Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 21-06-2012, n. 10329 Licenziamento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza non definitiva del 21 gennaio 2010, la Corte d’Appello di Roma respingeva, con riferimento all’invalidazione del licenziamento e alle conseguenti statuizioni reintegratore e risarcitorie, il gravame svolto dalla GS s.p.a. contro la sentenza di primo grado che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato ad A.M., ordinato la reintegrazione nel posto di lavoro e condannato la società al risarcimento del danno dal licenziamento all’effettiva reintegrazione, oltre contributi previdenziali e assicurativi.

2. La Corte territoriale puntualizzava che:

– A.M., dipendente della GS s.p.a. dal 1995, lamentava di essere stato licenziato per giusta causa per presunte irregolarità nella sua attività di "responsabile di mercato" presso il supermercato gestito dalla società e, in particolare, che con lettera del 3 marzo 2005, la società gli aveva contestato irregolarità commesse nella gestione del supermercato e un conseguente ammanco di Euro 5.167,16 rispetto al quale egli non avrebbe assunto le necessarie iniziative per scoprire le cause ed evitarne il ripetersi;

– il dipendente agiva, pertanto, in giudizio deducendo l’illegittimità del licenziamento per plurimi profili, quali la mancata affissione del codice disciplinare presso la filiale ove era addetto, la modifica dei motivi di recesso nel corso del procedimento disciplinare rispetto a quelli oggetto dell’originaria contestazione;

l’assenza della giusta causa o del giustificato motivo; la sproporzione rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva dell’addebito, sul presupposto che solo la minor parte dell’ammanco fosse riferibile al periodo nel quale egli aveva gestito il supermercato e che le operazioni di cambio effettuate ogni giorno comportassero piccole sfasature tali da giustificare l’ammanco e che eventuali omissioni, a fronte del costante rispetto delle procedure imposte dalla società, fossero riferibili all’aumento dei carichi di lavoro e alla mancanza di personale;

– il primo giudice ha ritenuto illegittimo il licenziamento;

– la società ha proposto gravame.

3. A sostegno del decisum la Corte territoriale riteneva quanto segue:

– la giustificatezza del licenziamento doveva essere verificata alla stretta stregua dei soli fatti imputati nella lettera di contestazione disciplinare, ed esattamente 1) nel non aver posto in essere iniziative per scoprire le origini dell’ammanco accertato, nè per ovviare al progressivo espandersi di esso; 2) nell’aver omesso la costituzione dei fondi personalizzati, 3) nell’aver omesso il controllo settimanale della giacenza fondo cassa; 4) nell’aver omesso di inviare comunicazioni settimanali circa gli ammanchi in cassa centrale all’ispettorato aziendale; 5) nell’aver consentito agli addetti alle casse l’utilizzo della chiave supervisore del registratore di cassa per gli storni contabili;

– le irregolarità contestate risultavano sproporzionate rispetto alla sanzione espulsiva non presentando una gravità tale da giustificarne l’irrogazione, non ravvisandosi nelle plurime condotte contestate la massima gravità necessari per rescindere il legame fiduciario tra le parti, nel profilo oggettivo (per la non rilevante entità della perdita economica lamentata dalla società, attesa l’imputabilità al dipendente di una somma effettiva di Euro 1.416,21) e nel profilo soggettivo (per non essere stata contestata al dipendente una condotta a titolo di dolo nè l’appropriazione indebita delle somme mancanti, ma piuttosto di aver omesso in tutto o in parte iniziative e procedure di controllo per prevenire gli ammanchi e per porvi rimedio);

– trattavasi, al più, di condotte colpose, comunque negligenti e sanzionabili con un’esemplare sanzione conservativa di minor afflittività, ma non così dirompenti, anche in considerazione degli effetti economici lievi prodottisi in danno della società, da giustificare l’estromissione, non sussistendo la progressiva espansione degli ammanchi ma piuttosto un’altalenante e fisiologica consistenza della cassa centrale;

