Cass. civ. Sez. III, Sent., 21-06-2012, n. 10296 Funzione notarile Responsabilità civile e penale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

p.1. Nell’aprile del 2005 B.R. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Roma il notaio C.P., la s.r.l. IPI Intermediazione Finanziaria, la Patrim s.r.l. e Be.Gi.

per sentirli condannare solidalmente o per quanto di rispettiva spettanza al risarcimento dei danni sofferti, per avere acquistato dalla Patrim, tramite l’agenzia immobiliare IPI, con atto a rogito del suddetto notaio in data 8 novembre 1996, un immobile (sito al piano quinto sottotetto e facente parte del complesso mobiliare sito in (OMISSIS)), che successivamente nel 2003, in occasione di lavori di ristrutturazione, era risultato privo della licenza di abitabilità in quanto avente destinazione d’uso quale locale stenditoio-lavatoio della palazzina. Tale circostanza aveva costretto il B. a procedere ad una pratica di condono edilizio per il cambio di destinazione d’uso da locali di servizio ad abitazione, con il conseguente esborso di Euro 10.282,83.

L’azione veniva proposta adducendosi che l’irregolarità edilizia sarebbe stata chiaramente evincibile da una lettura dei documenti (licenze edilizie, licenza di abitabilità, atto d’obbligo trascritto in conservatoria) citati nel rogito stesso dal notaio, indicato come di fiducia della venditrice nel contrato preliminare di compravendita stipulato nell’ottobre del 1996.

p.1.1. L’attore rinunciava in prima udienza alla domanda nei confronti della Patrim, della Be. e della IPI, mentre il C., costituendosi e instando il rigetto della domanda, chiedeva ed otteneva di chiamare in causa in garanzia la Cattolica Assicurazioni s.c.a.r.l. e l’Lloyd’s of London, le quali si costituivano e chiedevano anch’esse il rigetto della domanda.

Nel corso del giudizio interveniva ad adiuvandum rispetto all’attore l’Associazione Codici Onlus.

p.1.2. Con sentenza del settembre 2009 il Tribunale di Roma, nel presupposto dell’esistenza di una responsabilità contrattuale del C., lo condannava in solido con la Cattolica alla corresponsione della somma di Euro 36.105,17, comprensiva oltre che dell’importo dell’esborso per il condono di altro importo quale differenza di valore del bene acquistato sul prezzo corrisposto, individuata in riferimento a quello minore a cui erano state vendite tre mansarde identiche a quella acquistata dall’attore, nei cui rogiti, sempre rogati dal notaio, era stato omesso ogni riferimento all’abitabilità.

p.2. Sull’appello principale del notaio, che insisteva per la reiezione della domanda del B. e subordinatamente per l’accertamento della misura della sua responsabilità ed eventualmente del concorso nella causazione del danno del B., nonchè sull’appello incidentale della Cattolica (che muoveva le stesse doglianze del notaio), la Corte d’Appello di Roma, con sentenza del 24 marzo 2010 (pronunciata nei confronti di tutte le parti del giudizio di primo grado, fra le quali restavano contumaci la IPI, la Be. e la Patrim), in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda del B., gravando costui e la Codici Onlus delle spese del doppio grado nei riguardi del C. e delle due società assicuratici.

p.2.1. La motivazione della sentenza ha escluso la responsabilità del notaio e rigettato la domanda del B. accogliendo la prima delle due censure, su cui si basava il primo motivo di appello, nonchè il terzo motivo di esso, rispettivamente diretti ad escludere che in capo al notaio sussistesse un obbligo di informazione del notaio verso il B. circa l’inesistenza dell’abitabilità dell’immobile e a postulare che il primo giudice non avesse dato risposta alla difesa svolta nel senso che ai sensi dell’art. 1227 c.c., la responsabilità per quella mancanza doveva ascriversi allo stesso B., giacchè egli sarebbe stato in condizioni di avvedersi che l’immobile era privo di abitabilità.

Scrutinando le due censure, la Corte capitolina ha affermato che nella specie – indipendentemente dall’esistenza in capo al notaio che roghi un atto di un obbligo di informare il cliente sulle condizioni di abitabilità dell’immobile – un simile obbligo si doveva escludere, perchè la mancanza del requisito dell’abitabilità dell’immobile si sarebbe potuta rilevare ictu oculi dal B..

Le ragioni di tale conclusione sono state esposte dalla Corte territoriale nella parte finale del paragrafo 7.3. della motivazione, assumendosi: che dalla stessa sentenza di primo grado risultava che l’unità immobiliare aveva un’altezza media di 1,80 metri; che, ai sensi del D.M. Lavori Pubblici 5 luglio 1975, art. 1, recante "Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20 giugno 1896 relativamente all’altezza minima ed ai requisiti igienico-sanitari principali dei locali d’abitazione" e, quindi, rilevante ai fini della individuazione della concessione della vecchia "abitabilità" (di cui al R.D. n. 1265 del 1934, art. 221), era previsto che "l’altezza minima interna utile dei locali adibiti ad abitazione è fissata in. 2,70, riducibili a m. 2,40 per i corridoi, i disimpegni in genere, i bagni, i gabinetti ed i ripostigli"; che era "francamente sorprendente che il B. potesse aver potuto pensare di contestare al notaio rogante di non averlo informato della mancanza del requisito di abitabilità… quantunque detta mancanza potesse essere senz’altro ravvisata, o almeno gravissimamente sospettata, con la conseguente necessità di approfondimento, da qualsiasi persona dotata – non già di specifiche cognizioni giuridiche sulla nozione di abitabilità – ma di un minimo buon senso, sol che avesse visitato l’immobile", cosa che era più che ragionevole credere il B. avesse fatto e che, in ogni caso, ove non avesse fatto, avrebbe comportato una negligenza di cui doveva sopportare le conseguenze; che, in particolare, sarebbe stato evidente a chiunque, pur privo di particolari nozioni giuridiche sull’argomento, che non poteva essere salubre e, quindi, abitabile, un’abitazione con quella altezza media corrispondente a quella media "delle persone che abitualmente ci circondano"; che tanto escludeva che il notaio dovesse informare il B. "in ordine al requisito di abitabilità dell’immobile, quando esso B. avrebbe dovuto già da solo avvedersi che esso immobile non era e non poteva essere abitabile"; che, dunque, il danno subito dal B. si doveva ritenere evitabile mediante l’uso dell’ordinaria diligenza "ai sensi dell’art. 1227 c.c.".

Dopo avere raggiunto tali conclusioni la Corte romana ha, peraltro, nel paragrafo 7.4. osservato – pur rilevando che le esposte considerazioni la esimevano dal "soffermarsi sul quesito (…) se, in generale, il notaio sia tenuto a verificare l’abitabilità di un immobile per il quale si appresti a stipulare un atto di compravendita" – che la risposta ad esso doveva essere negativa, "dal momento che la verifica dell’abitabilità, pur risolvendosi essa in una qualità giuridica della cosa, richiede il possesso di competenze e l’esecuzione di verifiche di natura tecnico-edilizio-urbanistica che sfuggono alla preparazione professionale del notaio e che, di conseguenza, gli imporrebbero di rivolgersi ad altro professionista, geometra, architetto o ingegnere".

p.3. Avverso questa sentenza il B. ha proposto ricorso per cassazione in via principale contro tutte le parti.

L’Associazione Codici Onlus ha svolto ricorso incidentale con atto così qualificato. Hanno proposto separati controricorsi il C. e la Cattolica.

Le altre parti intimate non hanno resistito.

p.3.1. Hanno depositato memoria il ricorrente, il C. e la Codici Onlus.

Motivi della decisione

p.1. Preliminarmente va disposta la congiunta trattazione del ricorso incidentale con quello principale, in seno al quale esso è stato proposto, pur essendo stato denominato l’atto solo come ricorso incidentale e non anche come controricorso.

p.2. Con il primo motivo del ricorso principale si deduce "improcedibilità dell’appello – Violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dell’art. 347 e 348 c.p.c., dell’art. 39 c.p.c., art. 358, 359,165, 163 e 164 c.p.c.".

Vi si censura la sentenza impugnata per non avere accolto l’eccezione formulata dal B. quanto all’appello principale del notaio C., sotto il profilo che costui aveva notificato un primo appello a tutte le parti in causa il 19 ottobre 2009 senza iscriverlo a ruolo e, quindi, un secondi atto di appello, che, però era stato iscritto a ruolo il 6 novembre 2009, cioè oltre i dieci giorni dalla notifica del primo appello. Erroneamente la Corte territoriale avrebbe ritenuto tempestiva l’iscrizione a ruolo del secondo appello, facendo decorrere il termine di dieci giorni per la costituzione dalla sua notificazione e non da quella della notificazione del primo.

p.2.1. Il motivo è ammissibile ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6, essendo stati indicati nella sua esposizione gli atti su cui si fonda anche con riferimento alla sede in cui sono stati prodotti in questo giudizio di legittimità, mentre, atteso che la prospettazione si basa sul riscontro delle date di notificazione e della data di iscrizione del secondo appello, nel caso di specie non occorreva che tali risultanze fossero trascritte, essendone agevole il riscontro.

p.2.1.1. Il motivo è, tuttavia, privo di fondamento, secondo la lettura che Cass. sez. n. n. 19051 ha dato dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, in punto di formula espressiva del risultato del riscontro della sua ricorrenza da parte della Corte.

L’infondatezza emerge, perchè nel caso di notificazione di un primo appello e poi di un appello successivo, rispetto ad ognuno degli appelli decorre il rispettivo termine di costituzione, con la conseguenza che se il primo è inammissibile o improcedibile (in ipotesi proprio per mancata o intempestiva costituzione), la procedibilità del secondo non ne risente se il termine di costituzione è stato osservato rispetto alla sua notificazione, assumendo rilievo il primo appello solo, eventualmente, ai sensi e per gli effetti dell’art. 358 c.p.c., e, quindi, giusta una consolidata interpretazione di questa Corte, ove venga dichiarato inammissibile o improcedibile prima dell’esame del secondo appello.

E’ stato, in particolare, affermato che "qualora venga notificato un atto di appello e successivamente l’appellante, ritenendo che la notificazione sia affetta da nullità, provveda spontaneamente alla notificazione di un nuovo atto di appello, nel rispetto del termine di impugnazione (da considerarsi comunque iniziato a decorrere, a carico dello stesso notificante come termine cosiddetto breve, dal momento della prima notificazione), il giudice dell’impugnazione, ove l’appellante (pur avendone l’onere, sia nel caso di insussistenza della nullità del primo appello, sia – in ragione della efficacia ex tunc della rinnovazione – nel caso di nullità) non si sia costituito nei termini in relazione alla prima notificazione, non può dichiarare improcedibile l’appello per difetto di tempestiva costituzione del medesimo, ove l’improcedibilità dell’appello proposto con la prima notificazione non risulti dichiarata al momento della seconda notificazione, trovando viceversa applicazione l’art. 358 c.p.c." (Cass. 20313 del 2006; n. 14538 del 2009).

Ed è stato, nello stesso ordine di idee, rilevato che "La notifica della citazione in appello, non seguita da iscrizione della causa a ruolo, non consuma il potere di impugnazione, atteso che la consumazione del diritto di impugnazione presuppone l’esistenza – al tempo della proposizione della seconda impugnazione – di una declaratoria di inammissibilità o improcedibilità della precedente, per cui, in mancanza di tale (preesistente) declaratoria, è legittimamente consentita la proposizione di un’altra impugnazione (di contenuto identico o diverso) in sostituzione della precedente viziata, purchè il relativo termine non sia decorso. Per la verifica della tempestività della seconda impugnazione, occorre aver riguardo non al termine annuale, ma a quello breve il quale, solo in difetto di anteriore notificazione della sentenza appellata, può farsi decorrere dalla data di proposizione della prima impugnazione che equivale alla conoscenza legale della decisione impugnata". (Cass. n. 22957 del 2010; i precedenza: Cass. n. 15297 del 2007; n. 5053 del 2009).

p.3. Con il secondo motivo del ricorso principale si denuncia "nullità della sentenza impugnata ex art. 360, comma 1, n. 4, per mancato deposto dell’atto di citazione in appello notificato nei termini".

Vi si deduce che il secondo appello sarebbe stato comunque improcedibile, perchè l’iscrizione a ruolo era avvenuta senza il deposito della citazione con la relata di notifica e la Corte capitolina all’udienza del 17 febbraio 2010 avrebbe concesso "un semplice rinvio, pur non avendo l’appellante depositato l’atto di citazione con relativa notifica (doc. 21)", mentre essa avrebbe dovuto dichiarare l’improcedibilità. A sostegno viene richiamata Cass. n. 18009 del 2008.

p.3.1. Il motivo è inammissibile per palese violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, in quanto non fornisce l’indicazione specifica degli atti su cui si fonda nei termini nei quali è ritenuta necessaria da consolidata giurisprudenza di questa Corte (ex multis, Cass. sez. un. nn. 28547 del 2008 e n. 7161 del 2010 e – con specifico riguardo agli atti processuali – Cass. sez. un. n. 22726 del 2011).

Infatti, l’onere di indicazione specifica degli atti processuali su cui il motivo si fonda non risulta assolto perchè:

a) non si individua il contenuto dell’iscrizione a ruolo della causa, omettendosi di precisare in che modo e particolarmente con la produzione di che cosa avvenne quanto all’atto di citazione, e nemmeno si chiarisce se e dove in questa sede la documentazione di tale iscrizione dovrebbe poter essere riscontrata dalla Corte (al riguardo, non si precisa se si intenda fare riferimento, ai fini del pervenimento in questa sede alla presenza della relativa documentazione nel fascicolo d’ufficio, come non ha mancato di sottolineare la citata Cass. sez. un. n. 22726 del 2011, nell’occuparsi della questione del modo di produzione degli atti processuali ai fini dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4);

b) non si precisa che udienza fosse quella indicata e nemmeno si trascrive il contenuto del verbale di udienza, che ci si limita ad indicare come prodotto (ed in effetti si produce).

p.3.2. Comunque il motivo sarebbe stato infondato.

Questa Corte, recentemente, nella sentenza n. 6912 del 2012 si è così espressa sulla questione della costituzione in appello mediante velina, cioè con la modalità con la quale il resistente ebbe a costituirsi, siccome precisato nel controricorso: L’art. 348 c.p.c., comma 1, dopo che l’art. 347 c.p.c., comma 1, ha prescritto che "la costituzione in appello avviene secondo le forme e i termini per i procedimenti davanti al tribunale", così attuando un sostanziale rinvio all’art. 165 c.p.c., dispone che "l’appello è dichiarato improcedibile, anche d’ufficio, se l’appellane non si costituisce in termini".

Ebbene, la sanzione di improcedibilità è ricollegata soltanto all’inosservanza del termine di costituzione e non anche all’inosservanza delle sue forme.

Ne deriva che le conseguenze della scelta del legislatore di applicare la sanzione della improcedibilità, che significano sottrazione dell’inosservanza delle forme al regime delle nullità e, quindi, esclusione dell’operatività del principio della sanatoria per l’eventuale configurabilità di una fattispecie di raggiungimento dello scopo, si giustificano soltanto per il caso di costituzione mancata entro il termine, cioè che non sia mai avvenuta, o sia avvenuta successivamente ad esso. Le conseguenze di una costituzione avvenuta nel termine ma senza l’osservanza delle forme evocate nell’art. 347, comma 1, essendo il regime della improcedibilità, in quanto di maggior rigore rispetto al sistema generale delle nullità, di stretta interpretazione, soggiacciono, viceversa, al regime delle nullità di cui all’art. 156 c.p.c. e ss., e, quindi, vanno disciplinate applicando il principio della idoneità dell’atto al raggiungimento dello scopo e ciò anche attraverso l’esame di atti distinti o di comportamenti successivi rispetto a quello entro il quale la costituzione doveva avvenire.

p.2.4. In questa prospettiva, premesso il rilievo che, essendo il controllo sulla procedibilità demandato alla prima udienza di trattazione – siccome previsto dall’art. 350 c.p.c., comma 2, – non risulta conferente l’osservazione della decisione sopra ricordata che la costituzione con la copia non notificata mette il giudice nell’impossibilità di controllare la procedibilità sotto il profilo della effettiva proposizione dell’impugnazione: invero, atteso che il controllo dev’essere fatto alla detta udienza, si comprende come la constatazione solo in essa, della conformità della copia (la velina), con cui l’appellante si è costituito, all’originale che egli produca in quella udienza, consente di ritenere che lo scopo della costituzione quoad deposito dell’originale della citazione notificata, mancante al momento della costituzione, ma non prescritta a pena di improcedibilità, risulti raggiunto attraverso la constatazione che la copia è conforme all’originale.

Solo in caso di difformità dall’originale oppure in caso di mancato deposito della copia notificata senza alcuna richiesta o allegazione di ragioni giustificative di una richiesta di rinvio per produrla, emerge che la costituzione mediante il deposito della copia è priva di rispondenza con la vocatio in ius siccome espressa nella citazione notificata e risulta, quindi, che riguardo a quest’ultima nessuna costituzione tempestiva vi è stata. L’appello, per come incardinato presso il giudice d’appello risulta, pertanto, in questo caso improcedibile. Il fatto che l’improcedibilità emerga solo alla prima udienza di trattazione, essendo questo il momento in cui il relativo controllo dev ‘essere fatto, non contraddice del resto l’indisponibilità della sanzione da parte del giudice in essa espressa, perchè il giudice ne rileva le condizioni alla prima udienza di trattazione, ma con riferimento al momento entro il quale l’adempimento previsto a pena di improcedibilità – cioè la costituzione e non le sue forme – doveva compiersi.

D’altro canto, alla prima udienza di cui all’art. 350 c.p.c., comma 2, (e, comunque, alla prima udienza del giudizio davanti al tribunale in composizione monocratica, giudice dell’appello sulle sentenze dei giudici di pace), poichè la lege prevede che il controllo della regolarità della costituzione e, quindi, delle ritualità delle sue forme, debba essere compiuto in essa, il giudice, di fronte alla mancata produzione in cancelleria nelle more fra l’iscrizione tempestiva con la velina e l’udienza oppure alla mancata produzione direttamente in udienza, potrà a questo punto, nell’esercizio dei suoi poteri di direzione del procedimento ai sensi dell’art. 175 c.p.c., comma 1, e particolarmente del sollecito svolgimento del processo, assegnare un termine alla parte appellante a norma dell’art. 152 c.p.c., sì da scongiurare manovre dilatorie, nel quale caso al termine – in quanto ordinatorio e fissato dal giudice – sarà applicabile il regime di cui all’art. 154 c.p.c.".

Nella specie parte resistente ebbe a depositare l’originale, come ha precisato nel controricorso con riscontro ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6. E, quindi, le argomentazioni sopra riassunte sono pienamente idonee ad evidenziare l’infondatezza del motivo.

p.4. I residui motivi del ricorso principale pertengono al merito della decisione impugnata.

p.4.1. Con il terzo motivo si lamenta "violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 2236 e 1176 c.c., e L. 16 febbraio 1913, n. 89, artt. 1, 28 e 47, (Legge notarile)".

Vi si censura la parte della motivazione della sentenza impugnata nella quale la Corte capitolina – dopo avere motivato l’accoglimento dell’appello nella parte conclusiva del paragrafo 7.3. (alle pagine 7- 9) con l’assunto che nella specie si doveva escludere che il notaio avesse avuto l’onere di informare il B. sulle condizioni dell’immobile riguardo all’abitabilità, in quanto il medesimo si sarebbe dovuto avvedere della carenza dell’abitabilità – ha, nel paragrafo 7.4. escluso in generale l’esistenza in capo al notaio rogante di un obbligo di verificare l’abitabilità dell’unità immobiliare e, quindi, di informare al riguardo la parte rogante.

L’illustrazione del motivo inizia con l’addebitare alla sentenza impugnata di essersi posta in contrasto con l’orientamento della dottrina e della giurisprudenza di merito e di legittimità, là dove avrebbe ritenuto nella sostanza che il notaio rogante non avrebbe alcun dovere di verificare le qualità giuridiche sostanziali dell’immobile oggetto di compravendita, la sussistenza della sua regolarità urbanistica, quella del certificato di abitabilità e la sussistenza di iscrizione pregiudizievoli.

Si assume che nella specie il tenore dell’atto notarile era stato tale da indurre nel ricorrente il legittimo affidamento di acquistare una "vera unità abitativa, regolare sotto il profilo urbanistico".

Il notaio aveva, infatti, certificato: a) all’art. 1 del rogito che si trattava di "unità abitativa facente parte della Palazzina B al piano quinto (sottotetto)", edificata giusta ben identificate licenze edilizie; b) sempre nell’art. 1 che erano state rilasciate dichiarazioni di abitabilità relative alle due palazzine cui si riferivano le dette licenze; c) nell’art. 3 che il 13 settembre 1969 era stato trascritto un atto d’obbligo; d) dal contenuto di questo atto di obbligo emergeva che la società proprietaria della palazzina "B" (fusasi per incorporazione con la Patrim s.r.l.) si era obbligata verso il Comune di Roma a mantenere permanentemente ed irrevocabilmente la destinazione d’uso al piano servizi del locale stenditoio e, pertanto, risultava da esso che l’unità abitativa oggetto della compravendita era stata trasformata in abitazione in spregio a detto atto d’obbligo e, quindi, che non poteva avere i requisiti per l’abitabilità.

Di tanto il notaio avrebbe dovuto, in ossequio anche al disposto dell’art. 1 del Codice deontologico, dare al ricorrente "una chiara percezione".

La negazione dell’obbligo del notaio di verificare l’abitabilità, cui è pervenuta la Corte d’Appello, si sarebbe posta, invece, in contrasto con l’asserto di questa Corte, di cui alla sentenza n. 1426 del 1978, che avrebbe affermato la responsabilità professionale del notaio nel caso di vendita di immobile sprovvisto di abitabilità e con le sentenze nn. 5946 del 1999, n. 5158 del 2011 e 10072 del 2010 circa l’obbligo di espletare le visure ipotecarie, ancorchè, peraltro, nessun indagine occorresse nel caso di specie, perchè dall’atto di obbligo, che il notaio non poteva non essere tenuto a leggere con obbligo di informare del suo contenuto le parti.

In chiusura dell’esposizione, pur ritenendosi che la circostanza emergesse dall’essere stato dato della abitabilità nell’atto, si fa anche riferimento alla circostanza che il ricorrente aveva chiesto al notaio che essa risultasse garantita e che aveva all’uopo dedotto prova per testi in primo grado reiterandola in appello. Tale prova era stata ritenuta superflua dal giudice di primo grado e la Corte territoriale aveva omesso di decidere su di essa nell’erroneo presupposto che il B. fosse al corrente della mancanza dell’abitabilità.

p.4.2. Con il quarto motivo si denuncia "violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., n. 4, circa l’ammissibilità della domanda proposta dal notaio ex art. 1227 c.c., e conseguente nullità della sentenza, essendo stata posta a base della medesima".

Vi si lamenta che la sentenza impugnata avrebbe riformato erroneamente quella di primo grado "accogliendo la domanda dell’appellante formulata ex art. 1227 c.c.", ancorchè formulata inammissibilmente soltanto nelle note ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 5, e, quindi, come rilevato dal ricorrente nella memoria di replica, come domanda nuova, come tale inammissibile e sulla quale era stato rifiutato di accettare il contraddittorio.

p.4.3. Con il quinto motivo si deduce "violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al combinato disposto degli artt. 1176 e 2236 c.c.".

Vi si torna a criticare la sentenza impugnata là dove ha ritenuto che il B. fosse esclusivo responsabile del danno sofferto perchè la mancanza di abitabilità emergeva per le stesse caratteristiche dell’unità immobiliare. La critica è svolta, sostenendo che nella specie le emergenze dell’atto rogato e del riferimento all’atto d’obbligo paleserebbero che la responsabilità del notaio sarebbe stata esclusa nonostante l’opera prestata non avesse riguardato un caso di speciale difficoltà ai sensi dell’art. 2236 c.c., in relazione all’art. 1176, comma 2. Ciò, in quanto, se il notaio avesse considerato le risultanze dell’atto di obbligo ed il suo contenuto di trascrizione di atto pregiudizievole non avrebbe dovuto inserire nell’art. 3 del contratto la clausola di garanzia della libertà dell’immobile da trascrizione pregiudizievoli, ad eccezione dell’ipoteca cui fece riferimento. In sostanza si sostiene che la situazione di mancanza dell’abitabilità era facilmente riscontrabile dal notaio in base alla stessa documentazione richiamata nell’atto.

p.4.4. Con il sesto motivo si denuncia "illegittimità della sentenza per contraddittorietà e/o errata motivazione della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5", assumendosi che del tutto contraddittoriamente la sentenza impugnata avrebbe ritenuto che la mancanza di abitabilità potesse essere percepita dal ricorrente, pur privo di cognizioni specifiche, ed escluso invece che fosse percepibile dal notaio, perchè egli si sarebbe dovuta valere di professionisti quali geometri, architetti o ingegneri.

p.4.5. Con il settimo motivo si lamenta "violazione e falsa applicazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all’art. 112 c.p.c.", là dove la sentenza impugnata avrebbe condannato con ultrapetizione il ricorrente alle spese di primo e secondo grado nei confronti della Lloyd’s of London nonostante che essa avesse chiesto la conferma della sentenza di primo grado.

p.4.6. Con l’ottavo motivo si denuncia "violazione e falsa applicazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omessa ammissione di richieste istruttorie su un punto decisivo della controversia, posto a base della sentenza", sotto il profilo che erroneamente la Corte territoriale non avrebbe dato ingresso alla prova testimoniale articolata dal ricorrente per dimostrare che egli aveva chiesto al notaio se il bene aveva regolarità urbanistica e se aveva l’abitabilità, ricevendone assicurazione. Tale prova era stata ritenuta implicitamente superflua dal primo giudice, ma su di essa la Corte territoriale avrebbe dovuto provvedere.

p.5. E’ logicamente preliminare l’esame del quarto motivo, poichè esso censura la legittimità in rito dell’impianto motivazionale della sentenza impugnata nel punto in cui ha escluso la responsabilità del notaio.

p.5.1. Il motivo è inammissibile per violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, in quanto parte ricorrente ha omesso di riprodurre la parte dell’atto processuale avversario, cioè la memoria ai sensi dell’art. 183, comma 5, nella quale sarebbe stata formulata la pretesa domanda nuova e non ha neppure riprodotto indirettamente il pertinente contenuto indicando con opportuni riferimenti, come la pagina e le righe contenenti quanto indicato, dove riscontrarlo nella detta memoria, in modo da evitare che sia la Corte a dover procedere, con inammissibile opinabilità e rilevazione dall’onere del ricorrente in cassazione di individuare i fatti costitutivi del motivo di ricorso, alla sua individuazione, con il rischio che quest’ultima non risponda a quando divisato in mente sua dal ricorrente.

Tali indicazioni, in uno dei modi alternativi appena evidenziati, sarebbero state necessarie, in quanto parte del contenuto necessario del requisito di ammissibilità dell’art. 366 c.p.c., n. 6, norma che costituisce il precipitato normativo del principio di c.d.

autosufficienza dell’esposizione del motivo di ricorso per cassazione, già individuato – con scontata applicazione del principio della necessaria idoneità dell’atto processuale al raggiungimento dello scopo e correlato restringimento della sua operatività al momento di proposizione dell’atto-ricorso o al più alla sua reiterazione, se possibile ed avvenuta nel termine di impugnazione (art. 387 c.p.c.) – dalla giurisprudenza di questa Corte.

La rilevanza dell’art. 366, n. 6, per gli atti processuali è stata recentemente confermata da Cass. sez. un. n. 22726 del 2011, là dove si è occupata del diverso requisito di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4.

p.5.2. Il motivo – se non sussistesse la causa di inammissibilità di cui all’art. 366, n. 6, – impingerebbe anche in quella di cui all’art. 360 bis c.p.c., n. 1, (con le conseguenze di cui a Cass. sez. un. n. 19051 del 2010 già sopra citata), atteso che omette di confrontarsi con la giurisprudenza di questa Corte (ex multis si veda Cass. n. 6529 del 2011), la quale esclude – ferma la necessità che i fatti fondatori siano allegati ed introdotti dalla parte che l’applicazione dell’art. 1227 c.c., comma 1, (verosimilmente evocato dal ricorrente, dato che egli, non diversamente dalla sentenza impugnata, omette di specificare a quale dei due commi della norma intenda riferirsi) sfugge al principio dell’eccezione di parte e, quindi, correlativamente, anche a quello della domanda, nel senso che, così come – perchè il giudice dia rilievo ad una situazione riconducibile a detta norma nello scrutinare la domanda risarcitoria non è necessaria un’attività di eccezione c.d. in senso stretto della parte convenuta – allo stesso modo deve ritenersi che, se la parte convenuta proceda alla rilevazione di tale situazione e solleciti il giudice a darle rilievo la sua richiesta non sia una domanda nuova, bensì soltanto un’attività di rilevazione dell’efficacia giuridica di fatti che il giudice avrebbe potuto svolgere di sua iniziativa.

p.6. L’esame del terzo, del quinto e del sesto motivo può procedere congiuntamente, perchè essi sono diretti ad evidenziare che in relazione al caso di specie è errata l’esclusione della responsabilità professionale ex contractu del notaio per essere stato invece il ricorrente l’esclusiva causa del danno lamentato, sotto il profilo che egli si sarebbe dovuto avvedere, per le condizioni oggettive della stessa, che il rogito lo portava ad acquistare un’unità immobiliare priva di licenza di abitabilità.

p.6.1. I detti motivi sono tutti ammissibili ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6, perchè rispettano il requisito di cui a tale norma, giacchè l’esposizione del primo reca sia l’individuazione del contenuto dei documenti sui quali essi si fondano, sia del luogo in cui in questo giudizio di legittimità sono rinvenibili. Tali elementi possono e debbono utilizzarsi anche per lo scrutinio degli altri due motivi.

Infondatamente parte resistente ha contestato l’ammissibilità del quinto motivo per difetto di autosufficienza, assumendo che tale requisito deve sussistere con riferimento ad ogni motivo. Se con tale deduzione (che va intesa come evocativa di una inosservanza dell’art. 366 c.p.c., n. 6, attesa la riconducibilità del principio di autosufficienza a detta norma, per come s’è già detto) si è voluto rimarcare che nell’illustrazione del quinto motivo il ricorso fa riferimento ai documenti già evocati nel terzo motivo senza riprodurle il contenuto e rinnovare l’indicazione circa la loro produzione, presenti nell’ambito dell’illustrazione di quello, si deve, infatti, rilevare quanto segue.

Il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, quale requisito di contenuto-forma del ricorso per cassazione, è riferito al ricorso, ma, evidentemente, potendo il ricorso articolarsi in più motivi, deve esistere in relazione a ciascuno di essi, se ciascun motivo si fondi su documenti o atti processuali identici o parzialmente identici. Tuttavia, se l’indicazione del documento o dell’atto viene fatta nella illustrazione di un solo motivo e non negli altri deve ritenersi che l’applicazione del principio dell’idoneità dell’atto processuale al raggiungimento dello scopo rende irrilevante la circostanza che l’indicazione specifica non sia stata ripetuta, in quanto, essendo il motivo parte dell’atto ricorso, il requisito si può ritenere ottemperato anche per gli altri motivi, per il tramite dell’indicazione contenuta a proposito di un solo motivo.

L’applicazione del principio, espresso nel sistema delle nullità processuali di cui all’art. 156 e ss., infatti, in questo caso non è impedita dalla qualificazione del requisito come previsto a pena di inammissibilità, giacchè avviene con rifermento ed all’interno dello stesso atto per cui il requisito è previsto a pena di inammissibilità e con il rispetto – all’evidenza – del requisito temporale di compimento dell’atto.

Viene, dunque, in evidenza il principio per cui quando la legge processuale civile prevede un requisito di forma a pena di inammissibilità, la tendenziale esclusione dell’applicabilità automatica dei principi regolatori delle nullità di cui all’art. 156 c.p.c., e, quindi, dell’attribuzione al giudice del dovere di valutare la legittimità dell’atto sulla base del principio della idoneità di esso, pur carente delle forme, al raggiungimento dello scopo che secondo la legge deve assolvere, comporta che esso non possa essere applicato, ricorrendo – come invece è fisiologico nel sistema delle nullità – ad elementi aliunde rispetto all’atto per cui il requisito è previsto e comunque al di fuori del momento entro il quale Tatto doveva compiersi, ma non impedisce che esso si possa applicare ricorrendo all’atto nel suo complesso. La sua applicazione all’interno dell’atto nel suo complesso è, infatti, compatibile con la sanzione di inammissibilità, che riguarda la parte dell’atto in quanto inserita in esso. E, d’altro canto, la valutazione di ammissibilità resta conchiusa nel limite temporale di compimento dello stesso atto complesso.

