Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 21-06-2012, n. 10340 Infermità per causa di servizio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata in data 16 marzo 2010, la Corte d’appello di Perugia, in riforma della sentenza del Tribunale di Terni del 1 ottobre 2008, rigettava la domanda proposta da M.S. e dagli altri dipendenti della Provincia di Terni indicati in epigrafe, i quali avevano lamentato l’illegittimità della determinazione dirigenziale n. 1572 del 25 settembre 2006, che aveva revocato la rendita vitalizia della quale erano titolari, per avere contratto invalidità permanente a causa di servizio, e avevano chiesto la condanna dell’Amministrazione provinciale a ripristinarne l’erogazione e a corrispondere gli arretrati, con interessi e rivalutazione.

La Corte d’appello, dopo avere sottolineato che il D.P.R. 1 giugno 1979, n. 191, art. 11 è norma destinata a regolare situazioni non tutelate dalla copertura INAIL, ha ritenuto di non poter attribuire alla previsione un’interpretazione semplicemente basata sul dato letterale, da momento che, in tal modo opinando, i lavoratori avrebbero potuto conseguire sia la rendita vitalizia che l’equo indennizzo. Secondo la Corte, l’elemento di differenziazione tra l’art. 11, comma 1 – che riconosceva in favore del dipendente e a carico dell’ente una rendita vitalizia nel caso di infortunio o malattia contratta per causa di servizio – e il successivo comma 3 del citato art. 11 – che rendeva applicabile ai lavoratori interessati la disciplina dell’equo indennizzo di cui al D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 68 e del relativo regolamento, approvato con D.P.R. 3 maggio 1957, n. 686 – va ricercato nei fatto che solo il comma 1 era rivolto al personale che, pur non iscritto all’INAIL, per qualsivoglia ragione, fosse addetto a mansioni valutate, all’esito dell’istruttoria preliminare al riconoscimento dell’indennizzo, come di natura pericolosa. La Corte ha tratto conferma della bontà dell’interpretazione accolta dal tenore del D.P.R. 13 maggio 1987, n. 268, art. 66, che ha abrogato le norme sulla rendita vitalizia per gli operai non iscritti obbligatoriamente all’INAIL, ossia per i lavoratori cui sono demandate le attività lato sensu pericolose. Da tali premesse ermeneutiche la Corte d’appello ha tratto la conseguenza che i ricorrenti non avevano diritto alla rendita vitalizia, dal momento che nessuno di loro aveva dedotto e provato di essere stato addetto a mansioni pericolose. I giudici di secondo grado hanno reputato irrilevante, ai fini dell’accoglimento della pretesa dei ricorrenti, l’art. 54 del Regolamento per il personale dipendente della Provincia, in quanto, a prescindere dalla sua attuale vigenza, esso riproduceva alla lettera il citato D.P.R. n. 191 del 1979, art. 11.

Con riferimento alla posizione del solo M., la Corte d’appello di Perugia ha negato che il diritto alla rendita vitalizia discendesse dalla sentenza del Tar dell’Umbria n. 21 del 30 gennaio 1989, passata in giudicato.

Avverso tale sentenza il M. e gli altri soccombenti propongono ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. Resiste con controricorso la Provincia di Terni. I ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo del ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, i ricorrenti lamentano la nullità derivata della sentenza in relazione all’art. 434 c.p.c., comma 1, dal momento che i giudici di secondo grado non avevano offerto alcuna motivazione che giustificasse il mancato accoglimento dell’eccezione di inammissibilità dell’appello, per insussistenza del requisito di specificità dei motivi di impugnazione.

2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5 essi lamentano violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 191 del 1979, art. 11, in relazione all’art. 12 disp. gen., e al D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 1, 3, 4, 9, 67, violazione e falsa applicazione dei principi in tema di rendita vitalizia ed equo indennizzo, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Essi, in particolare, si dolgono del fatto che i giudici di secondo grado abbiano disatteso l’interpretazione letterale del D.P.R. n. 191 de 1979, art. 11 per le ragioni sopra ricordate, senza considerare che i presupposti della rendita vitalizia e dell’equo indennizzo sono differenti, salva l’operatività delle disposizioni dirette ad evitare la duplicazione delle prestazioni. Da tale erronea premessa è derivata la ricerca di un elemento di differenziazione colto nella pericolosità delle mansioni, ma privo di riscontro nel testo normativo.

