Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 11-11-2011) 02-12-2011, n. 44901

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il 21 luglio 2010 la Corte d’assise d’appello di Caltanissetta, in parziale riforma della sentenza di primo grado appellata dagli imputati, riduceva, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche dichiarate equivalenti alle aggravanti contestate, a sedici anni di reclusione la pena di anni venti precedentemente inflitta dalla locale Corte d’assise a D.M.S. e L. N., riconosciuti colpevoli del delitto di concorso (insieme con il minore F.F. nei cui confronti si è proceduto separatamente) in strage, esclusa l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7. 2. Da entrambe le sentenze di merito emergeva che il 9 novembre 2005, a seguito di effrazione della persiana della finestra, veniva appiccato fuoco ai mobili posti nell’appartamento di S.G., posto in (OMISSIS), in cui erano in corso lavori di ristrutturazione. Le fiamme incenerivano tutto il mobilio (gli arredi della cucina, la sala da pranzo, una parete attrezzata ed altre suppellettili), le porte ammassate in una stanza in attesa dell’ultimazione dei lavori, danneggiavano seriamente i soffitti di due stanze, provocando lo scoppio dei laterizi, che completavano la travatura, e il distacco dell’intonaco di copertura. Il fumo, passando attraverso il foro realizzato per la collocazione del contatore della luce, si diffondeva lungo il vano delle scale e penetrava in alcuni degli appartamenti sovrastanti.

All’atto dell’intervento dei Vigili del fuoco le fiamme, seppure scemate, erano ancora vive, i soffitti erano caldi e due stanze dell’appartamento occupato dalla famiglia Di Noto presentavano problemi di stabilità, in quanto più intensamente riscaldate dall’incendio.

3. I giudici ritenevano provata la responsabilità degli imputati sulla base dei rilievi tecnici effettuati dai Vigili del fuoco, delle dichiarazioni rese dagli inquilini dello stabile ( D.N.R. e D.N.S., T.A., Sa.Sa.), del rinvenimento da parte dei Carabinieri di una chiave svita bulloni – sottratta quella stessa notte da un’auto parcheggiata lungo la strada mediante effrazione dello sportello del vano portabagagli -, poi utilizzata per bloccare il portone principale d’ingresso dello stabile, del contenuto delle intercettazioni ambientali sull’auto "Lancia Y" di proprietà di D.M., nonchè della rilevazione dei movimenti del mezzo compiuta tramite controllo satellitare "gps", entrambi evidenzianti la responsabilità degli imputati in ordine al fatto loro addebitato e la presenza dell’auto di D.M. sul luogo dell’accaduto. La sentenza impugnata evidenziava, infine, che, in grado d’appello, entrambi gli imputati ammettevano parzialmente l’addebito. In particolare D.M., pur con molte reticenze volte a ridimensionare la sua responsabilità, ammetteva di avere partecipato all’incendio dell’appartamento del Sa., oltre che all’incendio dell’autovettura di P. (fatto quest’ultimo che, peraltro, non forma oggetto di contestazione nell’ambito del presente processo). L., a sua volta, riferiva di essersi trovato in compagnia del cognato D.M., allorchè quest’ultimo si era introdotto nell’abitazione disabitata di Sa. per appiccare il fuoco.

La Corte d’appello riteneva corretta la qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 422 c.p., tenuto conto dell’entità delle fiamme, della loro capacità diffusiva e distruttiva, del numero delle zone interessate dalle fiamme, del pericolo per la stabilità di alcuni vani sovrastanti a quello dell’appartamento in cui venne appiccato l’incendio, della durata dello stesso, dello specifico dolo omicidiario sotteso alla condotta delittuosa.

4. Avverso la suddetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, tramite i rispettivi difensori di fiducia, D.M. e L., i quali formulano le seguenti doglianze.

Entrambi lamentano inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 422 c.p. e vizio della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di strage, tenuto conto delle caratteristiche dell’incendio, privo di privo dei caratteri di vastità e diffusività e di capacità distruttiva, dell’assenza della volontà di uccidere un numero indeterminato di persone, della mancata acquisizione di elementi obiettivi espressivi della volontà di uccidere anche alla luce delle caratteristiche del luogo in cui venne appiccato il fuoco, privo di collegamento con il resto dell’edificio, del carattere non significativo della frase minatoria rinvenuta sul luogo del fatto e non attribuibile agli imputati, della concreta inidoneità della chiave svita bulloni a bloccare efficacemente il portone dello stabile, delle modalità complessive dell’azione, espressive di un gesto estemporaneo e meramente dimostrativo e, comunque, inidoneo a porre concretamente in pericolo la pubblica incolumità.

