soggetti terzi – alla cui categoria appartiene la società contribuente nel caso di spese – coinvolti nelle frodi carosello non è più contestabile, alla luce della nuova norma, la deducibilità dei costi, in quanto i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente per commettere il reato ma, nella maggior parte dei casi, per essere commercializzati, venduti. Sicchè non è più sufficiente il coinvolgimento (anche consapevole) dell’acquirente in operazioni che siano fatturate da soggetto diverso dall’effettivo venditore perchè non siano deducibili, ai fini delle imposte sui redditi, i costì relative alle predette operazioni.

Resta comunque aperto il problema della concreta deducibilità dei costi in relazione ai principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità: ma di un siffatto accertamento non vi è traccia nel giudizio. Pertanto sotto questo profilo il ricorso è da accogliere con la conseguente cassazione della sentenza impugnata con rinvio al giudice di merito perchè esamini nuovamente la questione concernente la deducibilità dei costi alla luce del seguente principio di diritto: "In tema di imposte sui redditi, a norma della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis, nella formulazione introdotta con il D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, sono deducibili per l’acquirente dei beni i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti, per il solo fatto che essi sono sostenuti nel quadro di una c.d. "frode carosello", anche per l’ipotesi che l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi che a norma del TUIR siano in contrasto con i principi effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità". Con il quattordicesimo ed ultimo motivo, la ricorrente lamenta l’omessa pronuncia sulla richiesta di disapplicazione (o, subordinatamente, di riduzione) delle sanzioni.

Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza. Nella sentenza impugnata manca qualsiasi riferimento ad una sollevata eccezione di disapplicazione delle sanzioni e alle relative ragioni legittimanti: nel ricorso non sono chiariti questi punti, se non attraverso un richiamo ad una richiesta, genericamente formulata, di disapplicazione delle sanzioni, senza esporre quali fossero state le motivazioni addotte dalla società contribuente a sostegno della richiesta stessa. E tanto non basta, in particolare alla luce della perplessa esposizione del motivo di ricorso che si muove tra una disapplicazione che sarebbe dovuta sulla base di una non meglio chiarita incertezza delle condizioni di applicabilità della normativa (quale?) ed una supposta riduzione che sarebbe consequenziale alla parziale estinzione della controversia in ordine ai bonus.

11 ricorso, pertanto, deve essere accolto nei limiti di cui alla surriportate motivazioni e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio ad altra Sezione della Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia-Romagna, che provvederà anche in ordine alle spese della presente fase del giudizio.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra Sezione della Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia-Romagna.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 25 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *