Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 22-06-2012, n. 10425

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte d’appello di Roma, rigettando l’appello proposto da S.E.B. contro la Rullo Te.E.R. s.r.l, confermava la sentenza di primo grado del Tribunale della stesse sede, con cui erano state accolte solo parzialmente le domande proposte dal medesimo lavoratore, in relazione al rapporto di lavoro intercorso tra le parti, secondo il ricorrente, dal 9.10.1995 al 24.11.1999 e secondo il medesimo conclusosi per effetto di un licenziamento orale.

La Corte di appello, dopo avere confermato la esclusione, per difetto di prova sufficiente, della sussistenza del rapporto di lavoro prima del 10.9.1997, riteneva altresì non adeguatamente provati i presupposti di applicabilità del CCNL per le aziende metalmeccaniche private. Rilevava che l’applicazione di tale contratto – a cui il giudice di primo grado aveva fatto riferimento solo per il dato relativo alla paga prevista per gli operai comuni del 6^ livello – era stata contestata dalla convenuta, con la memoria di costituzione in primo grado e che non poteva essere intesa in senso ammissivo dell’integrale applicazione della disciplina contrattuale neanche l’affermazione del legale rappresentante della convenuta nell’interrogatorio libero circa il (probabile) riferimento del ragioniere incaricato delle paghe ai minimi retributivi contrattuali.

La Corte escludeva poi il diritto alla richiesta maggiorazione per lavoro straordinario, nonostante la prestazione di un orario di 44,5 ore settimanali – come si doveva ritenere facendo applicazione del principio di non contestazione -, data l’applicabilità della regola di cui al R.D.L. n. 692 del 1923, sulla misura minima (del 10%) della maggiorazione della retribuzione per lo straordinario solo al lavoro straordinario legale, ravvisabile in caso di superamento dell’orano di otto ore giornaliere o 48 settimanali.

Quanto alle modalità di conclusione del rapporto, la Corte attribuiva rilievo in particolare al fatto che la società appellata con lettera dell’8.11.1999 aveva offerto al dipendente asseritamente assente dal 31.7.1999 di riprendere la propria attività entro otto giorni dalla ricezione della lettera stessa e che il lavoratore, ammalatosi durante il decorso di tale termine, non si era recato presso il posto di lavoro per prendere servizio neanche dopo la cessazione della malattia, come era pacifico. Ne il lavoratore aveva fornito prova adeguata della circostanza da lui affermata di essersi comportato in tale modo perchè nel frattempo gli era stato intimato per telefono di non tornare al lavoro in quanto il posto di lavoro non era più disponibile.

Il lavoratore ricorre per cassazione con tre motivi. La società intimata non si è costituita.

Motivi della decisione

1.1. Il primo motivo, denunciando violazione dell’art. 2070 c.c., censura il rigetto della richiesta di applicazione del contratto collettivo nazionale. Accennato all’obbligo di assunzione dei lavoratori extracomunitari con applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, si osserva che nel senso di tale applicazione deponevano: le modalità di redazione della busta paga; la mancanza di una contestazione diretta dell’applicazione del contratto collettivo da parte della convenuta, che si era limitata a dedurre in primo grado che la società non era iscritta all’associazione degli industriali; la confessione della corresponsione della retribuzione contrattuale anche quanto a festività, ferie e quattordicesima mensilità; il fatto che il relativo motivo di appello non era stato contestato con la memoria di costituzione nel relativo grado del giudizio.

1.2. Il secondo motivo, denunciando violazione della L. n. 196 del 1997, art. 13 e falsa applicazione del R.D.L. n. 692 del 1923, art. 5 lamenta che la Corte di merito abbia fatto applicazione quanto alla disciplina dello straordinario,di norma abrogata dalla L. n. 196 del 1997, art. 13 (rimasto in vigore fino all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 66 del 2003), invece di ritenere lavoro straordinario quello eccedente le 40 ore settimanali e applicare allo stesso la maggiorazione fissata dal c.c.n.l. e dalla legge Treu. Osservava che nella vigenza di quest’ultima era qualificabile come lavoro straordinario quello prestato oltre l’orario normale di lavoro, quale stabilito dalla contrattazione collettiva o da discipline equiparabili, applicabili nel caso concreto, e lo straordinario doveva essere retribuito con una la maggiorazione prevista dai contratti collettivi e comunque più del lavoro ordinario.

1.3. Il terzo motivo, denunciando violazione dell’art. 2697 c.c., lamenta, in materia di qualificazione delle modalità di cessazione del rapporto di lavoro, del principio secondo cui, una volta provata la cessazione del rapporto di lavoro, ricade sul datore di lavoro, affinchè si escluda l’ipotesi del licenziamento orale, l’onere di eccepire e provare che la cessazione è avvenuta per dimissioni del lavoratore.

2. Il primo motivo deve essere rigettato perchè la relativa censura di violazione di norme di diritto è basata sul riferimento ad una situazione di fatto sostanzialmente divergente dall’accertamento in linea di fatto compiuto nella sentenza impugnata, che giustifica la conclusione secondo cui nella specie l’applicabilità della contrattazione collettiva del settore non era invocabile neanche sulla base di fatti concludenti evidenzianti la volontà del datore di lavoro di attenersi alla stessa per la disciplina del rapporto di lavoro.

