Cons. Stato Sez. IV, Sent., 10-01-2012, n. 14 Responsabilità civile del datore di lavoro

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado era stato chiesto dalla odierna appellante B.M., l’annullamento del Provv. 30 dicembre 1997, n. 131/97 DISC/AB/FL/ms, con il quale il Direttore Generale della Direzione Generale dell’Organizzazione giudiziaria e AA.GG. del Ministero di Grazia e Giustizia le aveva inflitto la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per giorni 5; nonché degli atti presupposti e connessi e per la condanna dell’Amministrazione al risarcimento dei danni.

Il primo giudice ha accolto il ricorso annullando la disposta sanzione disciplinare ed affermando l’obbligo dell’Amministrazione di corrispondere alla originaria ricorrente la retribuzione dei cinque giorni di servizio, con gli interessi e la rivalutazione, e di rideterminare, ove tali giorni fossero stati rilevanti, il dovuto trattamento pensionistico.

In particolare, il Tribunale amministrativo ha ritenuto fondata ed assorbente la doglianza dedotta con il primo motivo di gravame con la quale nel dedursi la violazione dell’art. 24 del CCNL Ministeri all’epoca vigente, si era lamentato che non vi era stata una tempestiva contestazione dell’addebito che aveva dato luogo all’applicazione della sanzione più grave (cioè l’essersi assentata senza giustificazione dalla propria abitazione in un giorno in cui figurava in malattia).

Tale comportamento, infatti, si era verificato il giorno 18 ottobre 1996, mentre la contestazione degli addebiti era stata comunicata all’incolpata soltanto il 1 settembre 1997 (l’art. 24 disponeva testualmente al secondo comma che la contestazione scritta dell’addebito al dipendente dovesse "effettuarsi tempestivamente").

.Quanto al risarcimento del lamentato danno alla persona, morale e biologico da liquidarsi in via equitativa formulata, con i motivi aggiunti, il primo giudice ne ha escluso la fondatezza, in quanto non era stato fornito il principio di prova della sussistenza di tali danni.

Peraltro ai fini della risarcibilità era necessario la supposta lesione fosse diretta conseguenza dell’atto illegittimo.

Senonchè, nel caso di specie, l’illegittimità discendeva esclusivamente dal riscontrato vizio procedimentale, mentre l’odierna appellante si era certamente resa responsabile di alcuni dei comportamenti contestati.

Neppure poteva affermarsi che l’amministrazione avesse tenuto un comportamento persecutorio (al contrario, l’aver atteso un lungo lasso di tempo prima di procedere alla predetta contestazione degli addebiti era indice di comportamento certamente non vessatorio nei confronti di una dipendente che aveva tenuto un atteggiamento non pienamente consono ai suoi doveri).

Avverso il capo della sentenza in epigrafe che ha negato la sussistenza di un danno risarcibile l’ originaria ricorrente ha proposto appello evidenziando che la motivazione della impugnata decisione era apodittica e contraddittoria e non teneva conto della circostanza che proprio il proliferare dei provvedimenti persecutori e vessatori dichiarati illegittimi in sede giurisdizionale dimostrava pienamente la sussistenza di una condotta gravemente lesiva.

Essa in passato aveva chiesto invano di riunire i procedimenti giurisdizionali pendenti: una visione unitaria degli stessi avrebbe certamente dimostrato il collegamento tra i vari provvedimenti vessatori e l’intento soggettivamente persecutorio ad essi sottesi il che ne dimostrava l’ingiustizia.

Le certificazioni mediche prodotte dimostravano la sussistenza di un danno risarcibile, mentre sotto il profilo del nesso eziologico la coincidenza temporale tra i provvedimenti illegittimi e le patologie che avevano attinto l’appellante ed il peggioramento delle condizioni di B.A..

L’appellata amministrazione ha depositato una articolata memoria chiedendo la reiezione dell’appello e facendo presente che l’unica ragione che aveva indotto il primo giudice ad annullare il provvedimento afflittivo riposava nella violazione infraprocedimentale riscontrata: non era mai stata accertata l’ingiustizia (ovvero anche soltanto la illegittimità nel merito dell’azione amministrativa spiegata).

Del pari non era stato allegato alcun elemento dimostrativo della sussistenza di alcun danno.

Alla odierna pubblica udienza del 13 dicembre 2011 la causa è stata posta in decisione dal Collegio.

Motivi della decisione

1.L’appello è infondato e va respinto.