Ne consegue che il quinto motivo ottempera al requisito in discorso per il tramite delle indicazioni fornite dal ricorrente nell’illustrazione del terzo motivo.

p.6.2. Ciò premesso, l’esame dei tre motivi in questione giustifica la conclusione che la sentenza impugnata ha errato nell’escludere la responsabilità professionale del notaio qui resistente. L’errore si configura sia là dove ha considerato come causa di esclusione della responsabilità del notaio il fatto che il ricorrente avrebbe dovuto avvedersi della mancanza nell’unità immobiliare della c.d.

abitabilità (requisito operante sul piano amministrativo all’epoca dell’atto rogato dal notaio) e, quindi, dell’esistenza della situazione dannosa, sia là dove – con motivazione aggiuntiva ed ulteriore – ha nella specie ritenuto operante comunque in generale – cioè senza distinguere in relazione al contenuto ed alle modalità di redazione dell’atto e, quindi, caso per caso – un principio secondo cui al notaio non competerebbe in generale di verificare l’abitabilità (ed ora l’agibilità, secondo il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 24) dell’unità immobiliare riguardo alla quale debba rogare un atto di compravendita.

p.6.2.1. Sotto il primo profilo il criterio di giudizio che ha applicato la Corte territoriale, indipendentemente dalla correttezza della valutazione della correttezza della riconoscibilità da parte del ricorrente dell’esistenza di una situazione di mancanza di abitabilità in ragione dell’altezza media della stessa e della sua non corrispondenza con quanto al riguardo prescriveva la normativa, risulta palesemente erroneo ed ha dato luogo ad un vizio di sussunzione della fattispecie concreta per come ipotizzata da detta Corte, sotto le regole che governano la responsabilità del notaio che roghi un atto di trasferimento di un’unità immobiliare. Si è trattato, quindi, di vizio riconducibile all’art. 360, n. 3, per violazione dell’art. 2236 c.c., e delle altre norme rilevanti per individuare l’ambito della prestazione professionale del notaio e non di un vizio relativo alla ricostruzione della quaestio facti. Onde la sua prospettazione non sollecita questa Corte ad un inammissibile accertamento in fatto, come ha ipotizzato parte resistente.

Fermo quanto sopra, il Collegio rileva che, poichè lo svolgimento di una prestazione professionale e segnatamente di quella del notaio nell’economia del rapporto di prestazione d’opera deve necessariamente avvenire in funzione dell’assicurazione della consecuzione dello scopo che deve assicurare l’atto rogato e, quindi, nel caso di vendita immobiliare del trasferimento di esso con le caratteristiche che le parti e segnatamente il cliente del notaio hanno contemplato e che la mediazione della prestazione d’opera del notaio deve trasfondere nell’atto, il solo fatto che il cliente sia stato in condizioni tali da dover conoscere, secondo l’ordinaria diligenza del quisque de populo od anche una diligenza quam suis, che una di quelle caratteristiche mancasse, non può valere di per sè ad esentare il notaio da responsabilità, se la mancanza di quella caratteristica sia o debba essere conosciuta o conoscibile da parte del notaio secondo la diligenza impostagli dalla prestazione che è chiamato a rendere, specie se si tratti di una prestazione che non presenti la necessità di risolvere i "problemi tecnici di speciale difficoltà" evocati dall’art. 2236 c.c..

Anche in tal caso, cioè quando la situazione che rende in parte inidoneo l’atto rogato a produrre gli effetti voluti dalle parti per come trasfusi in esso, il notaio è, infatti,tenuto, nel quadro dell’obbligazione assunta nel senso di rogare un atto destinato a produrre determinati effetti ed anche in forza di quei doveri di protezione (se si vuole di consiglio, come è invalso l’uso di dire con riguardo alla specifica prestazione del notaio) che il principio della buona fede impone nell’ambito dei rapporti obbligatori, a rendere edotto e, quindi, ad avvisare il cliente che l’atto che gli si chiede di rogare non potrà assicurare taluno degli effetti che, secondo la volontà che le parti concludenti esterneranno per il tramite dell’attività del notaio, il negozio dovrebbe produrre.

Il notaio non può confidare che ciò che lui ha percepito nell’ambito della sua particolare qualificazione appaia percepibile anche dal cliente. Ed anzi proprio nei casi nei quali vi sarebbe da aspettarsi che il quivis de populo debba essere consapevole della situazione ostativa o diminutiva degli effetti divisati, l’ambito dell’obbligazione del notaio gli deve imporre di sollecitare il cliente a riflettere sulla situazione stessa.

Occorre, in sostanza, in ottemperanza al contenuto della prestazione professionale, che il notaio acquisisca con sicurezza che la percezione di quella situazione vi sia da parte del cliente. Se egli non ha questa certezza, i doveri inerenti l’obbligo relativo alla sua prestazione d’opera gli impongono di informare il cliente. Solo a seguito dell’informativa, se il cliente insistesse per la conclusione del negozio nonostante l’avviso espressogli dal notaio, quest’ultimo potrà rogare l’atto (naturalmente se esso non è vietato dalla legge) comunque, facendosi esentare da responsabilità, cioè dando atto che esso viene concluso nella consapevolezza del cliente ed in genere delle parti della inidoneità ad assicurare l’effetto di cui trattasi.

L’obbligo del notaio di assicurare al cliente tutte le informazioni sulla piena idoneità dell’atto a produrre gli effetti contemplati non resta eliso dall’esistenza di una situazione contraria ad essa, perchè ipoteticamente essa sarebbe percepibile dal cliente secondo una media diligenza (ma, v’è da ritenere, anche – non è questo il caso della fattispecie che si giudica – in presenza di una diligenza quam suis), perchè, se così fosse, l’attività di prestazione d’opera del notaio di cui il cliente ha fatto richiesta in contrasto con quella situazione e, quindi, in funzione della realizzazione di effetti che invece non si possono verificare proprio per la sua esistenza, non sarebbe quella dedotta nel contratto di prestazione d’opera, ma finirebbe per essere un’altra, cioè un’attività non diretta a fornire la prestazione richiesta e ciò nella piena consapevolezza da parte del notaio di tale alterità. Con evidente contrasto con i principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c..

p.6.2.2. Alla stregua dei principi evidenziati si deve ritenere che la Corte territoriale abbia errato nel reputare che la percepibilità dell’inesistenza di una licenza di abitabilità dell’unità immobiliare da parte del ricorrente integrasse automaticamente esenzione di responsabilità del notaio, impropriamente considerandola come causa di esclusione del danno risarcibile ai sensi dell’art. 1227 c.c..