3. Con il terzo motivo, proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5 essi lamentano violazione e falsa applicazione dell’art. 54 del Regolamento organico del personale della Provincia di Terni e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, dal momento che la Corte d’appello aveva trascurato di considerare che la disciplina dettata dal Regolamento era diversa da quella dell’art. 11 sopra citato, proprio quanto ai rapporto tra rendita vitalizia ed equo indennizzo.

L’art. 54 del Regolamento, infatti, prevede l’attribuzione dell’equo indennizzo, solo ove più favorevole, in tal modo escludendo in radice il rischio paventato di cumulo dei due trattamenti.

4. Con il quarto motivo, proposto a norma degli art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5 e concernente la posizione dei solo M. S., si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c., in relazione alla sentenza del Tar dell’Umbria 30 gennaio 1989, n. 21, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, sostenendo che il giudicato amministrativo rende ormai intangibile la posizione del ricorrente.

5. Il primo motivo di ricorso è infondato.

Come puntualizzato dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza 6 giugno 1987, n. 4991), è necessario, infatti, sottolineare che non possono essere poste sullo stesso piano, al fine di delimitare l’onere di specificità dei motivi di gravame, le questioni inerenti all’accertamento del fatto, relativamente al quale opera il principio del giudicare iuxta alligata et probata, e quelle di mera interpretazione della norma giuridica, alla cui soluzione presiede il principio iura novit curia.

Anche di recente, la sezione lavoro (Cass. 25 marzo 2010, n. 7190), nel ricollegarsi all’insegnamento delle Sezioni Unite e della giurisprudenza successiva, ha ribadito che il principio di necessaria specificità dei motivi d’appello – secondo cui la manifestazione volitiva dell’appellante, indirizzata ad ottenere la riforma della sentenza impugnata, deve essere sorretta da una parte argomentativa, idonea a contrastare la motivazione di quest’ultima e proporzionata alla sua maggiore o minore specificità – va coordinato con il principio iura novit curia che, ai sensi dell’art. 113 c.p.c., presiede alla soluzione delle questioni di diritto, essendo invece necessario, per il cd. giudizio di fatto, pronunciare iuxta alligata et probata, ai sensi dell’art. 115 c.p.c. (nella specie, la S.C., in riforma della sentenza impugnata ha affermato che le censure contenute nei motivi d’appello consistevano nella contestazione della soluzione giuridica adottata dal tribunale – secondo cui dalle norme comunitarie richiamate in ricorso non poteva derivare alcuna posizione soggettiva tutelabile – ed erano pertanto idonee ad introdurre nel giudizio di appello la relativa quaestio iuris ed a suscitare l’obbligo del giudice di pronunciare in ordine alla medesima a prescindere dall’allegazione di singoli argomenti intesi a dimostrare l’erroneità della pronuncia di primo grado).

Nel caso di specie, vertendosi in materia di interpretazione di norme giuridiche, deve prendersi atto che la sottoposizione alla Corte d’appello delle argomentazioni idonee a giustificare una diversa interpretazione della disciplina applicabile era idonea a investire il giudice del gravame del dovere di pronunciarsi sul merito della questione.

6. E’ invece fondato il secondo motivo di ricorso L’art. 11 (Lesioni ed infermità dipendenti da causa di servizio non tutelate da copertura INAIL) del D.P.R. 1 giugno 1979, n. 191, così dispone:

Nel caso che all’infortunio od alla malattia contratta per causa di servizio residui una invalidità permanente parziale o totale, l’ente liquiderà al dipendente una rendita vitalizia nella misura e con le modalità stabilite dalla legislazione relativa all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali.

Le stesse disposizioni saranno applicate in caso di morte del dipendente nei confronti dei superstiti aventi diritto.

Ai lavoratori interessati si applica la disciplina dell’equo indennizzo di cui al D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 68 e del relativo regolamento approvato con D.P.R. 3 maggio 1957, n. 686, e successive modificazioni ed integrazioni.

6.1. Come questa Corte ha già avuto modo di chiarire, in linea con la portata letterale della previsione (Cass. 17 giugno 1999, n. 6060), a norma del D.P.R. 1 giugno 1979, n. 191, art. 11, la tutela antinfortunistica, in caso di infortunio o malattia contratta per causa di servizio e con postumi invalidanti di natura permanente, parziali o totali, è posta a carico dell’ente locale (Comune o Provincia) in favore del proprio dipendente nella sola ipotesi in cui gli stessi non risultino già tutelati da copertura assicurativa dell’Inail.