2.Con la impugnata decisone il primo giudice ha annullato la sanzione disciplinare inflitta all’appellante, unicamente a cagione della riscontrata violazione dell’art. 24 del CCNL Ministeri all’epoca vigente posto che non vi era stata una tempestiva contestazione dell’addebito che aveva dato luogo all’applicazione della sanzione più grave (cioè l’essersi assentata senza giustificazione dalla propria abitazione in un giorno in cui figurava in malattia, il giorno 18 ottobre 1996) posto che la contestazione degli addebiti le era stata comunicata soltanto il 1 settembre 1997.

Il petitum risarcitorio è stato respinto per difetto di prova, ma anche in carenza di previa dimostrazione da parte dell’appellante della illegittimità della condotta dell’amministrazione.

Il primo giudice ha infatti affermato, nella motivazione della predetta decisione che "tale dipendente, come sembra evidente dall’esame degli atti del giudizio, era certamente responsabile di alcuni dei comportamenti ritualmente contestati, che, ove fossero stati espressamente riconosciuti dall’Amministrazione di particolare gravità, ben avrebbero potuto essere sanzionati con la sospensione dal servizio di cinque giorni, in base al disposto del predetto art. 25, comma 3, primo alinea, del contratto collettivo in questione."; secondariamente, si è evidenziato nella impugnata decisione che "il comportamento materiale posto in essere dalla dipendente avrebbe in astratto legittimamente giustificato l’adozione di legittime sanzioni disciplinari. Né, dall’esame degli atti si rileva che l’Amministrazione abbia tenuto un comportamento persecutorio nel confronti della ricorrente".

Può convenirsi con la odierna appellante che le affermazioni contenute nella impugnata decisione circa la materiale commissione da parte della stessa di talune delle condotte contestatele siano abbastanza generiche (a cagione della pluralità di comportamenti oggetto di contestazione con la sanzione disciplinare poi annullata).

Di converso, però, non può non rilevarsi che la stessa appellante ha posto a fondamento della propria pretesa risarcitoria soltanto in parte vicende direttamente ricollegabili al provvedimento sanzionatorio annullato.

Essa, infatti (si veda pag. 2 del ricorso in appello) ha intrattenuto un nutrito contenzioso con l’amministrazione (ben 4 processi definiti dal Tribunale amministrativo dell’Abruzzo, sede di Pescara, oltre a quello oggetto dell’odierno appello) e nel lamentare che irragionevolmente gli stessi non fossero stati esaminati congiuntamente, ha posto detto complessivo contenzioso a supporto della pretesa risarcitoria individuando una condotta vessatoria unitaria da parte dell’amministrazione.

3. Tale modus procedendi non appare condivisibile, in quanto introduce in un giudizio risarcitorio scaturente dall’annullamento di una ben individuata sanzione disciplinare -ed a quest’ultima ricollegabile- elementi di giudizio afferenti anche ad altre iniziative dell’amministrazione, definite nell’ambito di distinti procedimenti e nell’ambito dei quali, come meglio si chiarirà di seguito, l’appellante non propose né coltivò istanze risarcitorie .

3.1. Rileva però il Collegio che, anche a volere considerare ammissibile detto legame unificante in quanto indispensabile ai fini della prova del preteso atteggiamento vessatorio intrattenuto dall’appellata amministrazione nei confronti dell’appellante, ugualmente la domanda risarcitoria non può trovare accoglimento.

4. Se anche dovesse ritenersi infatti che la sanzione disciplinare inflitta all’appellante era illegittima (non soltanto nella forma ma anche) nella sostanza, è noto che per la pacifica giurisprudenza amministrativa perché possa affermarsi che ci si trovi innanzi ad un danno risarcibile occorre che si pervenga al positivo riscontro dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa in capo all’amministrazione, intesa come apparato.

Quanto a tale profilo, in passato, si è avuto modo di evidenziare il ridotto onere dimostrativo che grava in subiecta materia sul privato, atteso che "fermo restando l’inquadramento della maggior parte delle fattispecie di responsabilità della p.a., tra cui quella in esame, all’interno della responsabilità extracontrattuale, non è comunque richiesto al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo un particolare sforzo probatorio sotto il profilo dell’elemento soggettivo. Infatti, pur non essendo configurabile, in mancanza di un’espressa previsione normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di colpa dell’amministrazione per i danni conseguenti ad un atto illegittimo o comunque ad una violazione delle regole, possono invece operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all’art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie. Il privato danneggiato può, quindi, invocare l’illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile. Spetterà, di contro, all’amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile, ad esempio, in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.(Consiglio Stato , sez. VI, 23 giugno 2006, n. 3981).