– ulteriori circostanze contestate, come le assenze ingiustificate durante l’orario di lavoro non assumevano decisiva rilevanza, giacchè non debitamente conteste, nè valutabili in termini tali da stravolgere il giudizio di inidoneità degli addebiti ad integrare giusta causa e giustificato motivo di recesso;

– infine, il dedotto esercizio di altra attività commerciale rilevava, per il periodo successivo all’interruzione del rapporto di lavoro, ai fini della valutazione del danno risarcibile in favore del lavoratore licenziato, onde con separata ordinanza veniva disposto il prosieguo del giudizio per la relativa delibazione.

4. Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, la GS s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione fondato su un unico motivo articolato in più profili e illustrato con memoria. L’intimato ha resistito con controricorso, eccependo l’inammissibilità ed infondatezza del ricorso.

Motivi della decisione

5. Con un articolato motivo di ricorso la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2106, 2118, 2119, 2697 c.c.; L. n. 604 del 1966, artt. 1, 3; L. n. 300 del 1970, art. 18;

artt. 212, 217 CCNL del terziario anche sotto il profilo della violazione degli artt. 1362-1367 c.c.; artt. 116 e 116 c.p.c., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a punti decisivi della controversia. La ricorrente si duole che la corte non abbia ammesso le prove puntualmente dedotte in giudizio sul presupposto che le circostanze quand’anche provate non avrebbero rivestito gravità tale da giustificare il licenziamento, assumendo che l’entità degli addebiti avrebbe potuto e dovuto scaturire dalla prova testimoniale non ammessa. Assume, pertanto, che la corte territoriale ha del tutto trascurato il ruolo rivestito dall’ A. (responsabile di mercato e del centro di costo) il cui compito principale risiedeva nel pretendere dai subordinati l’integrale rispetto delle direttive aziendali ed anche delle procedure concernenti la gestione del denaro; inoltre, l’origine dolosa degli ammanchi, sotto il profilo della cosciente e premeditata violazione degli obblighi del dipendente e sotto il profilo dell’appropriazione indebita.

6. Il motivo non è meritevole di accoglimento.

7. Invero è censurata l’erronea valutazione della fattispecie concreta, ma in sostanza si censura la ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito.

8. Invero, la denuncia di un vizio di motivazione nella sentenza impugnata non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, le argomentazioni – svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l’accertamento dei fatti, all’esito dell’insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento – con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere dall’esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di un fatto decisivo e controverso, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione, non rilevando la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti.

9. In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al giudice di legittimità – non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero, una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità.

10. La motivazione in fatto dell’impugnata sentenza, richiamata nello storico di lite, non risulta, invero, inficiata da vizi siffatti.

11. Peraltro le censure, incentrate sul ruolo del dipendente, sono articolate in modo avulso dal decisum della Corte territoriale, incentrato, invece, sulla tenuità del danno e sull’assenza di proporzionalità tra addebito e sanzione, e sono, pertanto, prive di specificità non concretandosi in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere.

12. Nè il Collegio ritiene ammissibili le doglianze indirizzate avverso il giudizio di irrilevanza delle prove costituende richieste e di quelle costituite fornite e la mancata ammissione della prova, mancando qualsiasi concreto riferimento agli elementi probatori pretermessi o la cui acquisizione era stata richiesta, sì da consentire alla Corte di legittimità di valutarne la decisività.

13. Le critiche mosse dalla ricorrente non possono essere valutate dalla Corte in applicazione del principio di diritto, assorbente ogni altra questione, secondo il quale, quando sia denunziato, con il ricorso per Cassazione, un vizio di motivazione della sentenza sotto il profilo della mancata ammissione di un mezzo istruttorio, il ricorrente ha l’onere, in virtù del principio di autosufficienza del ricorso, di indicare specificamente le circostanze che formavano oggetto della prova, la loro rilevanza, i soggetti chiamati a rispondere e le ragioni per le quali essi sono qualificati a testimoniare, onde consentire al giudice di legittimità il controllo sulla decisività della prova testimoniale non ammessa sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative (ex multis, Cass. nn. 9748/2010, 5479/2006, 19138/2004, 9290/2004).

