Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 20-06-2012, n. 10125 Licenziamento disciplinare per giusta causa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- La sentenza attualmente impugnata, in parziale accoglimento dell’appello di R.A. avverso la sentenza del Tribunale di Frosinone n. 505/06 del 5 aprile 2006: 1) dichiara l’illegittimità del licenziamento intimato al R. dalla MARAGONI TYRE s.p.a.; 2) ordina alla suddetta società a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro precedentemente occupato; 3) condanna la società stessa al risarcimento del danno in favore del dipendente e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali; 4) condanna la società anche alla rifusione delle spese processuali del doppio grado di merito.

La Corte d’appello di Roma, per quel che qui interessa, precisa che:

a) l’art. 55 del c.c.n.l. della gomma inserisce tra le infrazioni cui è applicabile il licenziamento disciplinare in tronco, elaborate in via esemplificativa, quella della "condanna ad una pena detentiva comminata al lavoratore, con sentenza passata in giudicato, pronunciata anche ex art. 444 c.p.p., per azione commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro" (lettera d);

b) ora, non merita accoglimento il motivo di appello con il quale si sostiene che la sentenza di primo grado debba essere censurata ove non ha affermato la nullità (ai sensi dell’art. 1418 cod. civ.) di tale clausola per contrasto con la norma imperativa di cui all’art. 445 cod. proc. pen., nella parte in cui stabilisce che la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. non ha effetto nei giudizi civili e amministrativi;

c) il suddetto art. 445 cod. proc. pen. stabilisce quali sono gli effetti della suindicata sentenza in altri tipi di giudizi, ma non incide sulla libertà delle parti sociali di configurare come giusta causa del licenziamento anche il fatto che il lavoratore abbia subito una condanna con una sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.;

d) resta però da precisare che, come già affermato in analoghe controversie, il suddetto art. 55, lettera d, deve essere interpretato nel senso che la condotta cui si riferisce la sentenza ivi contemplata, anche se estranea allo svolgimento del rapporto di lavoro, per giustificare il licenziamento in tronco deve essere tale da recare un grave nocumento morale e materiale all’azienda, nocumento che deve sussistere in concreto e che deve essere oggetto di valutazione da parte del giudice;

e) solo attraverso questa interpretazione la norma – che ha una portata letterale estremamente generica – risulta razionale e funzionale allo scopo di espèllere dall’azienda i dipendenti che siano stati condannati per fatti dolosi, avvertiti dalla generalità dei consociati come idonei ad arrecare il suddetto nocumento;

f) deve essere accolta la censura del R. relativa al difetto di giusta causa del licenziamento;

g) va, infatti, ricordato che in base alla prevalente giurisprudenza delle Sezioni penali della Corte di cassazione, dalla sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. non può desumersi l’accertamento dei fatti contestati;

h) ne deriva che, anche in presenza di una simile sentenza, si applicano le regole generali sulla distribuzione dell’onere probatorio, sicchè è il datore di lavoro che, nel presente giudizio, ha l’onere di provare non tanto e non solo l’esistenza della suddetta sentenza (come è avvenuto), ma anche i fatti dalla sentenza presupposti e ritenuti idonei ad arrecare all’azienda il grave nocumento morale e materiale che incide in modo irreparabile sul vincolo fiduciario posto a base del rapporto di lavoro;

i) nella specie, la datrice di lavoro non ha assolto tale onere, tanto più significativo in quanto le condotte penali contestate al R. sono state commesse prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro con la MARAGONI;

j) conseguentemente il suddetto difetto di prova rende radicalmente privo di giusta causa il recesso.

2 – Il ricorso della MARAGONI TYRE s.p.a., illustrato da memoria, domanda la cassazione della sentenza per due motivi; resiste, con controricorso, R.A..

Motivi della decisione

1 – Sintesi dei motivi di ricorso.

1. Con il primo motivo si denunciano: a) violazione e falsa applicazione dell’art. 55, lettera d, del c.c.n.l. per gli addetti all’Industria della gomma e della plastica; b) motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria, circa un punto decisivo della controversia.