Figura normativa evocata, peraltro, in modo generico ed in ogni caso improprio, dato che essa: a) quanto all’ipotesi del comma 1, pertiene all’ipotesi di concorso nella causazione del danno evento da parte del debitore e del creditore e non all’ipotesi di causazione del danno a se stesso da parte del solo creditore, come invece risponde alla sostanza della decisione adottata da quella Corte; b) quanto all’ipotesi del secondo comma perchè essa si riferisce ai c.d. danni conseguenza di cui il debitore non deve rispondere, perchè, fermo l’inadempimento (o l’illecito), il creditore li avrebbe potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, mentre la prospettiva seguita dalla Corte capitolina ha escluso l’inadempimento contrattuale del notaio, reputando che la conclusione dell’atto nei termini in cui venne concluso e, quindi, il danno, sarebbe stata evitabile da parte del ricorrente.

L’erroneità della sentenza impugnata emerge per le seguenti ragioni.

Nel caso di specie, fermo il dato storico che al momento del rogito mancava la licenza di abitabilità, pur concedendo che il ricorrente dovesse esserne consapevole secondo un ordinario criterio di diligenza (secondo il ragionamento fatto dalla Corte capitolina e, ripetesi prescindendo dalla sua correttezza, per il vero più che dubbia, posto che esige una diligenza nel cliente quìvis de populo si potrebbe dire discendente da cognizioni giuridiche specifiche), risulta certamente dal tenore del rogito e degli atti in esso richiamati dal notaio, dei quali il suo dovere di adempiere la prestazione professionale esigeva la conoscenza, che il notaio – se si vuole proprio per la sua qualificazione professionale e, quindi, a maggior ragione – avrebbe dovuto percepire Egli stesso che l’oggetto della compravendita non poteva avere la licenza di abitabilità e, quindi, non poteva avere un requisito per trasferire un’unità abitativa considerabile come tale sul piano amministrativo. Oppure che vi era una situazione di gravissimo dubbio sul suo possesso. E, dunque, il notaio avrebbe dovuto avere piena consapevolezza che l’atto rogato non poteva essere pienamente idoneo a realizzare l’affare nei termini voluti dalle parti. Termini che essendo diretti al trasferimento di un’unità abitativa non potevano non comprendere l’esistenza di tale qualità sul piano amministrativo.

p.6.2.3. In particolare, dagli atti prodotti nelle fasi di merito e depositati in questa sede e riguardo ai quali è stata fornita l’indicazione specifica richiesta dall’art. 366, n. 6, nell’ambito dell’illustrazione del terzo motivo, risulta quanto segue:

a) l’art. 1, del rogito, prodotto come documento 59 dal ricorrente, definisce l’oggetto del trasferimento come "unità abitativa facente parte della Palazzina B, posta al quinto piano sottotetto", dopo che preliminarmente lo stesso articolo la definisce come porzione immobiliare facente parte del complesso immobiliare sito in (OMISSIS) e composto da due fabbricati, denominati Palazzina "A" e Palazzina "B";

b) sempre l’art. 1 reca quale dichiarazione della parte venditrice "che in data 25 settembre 1969 sono state rilasciate dichiarazioni di abitabilità n. 689 quanto al villino A e n. 690 quanto al villino B";

c) l’art. 3, nel richiamare come oggetto di comune accordo fra le parti il trasferimento di quanto contenuto negli atti di provenienza che si dicono "qui integralmente richiamati e trascritti", lo fa, per quello che interessa, con particolare riferimento ad atti di obbligo stipulati a suo tempo verso il Comune di Roma e segnatamente quello del "13 settembre 1969 ai numeri 78909/54153 di formalità quanto allo atto a rogito notaio Napoleone di Roma in data 11 settembre 1969 repertorio n. 37685/9213, registrato il 13 settembre 1969 al n. 11148 serie F vol. 1184";

d) l’art. 4, nella lett. b) dava atto che sia la venditrice che l’acquirente "dichiarano che i locali trasferiti sono destinati ad uso abitazione non di lusso";

e) l’art. 6 raccoglieva la dichiarazione dell’amministratrice della venditrice che le opere relative al compendio immobiliare di cui faceva pare la porzione compravenduta erano state iniziate prima del 1 settembre 1967 "e che successivamente non sono state apportate alla stessa modifiche tali che avrebbero richiesto ulteriore licenza, autorizzazione o concessione".

Ora, il riferimento contenuto nell’art. 3 al fatto che le parti si davano atto di comune accordo che il trasferimento avveniva con quanto contenuto negli atti di provenienza e particolarmente nell’atto del 13 settembre 1969 onerava il notaio di riscontrare, in funzione dell’assicurazione alle parti dell’effettività del negozio voluto, di controllare se l’oggetto di quell’atto fosse compatibile con i termini del divisato trasferimento di un’unità abitativa immobiliare e ciò particolarmente tenendo conto di quanto stabilito al successivo art. 6.

Ebbene, parte ricorrente ha prodotto anche in questa sede (come documento n. 7) il detto atto d’obbligo, dal quale si evince in essa la costrurtrice si era impegnata verso il Comune "a mantenere permanentemente ed irrevocabilmente la destinazione d’uso al piano servizi dei due locali stenditoio per ognuno dei villini A e B" così come riportate nelle planimetrie allegate alla domanda di certificato di abitabilità n. protocollo 44685 del 23 ottobre 1967.

Ha pure prodotto come documento 8 la dichiarazione di abitabilità n. 690 citata nel rogito, dalla quale risulta la destinazione del quinto piano fuori terra, a partire da quello rialzato, indicato come piano "servizi" ad uso "stenditoi coperti" e viene dichiarato che "è stato presentato atto di impegno per i locali al piano servizi".

Ebbene, poichè nel rogito l’unità immobiliare compravenduta era descritta, come s’è visto, quale unità abitativa posta al quinto piano sottotetto e ne era evidenziata la composizione in modo corrispondente, il notaio era perfettamente in grado di percepire, in base agli atti richiamati nel rogito, che la situazione della stessa per come descritta collideva o comunque non risultava consonante con il detto atto d’obbligo, richiamato come ancora effettivo nell’art. 3. Ciò tenuto conto che il vincolo imposto dall’atto d’obbligo era riferito a tutto il quinto piano: nella dichiarazione di licenza ciò emerge in modo evidente, dato che la destinazione è riferita a tutto il piano "servizi", che consta di due vani. Onde non vi potevano essere dubbi sull’estensione dell’obbligo anche all’unità compravenduta. Il notaio avrebbe, dunque, dovuto sollecitare l’attenzione delle parti stipulanti su detta situazione e palesare quella mancanza di consonanza. Dopo di che si sarebbe potuta aprire tra le parti la relativa discussione e se del caso sarebbe potuta emergere l’eventuale volontà del ricorrente di stipulare nonostante il mancato chiarimento sull’esistenza dell’abitabilità o nonostante addirittura la certezza che essa mancava. E di tutto ciò il notaio avrebbe dovuto, naturalmente, dare conto, a fini di esenzione della sua responsabilità, nell’atto.