Nè la motivazione al riguardo ha formato oggetto di rituali e adeguate censure di vizio di motivazione.

3. Il secondo motivo è fondato.

Il giudice a quo, nel ritenere che non fosse dovuta alcuna maggiorazione per prestazione di lavoro straordinario, non ha tenuto presente, nonostante il compiuto accertamento circa la prestazione di un orario di 44,5 ore settimanali, che nella specie, ratione temporis, trova applicazione la L. 24 giugno 1997, n. 196, art. 13, comma 1 (disposizione superata per effetto dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni in materia di orario di lavoro di cui al D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66), secondo cui "l’orario normale di lavoro è fissato in 40 ore settimanali", salva la facoltà dei contratti collettivi nazionali di stabilire una durata minore (e di prevedere il riferimento ad una durata media in un periodo non superiore all’anno). Il lavoro prestato oltre la durata normale e qualificabile come lavoro straordinario e deve essere compensato con un aumento di retribuzione, a norma dell’art. 2018 c.c. (cfr. Cass. n. 4953/2002 e 17575/2003), che in mancanza di indicazioni contrattuali, può essere stabilito dal giudice, in base al principio dettato dall’art. 2099 c.c., comma 2. Nè, non essendo superato il limite di orario normale settimanale delle 48 ore, può trovare applicazione il rinvio, contenuto nella parte finale dell’art. 13, comma 1, cit., ai criteri di cui al R.D.L. 15 marzo 1923, n. 692, art. 5-bis, commi 2 e 3.

4. Il terzo motivo non merita accoglimento.

E’ opportuno premettere che non può darsi continuità al principio, pur talvolta enunciato da sentenze di questa Corte, secondo cui "Qualora il lavoratore deduca di essere stato licenziato oralmente e faccia valere in giudizio la inefficacia o invalidità di tale licenziamento, mentre il datore di lavoro deduca la sussistenza di dimissioni del lavoratore, il materiale probatorio deve essere raccolto, da parte del giudice di merito, tenendo conto che, nel quadro della normativa limitativa dei licenziamenti, la prova gravante sul lavoratore è limitata alla sua estromissione dal rapporto, mentre la controdeduzione del datore di lavoro assume la valenza di un’eccezione in senso stretto, il cui onere probatorio ricade sull’eccipiente ai sensi dell’art. 2697 c.c., comma 2 (cfr.

Cass. n. 2853/1995, 4760/2000, 21684/2011). Mentre la qualificazione come eccezione in senso stretto della difesa consistente nel sostenere che il rapporto di lavoro si è risolto per dimissioni del lavoratore è accettabile, in base ai criteri precisati in materia da Cass., sez. un., n. 1099/1998, solo se si fa riferimento con tale termine alle eccezioni, in genere, basate sulla deduzione di un fatto modificativo o estintivo, e non anche specificamente alle eccezioni non rilevabili d’ufficio, deve osservarsi che in altre pronunce di questa Corte la problematica relativa all’accertamento in giudizio della risoluzione del rapporto e della sua causale ha formato oggetto di una condivisibile disamina più articolata rispetto alla schematizzazione di cui alla massima sopra richiamata, In particolare si è rilevata la necessità che il giudice di merito ai fini dell’accertamento del fatto, presti particolare attenzione, indagandone la rilevanza sostanziale e probatoria nel caso concreto, agli eventuali episodi consistenti nell’offerta delle prestazioni da parte del lavoratore e nel rifiuto o mancata accettazione delle stesse da parte del datore di lavoro (Cass. n. 18523/2011), nel senso che, fermo restando l’onere del lavoratore, che faccia valere le conseguenze giuridiche di un licenziamento, di provare quest’ultimo, vi è la necessità di valutare caso per caso l’effettiva portata di circostanze quali il rifiuto o la mancata accettazione delle prestazioni da parte del datore di lavoro, al fine dell’eventuale attribuzione a tali comportamenti del valore sostanziale di un licenziamento per fatti concludenti o del riscontro sul piano probatorio della sussistenza di un precedente atto risolutivo del datore di lavoro (Cass. n. 6727/2001).

Il giudice di appello non si è discostato da tali principi, nel momento in cui con un accertamento di fatto basato su una dettagliata valutazione delle risultanze probatorie; insindacabile in questa sede, ha rilevato che la tesi relativa alla sussistenza di un licenziamento orale o per fatti concludenti non aveva trovato un adeguato riscontro probatorio.

5. In conclusione, rigettati il primo e il terzo motivo, deve essere accolto il secondo, con cassazione della sentenza in relazione alla relativa censura e rinvio della causa ad altro giudice (stessa Corte in diversa composizione), che si atterrà ai principi di diritto enunciati nel paragr. 3.

Al giudice di rinvio si demanda anche la regolazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo e rigetta gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 2 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2012

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