Si sostiene che la Corte romana ha dato – con una motivazione carente e contraddittoria -un’interpretazione dell’art. 55, lett. d, del contratto collettivo di settore che risulta del tutto antitetica rispetto al significato che le parti sociali hanno inteso attribuire alla norma, quale fatto palese del chiaro contenuto letterale della stessa.

Si sottolinea che la Corte territoriale – dopo aver affermato che per rendere la norma stessa razionale e funzionale allo scopo di espellere dall’azienda i lavoratori condannati per fatti dolosi e che siano avvertiti dalla generalità dei consociati come idonei ad arrecare un grave nocumento morale materiale all’azienda – non ha poi chiarito quando simili fatti accertati con una sentenza di patteggiamento possano essere commessi "non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro" (come previsto dall’art. 55, lett. d) cit. e come accade, nella specie, per il reato contestato al R., nel procedimento penale conclusosi con la sentenza ex art. 444 cod. proc. pen.).

Inoltre, si rileva che la Corte romana, muovendo da un presupposto erroneo in diritto, con motivazione contraddittoria e insufficiente, afferma che la sentenza pronunciata a norma dell’art. 444 cod. proc. pen. non accerta il fatto e che, quindi, nella specie il licenziamento è illegittimo per mancanza di prova del nocumento subito dall’azienda in conseguenza del delitto commesso dal proprio dipendente.

2.- Con il secondo motivo si denunciano: a) violazione e falsa applicazione dell’art. 55 del c.c.n.l. per gli addetti all’Industria della gomma e della plastica; b) violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ., in relazione al principio generale ermeneutico in claris non fit interpretatio; c) difetto di motivazione.

Si sostiene che – in contrasto col suindicato principio ermeneutico generale – la Corte d’appello, dopo aver riconosciuto alle parti collettive la libertà di considerare giusta causa di licenziamento anche una qualsiasi sentenza di condanna penale, poi ha proceduto ad interpretare la disposizione contrattuale di cui si tratta – il cui significato letterale è chiaro – per restringerne la portata applicativa, senza neppure spiegare le ragioni di questa scelta di procedere ad interpretare una disposizione nè equivoca nè oscura.

2 – Esame delle censure.

3.- I motivi – da trattare congiuntamente, data la loro intima connessione – non sono da accogliere.

3.1.- Quanto alla valenza da attribuire alle elencazioni delle ipotesi di giusta causa del licenziamento previste dalla contrattazione collettiva (o da atti unilaterali del datore di lavoro) in base a consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte:

a) la previsione di ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta in un contratto collettivo non vincola il giudice – in quanto l’elencazione delle ipotesi di giusta causa contenuta nei contratti collettivi ha valenza esemplificativa e non già tassativa – pertanto il giudice deve sempre verificare, stante la inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, se quella previsione sia conforme alla nozione di giusta causa, di cui all’art. 2119 cod. civ., e se, in ossequio a principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia di entità tale da legittimare il recesso, tenendo anche conto dell’elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore (vedi per tutte: Cass. 19 agosto 2004, n. 16260; Cass. 14 novembre 1997, n. 11314);

b) ne consegue che il giudice può escludere che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato (ex plurimis: Cass. 18 febbraio 2011, n. 4060; Cass. 22 marzo 2011, n. 6500; Cass. 14 febbraio 2005, n. 2906; Cass. 22 dicembre 2006, n. 27464).