4.1. Nel caso di specie l’appellante non ha (non soltanto provato, ma neanche) allegato la mera ipotesi di una condotta connotata (quantomeno) da colpa, dal che discende l’inaccoglibilità del petitum risarcitorio fondato sulla mera pregressa riscontrata illegittimità di atti amministrativi.

5. Rammenta in proposito il Collegio che la giurisprudenza di legittimità civile – il cui orientamento il Collegio condivide pienamente- si è a più riprese confrontata con un tema che è pienamente assimilabile a quello per cui è causa, riposante nel demansionamento e nella dequalificazione del lavoratore.

In più occasioni si è avuto modo di affermare, a tal proposito, che, da un canto, il prestatore di lavoro, che chiede la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita (lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso), deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa (ex multis, Cassazione civile , sez. lav., 05 dicembre 2008 , n. 28849).

Sotto altro profilo, ancora di recente si è rilevato che il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. Inoltre mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale – da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno – deve essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni. Ne discende che il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa. Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base alla regola generale di cui all’art. 2697 c.c.. (Cassazione civile , sez. lav., 17 settembre 2010 , n. 19785).

5.1. Nel caso devoluto all’esame del Collegio si ritiene di potere affermare che l’appellante si è arrestata ad una soglia probatoria ancora antecedente rispetto a quella tratteggiata nelle richiamate pronunce, non avendo in alcun modo provato la sussistenza di alcun comportamento colposo dell’amministrazione appellata.

5.2. Su alcune emergenze processuali è bene fare chiarezza.

Certamente non può dubitarsi della circostanza che pregressa carriera dell’appellante non avesse dato atto ad alcun rilievo; dagli atti di causa risulta del pari che certamente la situazione complessiva nell’Ufficio del Giudice di pace di Lanciano presso il quale l’appellante prestava servizio non poteva essere definita "serena".

La circostanza che la stessa, allorchè ebbe ad essere trasferita presso il predetto Ufficio del Giudice di Pace di Lanciano ebbe comunque a trascorrere un periodo di tempo (1994/1995) in piena tranquillità è ammessa nello stesso incipit del ricorso in appello (pag.1 penultimo cpv).

Dopodichè è pacifico che siano insorti contrasti tra la stessa (che era la dipendente amministrativa di maggiore anzianità nell’Ufficio dopo la Iacobitti) ed altri suoi colleghi amministrativi, nonché con alcuni Giudici di Pace.

5.2.1. A fronte di detti contrasti, in ordine ai quali allo stato appare impossibile – e forse neppure conducente- accertare le rispettive "responsabilità" l’amministrazione ebbe ad intraprendere alcune iniziative nei confronti della odierna appellante.

Una di esse, non avente carattere disciplinare è sfociata in un trasferimento per incompatibilità ambientale: l’odierna appellante insorse e questo venne sospeso in sede cautelare; in ordine a tale iniziativa non è mai stato reso alcun definitivo accertamento di illegittimità in quanto il ricorso è stato dichiarato improcedibile per l’intervenuta dispensa dal servizio dell’appellante,

Vennero poi avviati due procedimenti disciplinari.

Per quello che rileva nell’ambito del presente procedimento, l’appellante ottenne con sentenza n. 859/2005 l’annullamento della modesta sanzione disciplinare inflittale con Provv. del 15 settembre 1998 in quanto venne annullato, in accoglimento di un riunito ricorso, il provvedimento che ne costituiva presupposto (questa la motivazione della decisione in oggetto: "la sanzione disciplinare contestata, difatti, si riferisce non ad un contegno di mera disobbedienza -pure difficilmente configurabile nel tipo di rapporto di lavoro in esame- ma all’assenza "ingiustificata" dal servizio.L’accoglimento del ricorso avverso la revoca delle ferie comporta che tale provvedimento viene privato di efficacia ab origine, conformemente al carattere genetico del vizio da cui è risultato affetto. Ciò vale a privare di antigiuridicità la fruizione, in fatto, del periodo di ferie autorizzato con il provvedimento oggetto della revoca illegittima.

Ne deriva l’illegittimità del provvedimento disciplinare impugnato, con conseguente accoglimento anche del ricorso n. 1075 del 1998.").