Deducono, inoltre, violazione dei canoni di valutazione probatoria, illogicità della motivazione, travisamento del fatto con riferimento agli elementi posti a base dell’affermazione di penale responsabilità.

La difesa di L. denuncia anche violazione di legge e vizio della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza di un effettivo contributo causalmente rilevante alla consumazione del delitto da parte dell’imputato.

La difesa di D.M. lamenta, infine, violazione di legge e vizio della motivazione con riguardo all’omesso giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulle contestate aggravanti e alla complessiva dosimetria della pena.

Motivi della decisione

I ricorsi sono fondati nei limiti di seguito precisati.

1. Non meritano accoglimento le censure difensive concernenti la violazione dei canoni di valutazione probatoria con riferimento agli elementi posti a base dell’affermazione di penale responsabilità di entrambi gli imputati e alla sussistenza di un contributo causalmente rilevante fornito da L. alla commissione del fatto.

2. Occorre premettere che, alla luce della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), novellato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che la motivazione della pronunzia: a) sia "effettiva" e non meramente apparente, ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata;

b) non sia "manifestamente illogica", in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti dei processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso per cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Cass., Sez. 6, 15 marzo 2006, Casula). Non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità nè che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante.

Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento.

E’, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, cosi da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (Cass., Sez. 6, 15 marzo 2006, Casula). Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti "atti del processo". Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi – anche a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi "atti del processo" e di una correlata pluralità di motivi di ricorso – in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della motivazione e sulla permanenza della "resistenza" logica del ragionamento del giudice. Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.

3.Esaminata in quest’ottica la motivazione della sentenza impugnata si sottrae alle censure che le sono state mosse. Il provvedimento impugnato, con motivazione esente da evidenti incongruenze o da interne contraddizioni, ha richiamato, ai fini dell’affermazione di penale responsabilità di entrambi gli imputati in ordine al fatto storico loro contestato, le dichiarazioni rese dai testimoni ( R. e D.N.S., T.A., Sa.Sa.), le risultanze dei rilievi tecnici e degli accertamenti svolti dai Carabinieri sui mezzi usati per appiccare fuoco e per bloccare il portone d’ingresso dello stabile mediante una chiave svita bulloni – appositamente sottratta, mediante violenza sulle cose, da un’auto in sosta -, il contenuto delle intercettazioni ambientali disposte a bordo dell’auto "Lancia Y" di proprietà di D.M., i tracciati (realizzati mediante controllo satellitare "gps") degli spostamenti compiuti dalla macchina in coincidenza con l’azione criminosa, evidenzianti la presenza del mezzo nel luogo del fatto, nonchè le stesse ammissioni rese dagli imputati nel corso del giudizio d’appello.

4. La sentenza impugnata ha, inoltre, ricostruito, sulla base di un iter argomentativo correttamente articolato, il consapevole e volontario contributo alla consumazione dell’azione delittuosa fornito da L., richiamando il contenuto dell’intercettazione del 9 novembre 2005, ore 1,15, da cui risulta che l’acquisto della benzina necessaria per innescare i due incendi fu il frutto della decisione comune dei due ricorrenti, di concerto con il terzo complice minorenne, tanto che tutti e tre i soggetti sborsarono il denaro necessario. Ha, inoltre, osservato che, nel contesto dell’azione, anche il ruolo di "palo" accreditato da L. è idoneo ad integrare il concorso nel delitto, avendo contribuito a rafforzare il proposito criminoso degli altri concorrenti, consapevoli di potere contare sul suo aiuto nel segnalare imprevisti, l’arrivo di estranei, eventuali perlustrazioni in zona delle forze di polizia.

5. Meritano, invece, accoglimento le censure difensive concernenti la qualificazione giuridica del fatto.

Il delitto di strage consiste nel fatto di chi, al fine di uccidere, compie atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità, intesa come il bene della sicurezza della vita e dell’integrità fisica, riferito non già ad una o più persone determinate, ma alla collettività nel suo insieme, come un bene di tutti e di ciascuno (Sez. 1, 21 novembre 1984, n. 608). Il dolo relativo consiste nella volontà di compiere atti diretti a mettere a repentaglio la pubblica incolumità con la consapevolezza di tale pericolo, il quale è elemento essenziale del reato e non mera condizione di punibilità.