3.2.- Per quel che riguarda, poi, gli effetti della sentenza di applicazione della pena su richiesta nei giudizi civili e amministrativi, la costante giurisprudenza di questa Corte in armonia con quanto affermato dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 394 del 2002, 186 del 2004 e n. 336 del 2009 – ha precisato, con riferimento all’assetto normativo antecedente la L. 27 marzo 2001, n. 97 (che è quello in cui va inserita la presente fattispecie) che:

a) la sentenza pronunciata a norma dell’art. 444 cod. proc. pen. non è una sentenza di condanna – pur essendo equiparata a una pronuncia di condanna ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 445 cod. proc. pen., nella formulazione successiva alla modifica apportata dalla legge n. 97 del 2001, non applicabile ratione temporis – e quindi non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi; ne consegue che la stessa non può rilevare ai fini della definizione di un processo civile avente ad oggetto la legittimità di un licenziamento fondato esclusivamente su una disposizione del contratto collettivo che consente la risoluzione del rapporto di lavoro nell’ipotesi di condanna a pena detentiva comminata al lavoratore, con sentenza passata in giudicato, per azione commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro (vedi, per tutte: Cass. 29 marzo 2006, n. 7196; Cass. 20 gennaio 2009, n. 1399; Cass. 11 dicembre 2000, n. 15572);

b) in linea generale, non può farsi discendere dalla sentenza di cui all’art. 444 cod. proc. pen. la prova della ammissione di responsabilità da parte dell’imputato e ritenere che tale prova sia utilizzabile nel procedimento civile (Cass. 12 aprile 2011, n. 8421), sicchè, il giudice civile, in presenza di una simile sentenza, deve emettere la propria decisione accertando i fatti illeciti e le relative responsabilità autonomamente, pur non essendogli precluso di valutare, unitamente ad altre risultanze, anche la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti (Cass. 6 maggio 2003, n. 6863; Cass. 11 maggio 2007, n. 10847; Cass. 7 novembre 2011, n. 23025; Cass. 6 dicembre 2011, n. 26250);

c) la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti deve essere equiparata a sentenza di condanna per ogni aspetto che riguardi l’irrogazione e l’esecuzione della pena, ma non quando viene in rilievo sotto il profilo dell’accertamento di responsabilità, che è estraneo alla sua struttura (Cass. pen. 12 novembre 2004, n. 50176; Cass. pen. 13 ottobre 2004, n. 43576; Cass. pen. 12 dicembre 2000, n. 14362).

3.3.- Dall’insieme dei suddetti principi si desume che il Giudice di appello si è ad essi attenuto, in quanto, con motivazione congrua e logica ha, in primo luogo, escluso la possibilità di dichiarare la nullità dell’art. 55 lett. d) del c.c.n.l. di settore sul condivisibile rilievo che la disciplina del codice di rito sugli effetti nei giudizi diversi da quello penale della sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., non può certamente limitare la libertà delle parti sociali di considerare, in astratto, tra le ipotesi di giusta causa del licenziamento (espressamente formulate "in via esemplificativa", come affermato dallo stesso art. 55, comma 2, cit.) anche la "condanna" (che, per essere precisi, si può configurare come tale solo nel quadro normativo delineatosi dopo la L. 12 giugno 2003, n. 134, art. 3, come sottolineato da Cass. SU pen. 29 novembre 2005, n. 17781/06 e da Corte cost. n. 336 del 2009 cit.) "ad una pena detentiva comminata al lavoratore, con sentenza passata in giudicato, pronunciata anche ex art. 444 cod. proc. pen., per azione commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro".

Tale affermazione, infatti, si collega al principio generale secondo cui le ipotesi di giusta causa del licenziamento previste dalla contrattazione collettiva al momento della loro concreta applicazione devono essere sempre vagliate dal giudice proprio perchè non hanno carattere tassativo ma soltanto esemplificativo, sicchè è in quel momento che eventualmente .l’applicazione della clausola contrattuale può risultare incongrua rispetto alla condotta addebitata al lavoratore.

Principio questo che, a sua volta, rappresenta un’applicazione del principio, ancor più generale, secondo cui la giusta causa di licenziamento quale fatto "che non consente la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto", è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, invece l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli standard conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (giurisprudenza consolidata, vedi, da ultimo: Cass. 2 marzo 2011, n, 5095; Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 15 maggio 2004, n. 9299).