In detta sede l’odierna appellante non propose alcuna domanda risarcitoria; essa neppure ha coltivato alcuna istanza risarcitoria con riguardo al procedimento in cui aveva impugnato il trasferimento per incompatibilità ambientale.

Si può comprendere pertanto il convincimento del Collegio circa la non condivisibilità di un modus operandi che pretende oggi di rivalutare in chiave accusatoria dette statuizione nell’ambito della quale non fu avanzata – pur l’appellante potendolo fare – alcuna istanza risarcitoria.

5.2.2. Ma pure tenendo presente detti accadimenti, e ricollegandoli alla sanzione disciplinare applicatale il 30 dicembre 1997 ed annullata dalla sentenza oggetto dell’odierna impugnazione sembra al Collegio che sia rimasta sfornita di prova la asserita vessatorietà dell’azione della amministrazione.

5.2.3. Il petitum dell’appellante, infatti, sostanzialmente riconduce la fonte della responsabilità risarcitoria ad una serie di condotte di natura "mobbizzante" sfociate nelle suindicate iniziative (essa per il vero propose ulteriori due ricorsi avverso condotte definite di silenzio-rifiuto dell’amministrazione, ma non pare che, neppure nella prospettazione dell’appellante detto silenzio fosse annoverato tra le condotte produttive di disagio).

Rammenta in proposito il Collegio che secondo qualificata dottrina e giurisprudenza, sia civile che amministrativa, l’elemento oggettivo della fattispecie del mobbing è integrato dai ripetuti soprusi che, se posti in essere dai superiori dà luogo al c.d. mobbing verticale, mentre se posti in essere dai colleghi origina il c.d. mobbing orizzontale, i quali possono anche essere formalmente legittimi ed assumono connotazione illecita allorquando aventi l’unico scopo di danneggiare il lavoratore nel suo ruolo e nella sua funzione lavorativa, così da determinare il suo isolamento (fisico, morale e psicologico), all’interno del contesto lavorativo. L’elemento psicologico è integrato dal dolo generico o dal dolo specifico di danneggiare psicologicamente la personalità del lavoratore. Pertanto, ai fini della configurabilità della condotta lesiva, qualificata danno da emarginazione lavorativa o mobbing, sono rilevanti, innanzitutto, la strategia unitaria persecutoria, che non si sostanzia in singoli atti da ricondurre nell’ordinaria dinamica del rapporto di lavoro (come i normali conflitti interpersonali nell’ambiente lavorativo, causati da antipatia, sfiducia, scarsa stima professionale, ma che non sono caratterizzati dalla volontà di emarginare il lavoratore), che ha come disegno unitario la finalità di emarginare il dipendente o di porlo in una posizione di debolezza, con la conseguenza che la ricorrenza di un’ipotesi di condotta mobbizzante deve essere esclusa allorquando la valutazione complessiva dell’insieme di circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro.

E’ evidente che la fattispecie così descritta postula il riscontro di un elemento psicologico della condotta non semplicemente colposo, ma doloso, sia pur nella forma del dolo generico.

In caso di denunziato mobbing si può ritenere sussistente l’illecito solo se si accerti che l’unica ragione della condotta è consistita nel procurare un danno al lavoratore, mentre bisogna escluderlo in caso contrario, indipendentemente dall’eventuale prevedibilità e occorrenza in concreto di simili effetti. Una restrizione del genere, se permette per un verso di rinvenire nel mobbing un’ulteriore manifestazione del divieto di agire intenzionalmente a danno altrui, che costituisce canone generale del nostro ordinamento giuridico e fondamento dell’"exceptio doli generalis", consente per altro verso di escludere dall’orbita della fattispecie tutte quelle vicende in cui fra datore di lavoro e lavoratore si registrano semplicemente posizioni divergenti o perfino conflittuali, affatto connesse alla fisiologia del rapporto di lavoro.

La giurisprudenza di legittimità civile, poi, rileva che "a fronte della denuncia di un lavoratore di condotte vessatorie da parte del datore, il giudice che esclude la ricorrenza delle caratteristiche proprie del fenomeno mobbing (reiterazione, sistematicità e intenzionalità) deve valutare i fatti accertati anche nell’ambito della fattispecie di inadempimento agli obblighi contrattuali di cui all’art. 2087 c.c., da accertare alla stregua delle regole ivi stabilite per il relativo inadempimento contrattuale, le quali prescindono dalla necessaria presenza del dolo."(Cassazione civile , sez. lav., 20 maggio 2008 , n. 12735).