14. Passando alla dedotta origine dolosa degli ammanchi, sotto il profilo della cosciente e premeditata violazione dei propri obblighi da parte del dipendente e sotto il profilo dell’appropriazione indebita, osserva il Collegio che la censura risulta improponibile in questa sede di legittimità giacchè involge questioni non dibattute nelle precedenti fasi di merito e implicanti una modificazione dei termini in fatto della controversia, giacchè la Corte di merito, sulla base delle questioni disputate tra le parti, ha rimarcato che al lavoratore non era stata rimproverata dalla società alcuna condotta a titolo di dolo.

15. Quanto alla violazione delle disposizioni contrattuali collettive e dei canoni legali di ermeneutica del contratto collettivo, osserva la Corte che le censure investono il contratto collettivo nazionale di lavoro senza che risulti osservata la prescrizione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) secondo cui, col ricorso per cassazione, devono essere depositati, a pena di improcedibilità, "gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda".

16. La disposizione ricomprende nel proprio ambito anche i contratti o accordi collettivi, a seguito della modifica ad essa apportata dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 7, applicabile ratione temporis, a norma dell’art. 27, comma 2 del citato decreto legislativo, che fa riferimento ai ricorsi per cassazione avverso le sentenze depositate successivamente alla data del 1 marzo 2006; essa riguarda il contratto o accordo nel suo testo integrale ed è, infine, da porsi in collegamento con la modifica operata dalla legge all’art. 360 c.p.c., n. 3, con l’estensione del controllo di legittimità al vizio di violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro (per cui deve ritenersi riferita esclusivamente a tali accordi e contratti collettivi).

17. Nel caso in esame la società ricorrente si è limitata a richiamare il contenuto delle disposizioni collettive, ma questa Corte ha già avuto modo di precisare che, a norma dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) non appare sufficiente ad adempiere al relativo onere l’allegazione dell’intero fascicolo di parte del giudizio di merito (v., ex multis, Cass. S.U. 21747/2009), essendo necessario, a tal fine, un atto specifico di deposito, nè essendo sufficiente la parziale allegazione del C.C.N.L. invocato (v., ex multis, Cass. 21358/2010).

18. E’ stato infatti al riguardo ripetutamente affermato, in sede di procedimento ex art. 420 bis c.p.c. (contenente la disciplina del procedimento relativo all’accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità e interpretazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, che prevede l’immediata decisione da parte del giudice, con una sentenza impugnabile in cassazione), che questa Corte, nell’interpretazione del contratto invocato, ha il potere di ricercare all’interno dell’intero contratto collettivo le clausole ritenute utili a tale fine, senza essere in tale funzione condizionata dalle prospettazioni di parte (cfr., ad es. Cass. nn. 5050/08 e 19560/07).

19. Tale regola trova applicazione anche in sede di controllo di legittimità del contratto collettivo nazionale di lavoro a seguito di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 3 in quanto la produzione parziale di un documento sarebbe incompatibile con i principi fondamentali dell’ordinamento (che non consentono a chi invoca in giudizio un contratto di produrne solo una parte), nonchè con i criteri di ispirazione dell’intervento legislativo citato, volto a potenziare la funzione nomo filatura della Corte (nei medesimi termini, cfr. Cass. 21358/2010).

20. La regola appare, infine, coerente con i canoni di ermeneutica contrattuale di cui la Corte deve fare applicazione, in particolare con la regola relativa all’interpretazione complessiva delle clausole, secondo la quale "Le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto" (art. 1363 c.c.).

21. In definitiva, il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese, liquidate in Euro 40,00 per esborsi, oltre Euro 4.000,00 per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, il 26 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 21 giugno 2012

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