Nè va omesso di sottolineare che la clausola in argomento – per la sua indubbia genericità, rilevata anche dalla Corte romana – ha un significato tutt’altro che univoco – come è reso evidente anche dallo stesso riferimento letterale ad una "sentenza di condanna" che, come si è detto, appare improprio, dal punto vista tecnico- giuridico, in riferimento ai fatti decisi, con sentenza di applicazione della pena su richiesta, in epoca precedente alla L. n. 97 del 2001 – ed è pertanto suscettibile di molteplici applicazioni, tanto più che, per effetto delle importanti modifiche che hanno interessato la disciplina del cd. patteggiamento a partire dalla citata legge n. 97 del 2001, l’istituto ha cambiato la sua originaria configurazione, non essendo più un rito circoscritto alle vicende di criminalità "minore", quale era all’origine e anche al tempo (anni 1991-1992) cui risalgono i fatti considerati nella sentenza di patteggiamento emessa nei confronti del R. dal Tribunale di Cassino (passata in giudicato il 22 marzo 1998).

3.4.- Lo stesso principio che la Corte territoriale ha applicato alla statuizione secondo cui doveva essere esclusa la dichiarazione della nullità della clausola in oggetto è anche quello che sostiene – sulla base di un corretto inquadramento degli effetti da attribuire nel presente giudizio alla sentenza di patteggiamento di cui si tratta – tutta la restante parte della sentenza.

Dalla relativa lettura risulta, infatti, che il Giudice di appello, muovendo dal dato incontrovertibile rappresentato dall’assoluta genericità delle espressioni letterali usate nell’art. 55, lett. d), in oggetto – dato che, a ben vedere, è proprio quello che porta ad escluderne la dichiarazione di nullità – ha fatto una corretta applicazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale basando la propria indagine sullo scopo della clausola ed individuando tale scopo in quello dell’espulsione dall’azienda dei dipendenti che siano stati condannati per fatti dolosi, avvertiti dalla generalità dei consociati come idonei ad arrecare "all’azienda grave nocumento morale o materiale" (come indicato del comma 1 del citato art. 55).

La suddetta operazione ermeneutica, corretta, ben motivata e in linea con i principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte in analoghe fattispecie (vedi, per tutte: Cass. 30 gennaio 1981, n. 713), ha indotto la Corte romana a ritenere non sussistenti in concreto gli estremi della giusta causa del recesso e spiegare tale decisione attraverso un iter logico-argomentativo chiaramente individuabile, privo di profili di manifesta illogicità o insanabile contraddizione.

A tale conclusione – che, peraltro, si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato – la Corte d’appello è pervenuta attraverso un’attenta valutazione da un lato della gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro della proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, escludendo che la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia stata in concreto tale da giustificare la massima sanzione disciplinare, in conformità con il costante orientamento di questa Corte in materia (vedi, per tutte: Cass. 3 gennaio 2001, n. 35), tanto più che è jus receptum che, ai suddetti fini, la valutazione della "non scarsa importanza" dell’inadempimento deve essere effettuata in senso accentuativo a tutela del lavoratore, rispetto alla regola generale di cui all’art. 1455 cod. civ. (vedi, per tutte: Cass. 22 marzo 2010, n. 6848; Cass. 24 luglio 2006, n. 16864).

Nè va omesso di considerare che la Corte territoriale ha correttamente evidenziato che i fatti posti a carico del R. sui quali è stata pronunciata la sentenza ex art. 444 cod. proc. pen. si sono svolti molto tempo prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro tra il R. medesimo e la società MARAGONI, sicchè la prova della sussistenza della giusta causa a carico del datore di lavoro, non poteva considerarsi certamente fornita attraverso il solo deposito della sentenza penale, non essendo tale elemento ovviamente sufficiente a dimostrare che i fatti ivi presi in considerazione, di molto antecedenti all’assunzione del R., avessero recato "all’azienda grave nocumento morale o materiale ", come richiesto dallo stesso contratto collettivo e, quindi, avessero leso irreparabilmente l’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro.

3 – Conclusioni.

4.- Per le suesposte ragioni il ricorso va respinto. Le spese – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 30,00 (trenta/00) per esborsi, Euro 3500,00 (tremilacinquecento/00) per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 24 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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