Il Collegio condivide tale orientamento e pertanto vaglierà i fatti sottesi al petitum risarcitorio anche avendo riguardo a tale fattispecie "minor".

5.3.3. La disamina degli accadimenti occorsi e sottesi alla applicazione della sanzione disciplinare in pregiudizio dell’odierna appellante, esclude ad avviso del Collegio che essi siano inquadrabili in una fattispecie volutamente vessatoria, ovvero anche solo colposamente nociva.

5.3.4 E’ fondamentale, a tal proposito, evidenziare che la stessa appellante non nega che insorsero contrasti tra la stessa ed il giudice di pace coordinatore, ma anche con il proprio collega Falcone, con il giudice di pace D’Addario, con la collega Iacobitti (accusata tra l’altro di chiudere a chiave gli armadi dell’Ufficio impedendo ad altri impiegati, tra cui l’appellante, di effettuare correttamente il proprio lavoro), con l’impiegato Di Nola.

La circostanza non rileva in punto di astratta sussumibilità delle condotte nella fattispecie del c.d. "mobbing" (come si è prima evidenziato è nota alla giurisprudenza anche la fattispecie del c.d. "mobbing orizzontale", posto in essere non da superiori- o non soltanto da superiori- ma da colleghi di lavoro) né in punto di individuazione del soggetto responsabile.

Come è noto, infatti, del mobbing risponde comunque contrattualmente il datore di lavoro ex art. 2087 c.c., per violazione del dovere di tutelare la personalità morale del prestatore di lavoro, anche laddove le condotte lesive siano state poste in essere da colleghi di lavoro tramite il c.d. mobbing orizzontale, in quanto quel che rileva unicamente è che il datore sapesse o potesse sapere quanto accadeva. Tuttavia, la responsabilità datoriale non elide quella dell’autore materiale del fatto, ma si aggiunge alla stessa, atteso che l’autore materiale, se diverso dal datore, in base ai principi generali risponde comunque extracontrattualmente ex art. 2043 c.c. del danno ingiusto cagionato con dolo o colpa.

La circostanza rileva invece in punto di ravvisabilità dell’elemento psicologico della asserita condotta lesiva perpetrata dall’amministrazione.

5.3.5. Invero neppure nell’ipotesi formulata dall’appellante è emerso che tra detti soggetti con cui la stessa ebbe a relazionarsi negativamente all’interno dell’Ufficio intercorressero relazioni di solidarietà ovvero amicizia, tali da potere fondatamente fare ipotizzare che vi fosse un accordo tra i medesimi teso a creare conflitti con l’appellante medesima.

E neppure è stato provato – ma neanche adombrato – che le iniziative poste in essere dall’amministrazione rispondessero a tale supposto accordo, ovvero avessero la finalità di fare "scontare" alla appellante detti contrasti.

Ne consegue che appare del tutto sfornita di prova, già sotto il profilo astratto, la tesi del concerto vessatorio.

5.3.6. Al contempo, peraltro, non può non rilevarsi una circostanza.

Il trasferimento per incompatibilità ambientale risale all’ottobre 1997; le iniziative disciplinari risalgono ad un periodo ben successivo (30 dicembre 1997,15 settembre 1998); i contrasti intercorsi con l’ambiente lavorativo sono ben antecedenti (per espressa affermazione dell’appellante iniziarono nel 1995).

Orbene, tenuto conto della sequenza temporale come sopra rappresentata, appare ben difficile al Collegio ipotizzare la sussistenza di una consapevole vessatorietà nelle iniziative dell’amministrazione, anche in considerazione della circostanza che le stesse sono state assai distanziate nel tempo rispetto all’insorgere dei contrasti che ne dovrebbero essere stata scaturigine causale; il primo provvedimento adottato (trasferimento per incompatibilità ambientale) non aveva né natura né funzione disciplinare ma costituiva il rimedio per prevenire il protrarsi -ovvero l’incrementarsi- di una situazione di complessivo disagio per l’ambiente lavorativo.

Detto disagio (quale ne fosse il soggetto maggiormente responsabile) era comunque sussistente; le iniziative disciplinari seguirono, ben distanziate nel tempo, il procedimento di trasferimento.