L’avere, invece, il notaio dato corso alla stipulazione senza provvedere nei sensi indicati evidenzia al contrario che l’atto è stato stipulato, in ragione delle risultanze degli atti in esso richiamati, in una situazione nella quale vi erano forti dubbi che lo scopo di trasferire un’unità abitativa tale anche sul piano amministrativo ed anzi sul piano dello specifico obbligo risultante come peso imposto sull’immobile, potesse realizzarsi effettivamente.

E’ stata, dunque, erroneamente rifiutata la sussunzione della fattispecie concreta sotto l’ambito della responsabilità professionale del notaio ai sensi dell’art. 2236 c.c., nei confronti del qui ricorrente.

E l’errore risulta evidente anche con riguardo alla motivazione di cui al paragrafo 7.4. della sentenza impugnata, perchè, indipendentemente dalla validità del principio proclamato dalla sentenza impugnata, che cioè dal notaio rogante non sarebbe mai esigibile l’indagine e, quindi, la conoscenza sull’esistenza del requisito della c.d. abitabilità dell’unità immobiliare oggetto dell’atto (questione risolta implicitamente, ma senza particolare approfondimento, in senso opposto dalla risalente Cass. n. 1426 del 1978 e sulla quale non merita soffermarsi, salvo dire che il principio non è predicabile come generale, occorrendo distinguere in relazione al caso di specie), nella fattispecie lo stesso tenore dell’atto rogato evidenziava che il notaio avesse tutti gli elementi per percepire la mancanza dell’abitabilità. Si che il notaio ha rogato un atto con un contenuto che, in base agli stessi documenti richiamati, non era idoneo a trasferire un immobile dotato del requisito de quo, pur supposto dalle parti secondo il tenore dell’atto stesso.

Le svolte considerazioni intendono dare continuità, con riferimento al caso di specie, ad insegnamenti già espressi dalla giurisprudenza di questa Corte.

Al riguardo, può ricordarsi che è stato così ritenuto: "Per il notaio richiesto della preparazione e stesura di un atto pubblico di trasferimento immobiliare, la preventiva verifica della libertà e disponibilità del bene e, più in generale, delle risultanze dei registri immobiliari attraverso la loro visura, costituisce, salvo espressa dispensa per concorde volontà delle parti, obbligo derivante dall’incarico conferitogli dal cliente e, quindi, fa parte dell’oggetto della prestazione d’opera professionale, poichè l’opera di cui è richiesto non si riduce al mero compito di accertamento della volontà delle parti, ma si estende a quelle attività preparatorie e successive necessarie perchè sia assicurata la serietà e certezza dell’atto giuridico da rogarsi ed, in particolare, la sua attitudine ad assicurare il conseguimento dello scopo tipico di esso e del risultato pratico voluto dalle parti partecipanti alla stipula dell’atto medesimo. Conseguentemente, l’inosservanza dei suddetti obblighi accessori da parte del notaio da luogo a responsabilità ex contractu per inadempimento dell’obbligazione di prestazione d’opera intellettuale, a nulla rilevando che la legge professionale non contenga alcun esplicito riferimento a tale peculiare forma di responsabilità, e, stante il suddetto obbligo, non è ontologicamente configurabile il concorso colposo del danneggiato ex art. 1227 c.c." (Cass. n. 24733 del 2007).

E che anteriormente, si è rilevato che: "L’opera professionale di cui è richiesto il notaio non si riduce al mero compito di accertamento della volontà delle parti e di direzione nella compilazione dell’atto, ma si estende alle attività preparatorie e successive perchè sia assicurata la serietà e la certezza degli effetti tipici dell’atto e del risultato pratico perseguito dalle parti; pertanto, il notaio che abbia la conoscenza o anche il solo sospetto di un’iscrizione pregiudizievole gravante sull’immobile oggetto della compravendita deve informarne le parti, quando anche egli sia stato esonerato dalle visure, essendo tenuto comunque all’esecuzione del contratto di prestazione d’opera professionale secondo i canoni della diligenza qualificata di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, e della buona fede" (Cass. n. 5158 del 2001).

p.7. La sentenza impugnata dev’essere, dunque, cassata, in accoglimento del terzo, quinto e sesto motivo per quanto di ragione, là dove ha escluso in confronto del ricorrente l’inadempimento del notaio alla prestazione professionale dedotta nel contratto di prestazione d’opera. La controversia dovrà essere decisa dal giudice di rinvio nel presupposto di tale responsabilità.

p.8. Restano assorbiti il settimo e l’ottavo motivo.

p.9. L’esame del ricorso della Onlus resta assorbito.

E’, infatti, principio consolidato che "Il ricorso per cassazione proposto in via autonoma e principale dall’interveniente adesivo dipendente va esaminato come ricorso incidentale adesivo rispetto a quello della parte adiuvata, da intendersi quale ricorso principale, posto che il predetto interveniente – cui è preclusa l’impugnazione in via autonoma della sentenza sfavorevole alla parte adiuvata, salvo che per la statuizione di condanna alle spese giudiziali pronunziata nei suoi confronti – conserva in tal modo la sua posizione processuale secondaria e subordinata, potendo aderire all’impugnazione della parte adiuvata. (Cass. n. 17644 del 2007).

Ne consegue che il ricorso incidentale avrebbe potuto essere esaminato solo nei limiti in cui è adesivo rispetto a quello principale, restando escluso l’esame dei motivi di doglianza ulteriori in esso proposti.

p.10. E’ disposto rinvio alla Corte d’Appello di Roma, che deciderà con diversa sezione ed in diversa composizione anche sulle spese del giudizio di cassazione e si conformerà alla massima di specie risultante dalle sopra esposte considerazioni.

P.Q.M.

La Corte, provvedendo sui ricorsi riuniti, rigetta il primo motivo del ricorso principale e dichiara inammissibili il secondo ed il quarto. Accoglie il terzo, il quinto ed il sesto motivo per quanto di ragione. Dichiara assorbiti il settimo e l’ottavo. Dichiara assorbito il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma, comunque in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile, il 30 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 21 giugno 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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