Infatti, l’effetto di pericolo per la pubblica incolumità non è condizione estrinseca al fatto, ma ne costituisce l’essenza; inoltre l’evento tipico del reato e gli atti devono essere posti in essere con il fine di uccidere, ossia con l’intenzione di attentare alla vita di una o più persone.

La strage è un delitto di pericolo concreto, non presunto dalla legge, che deve formare oggetto di specifica verifica da parte del giudice. E’, quindi, necessario che, con apposita indagine, venga accertato se, in concreto, sia effettivamente sorto il pericolo della morte o delle lesioni di un numero indeterminato di persone, essendo la morte o le lesioni solo circostanze aggravanti. Il delitto di strage si configura, quindi, allorchè gli atti compiuti siano tali da porre in pericolo la pubblica incolumità e non si siano limitati ad offendere soltanto la vita di una singola persona.

La sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione di questi principi. Infatti, dopo avere correttamente sottolineato, sulla base dei rilievi tecnici effettuati dai Vigili del fuoco, che gli imputati cagionarono un incendio secondo l’accezione di cui all’art. 423 c.p. – tenuto conto delle proporzioni delle fiamme, della loro diffusività, della difficoltà di spegnimento (cfr. ex plurimis Cass., Sez. 1, 16 novembre 1999, n. 14592) – ha sovrapposto la valutazione del pericolo per la pubblica incolumità insita, come normale conseguenza, nelle caratteristiche proprie dell’incendio, al distinto e autonomo profilo concernente il pericolo per la vita e l’incolumità delle persone (Sez. 6, 20 marzo 1979, n. 8262). Si tratta di un ragionamento erroneo, perchè risolve ogni incendio nel delitto di strage, così annullando l’ontologica differenza esistente tra le due fattispecie criminose.

Non è, infatti, sufficiente, perchè sussista il delitto di strage, provocare un incendio, pur prevedendo come possibile conseguenza che il fuoco causi la morte di qualcuno. Solo se il mezzo usato, per la potenzialità offensiva o per le specifiche modalità di impiego, sia chiaramente rivelatore della intenzione di causare la morte di più persone – o almeno di una, nella conosciuta situazione oggettiva di pericolo per altre, richiesta dalla norma – il fine di uccidere può ritenersi sussistente, così venendo realizzato il dolo tipico della strage indipendentemente dal fine ultimo dell’azione.

Anche sotto questo profilo la sentenza impugnata è viziata. Ha, infatti, omesso di specificare se la tipologia dell’incendio, avuto riguardo alle caratteristiche del luogo e alla ubicazione dell’appartamento di Sa. rispetto al resto dello stabile di cui fa parte, era tale da potersi propagare negli altri appartamenti o, comunque, da determinare, per le natura divoratrice delle fiamme, un obiettivo pericolo per la statica del palazzo o di parti di esso con ovvi riflessi per l’incolumità dei suoi abitanti.

Si tratta di un profilo rilevante per ricostruire l’eventuale sussistenza dell’intenzione di attentare alla vita di una o più persone (art. 422 c.p.) e per distinguere tale ipotesi da quella del tentato omicidio, anch’essa autonomamente configurabile rispetto al delitto di incendio. Gli artt. 423, 56 e 575 c.p. tutelano, infatti, beni giuridici diversi, quali, rispettivamente, l’incolumità pubblica e la vita e l’incolumità individuale, con la conseguenza che l’interesse tutelato dall’una non può ritenersi assorbito nell’alta nè costituisce il necessario antefatto per la realizzazione del più grave delitto previsto dagli artt. 56 e 575 c.p..

Per tutte queste ragioni s’impone l’annullamento della sentenza impugnata e il rinvio per nuovo giudizio alla Corte d’Assise d’appello di Catania.

6. L’accoglimento dei ricorsi per le ragioni precisate al paragrafo che precede ha natura pregiudiziale ed assorbente rispetto alle censure in tema di dosimetria della pena prospettata dalla difesa di D.M..

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla Corte d’assise d’appello di Catania.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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