Quantomeno in parte (ci si riferisce appunto alla effettiva esistenza di contrasti con il resto del personale dell’Ufficio, sia pure ovviamente valutati in una prospettiva differente rispetto a quella dell’appellante)i procedimenti disciplinari avviati poggiavano su fatti storici effettivamente avvenuti; le sanzioni irrogate erano assai blande.

Al contempo – soffermandosi sulla sanzione disciplinare impugnata nell’ambito del procedimento nel quale è stata emessa la sentenza oggetto dell’odierna impugnazione – non può non concordarsi con l’affermazione del primo giudice secondo cui l’aver atteso un lungo lasso di tempo prima di procedere alla predetta contestazione degli addebiti costituisce indice di comportamento certamente non vessatorio nei confronti dell’appellante, e la circostanza che l’appello non abbia specificamente gravato tale passaggio motivazionale non esime il Collegio dal manifestare la propria adesione a tale convincimento espresso dal primo giudice.

Alcune delle condotte dell’amministrazione lamentate dall’appellante poi, sono state dalla stessa definite "errori" il che ne esclude un intento dolosamente persecutorio.

Anche con riferimento alla supposta modalità vessatoria delle visite fiscali disposte nei suoi confronti, (la impugnata sentenza sul punto così si è espressa: "non potendo certamente ritenersi tale l’aver richiesto ripetute visite fiscali nei confronti di una dipendente che aveva cumulato molteplici giorni di malattia")l’appellante censura il convincimento espresso dal primo giudice sostanzialmente svalutando la circostanza che tale problematica costituisce una vexata quaestio per dottrina e giurisprudenza che, all’epoca essa era ben lungi dall’essere risolta (ancora nel 1999 la Suprema Corte di Cassazione affermava che lo stillicidio di visite fiscali – circostanza non certamente avvenuta comunque nel caso di specie- potesse essere vessatorio soltanto allorchè -continuo e quotidiano anche di sabato e domenica- fosse privo di giustificazione perché in ogni occasione era stata confermata la diagnosi relativa alla patologia in precedenza riscontrata ed era stata formulata la medesima prognosi di durata dell’infermità: Cassazione civile , sez. lav., 19 gennaio 1999, n. 475).

Peraltro si rammenta in proposito che anche tale fattispecie, è stata ritenuta dalla giurisprudenza lavoristica riconducibile all’ipotesi del c.d. "mobbing" soltanto allorchè rientrante (unitamente ad altre condotte) "in un medesimo disegno persecutorio del datore" (Cassazione civile , sez. lav., 06 marzo 2006, n. 4774).

5.3.7. Alla luce degli elementi processualmente acquisiti, pertanto, pare al Collegio che la sentenza abbia correttamente tratto le conseguenze dall’assenza di supporto probatorio alla prospettazione accusatoria formulata dall’appellante.

La illegittimità degli atti impugnati non può ex se rilevare quale fatto produttivo di danno risarcibile ex art. 2043 del codice civile, e men che meno in chiave di riscontro di una ipotesi (quella della consapevole vessatorità) risultata del tutto carente di prova.

La concreta applicazione della sanzione disciplinare giudicata illegittima dalla impugnata decisione, valutata anche in chiave isolata (nella ipotesi "minor" genetica del danno ex art. 2043 del codice civile, ed esclusa per quanto si è finora detto la vessatorietà complessiva della condotta unificata) esclude sia per la modalità (contestazione degli addebiti a distanza rilevante dai fatti) che per la modestia della sanzione applicata,sia per la circostanza che almeno taluni fatti storici ivi presi in esame si verificarono effettivamente, che essa possa rientrare in una condotta colposa o addirittura volontariamente diretta a provocare danno.

6. Conclusivamente, a carenza di supporto probatorio alla ipotesi secondo cui l’amministrazione appellata pose in essere una condotta vessatoria o comunque colposa esime il Collegio dal vaglio in ordine alla sussistenza degli ulteriori elementi del danno risarcibile (nesso eziologico, prova del danno arrecato) e milita per la reiezione dell’appello.

7. La natura della controversia impone la integrale compensazione tra le parti delle spese processuali sostenute.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) definitivamente pronunciando sull’appello, numero di registro generale 4993 del 2007 come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese processuali compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 dicembre 2011 con l’intervento dei magistrati:

Gaetano Trotta, Presidente

Raffaele Greco, Consigliere

Fabio Taormina, Consigliere, Estensore

Diego Sabatino, Consigliere

Guido Romano, Consigliere

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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