Ciò si desume inequivocabilmente dalla rubrica del citato articolo.

In motivazione, la sentenza appena citata aggiunge che diversa è, invece la ipotesi dell’equo indennizzo (esulante dal caso di specie, trattandosi di tipica rendita) il quale, a norma dell’art. 50 del citato D.P.R. (si tratta del D.P.R. 3 maggio 1957, n. 686: n.d.e), ove accordato, porrebbe problemi di detrazione da quanto percepito dal dipendente in virtù della rendita corrisposta dall’INAIL o da qualsiasi altra pubblica amministrazione.

6.2. In effetti, l’inconveniente addotto dalla Corte d’appello di Perugia per disattendere l’esegesi letterale dell’art. 11 non sussiste.

E ciò, in primo luogo, in linea generale, dal momento che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (v., ad es., Cass. 26 giugno 2009, n. 15074), il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di una infermità o di una lesione non coincide con il presupposto richiesto per l’attribuzione della rendita per malattia professionale, differenziandosi i due istituti – in particolare – per l’ambito e l’intensità del rapporto causale tra attività lavorativa ed evento protetto, nonchè per il fatto che il riconoscimento in oggetto non consente di per sè alcun apprezzamento in ordine all’eventuale incidenza, sull’attitudine al lavoro dell’assicurato, di altri fattori di natura extraprofessionale;

pertanto, ai fini del riconoscimento della causa di servizio occorre che l’attività lavorativa possa con certezza ritenersi concausa efficiente e determinante della patologia lamentata, non potendo farsi ricorso a presunzioni di sorta e non trovando applicazione, diversamente dalla materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, la regola contenuta nell’art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni.

In secondo luogo, l’evenienza del possibile ricorrere dei presupposti dei due trattamenti è espressamente prevista dal menzionato D.P.R. n. 686 dei 1957, art. 50 (cui, come s’è visto, rinvia il D.P.R. n. 191 del 1979, art. 11, comma 3 e che viene puntualmente valorizzato dalla sentenza n. 6060 de 1999), il quale, al comma 2, prevede che va inoltre dedotto dall’equo indennizzo quanto eventualmente percepito dall’impiegato in virtù di assicurazione a carico dello Stato o di altra pubblica Amministrazione.

6.3. Va, pertanto, escluso che l’interpretazione qui accolta generi gli inconvenienti, valorizzati dalla sentenza impugnata sul piano sistematico, al fine di discostarsi dalla lettera della norma per individuare un requisito non espressamente previsto (la "pericolosità" dell’attività del lavoratore) e certo non desumibile dal D.P.R. 13 maggio 1987, n. 266, art. 66, che si è limitato ad abrogare le norme in materia di rendite vitalizie ne confronti del personale operaio.

6.4. Ne discende che i ricorrenti hanno diritto al ripristino della rendita vitalizia della quale godevano. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, con l’accoglimento della domanda e la conseguente condanna della Provincia di Terni al ripristino della rendita in godimento e alla corresponsione dei ratei arretrati maggiorati degli interessi legali.

Al riguardo trova applicazione la L. 30 dicembre 1991, n. 412, art. 16, comma 6 (…L’importo dovuto a titolo di interessi è portato in detrazione dalle somme eventualmente spettanti a ristoro del maggior danno subito dal titolare della prestazione per la diminuzione del valore del suo credito), il cui ambito applicativo è stato esteso dalla L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 22, comma 36, agli emolumenti di natura retribuiva, pensionistica ed assistenziale, per i quali non sia maturato il diritto alla percezione entro il 31 dicembre 1994, spettanti ai dipendenti pubblici e privati (la Corte costituzionale, peraltro, con sentenza 2 novembre 2000, n. 459, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente comma limitatamente alle parole "e privati") in attività di servizio o in quiescenza.

7. L’accoglimento del secondo motivo comporta l’assorbimento del terzo e del quarto motivo di ricorso.

8. Quanto alle spese processuali, tenuto conto degli alterni esiti processuali, ritiene il Collegio che vadano compensate.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo, accoglie il secondo motivo e, assorbiti i restanti motivi, cassa, in relazione al motivo accolto, la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie la domanda dei ricorrenti, per l’effetto condannando la Provincia di Terni a ripristinare la rendita vitalizia e a corrispondere i ratei arretrati, oltre interessi come per legge. Compensa le spese dell’intero processo.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 30 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 21 giugno 2012

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