Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 28-10-2011) 02-12-2011, n. 44910

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

1. Il 6 aprile 2011 il Tribunale di sorveglianza di Potenza rigettava le istanze di affidamento in prova al servizio sociale e di detenzione domiciliare L. n. 354 del 1975, ex art. 47 ter, comma 1, lett. b) e successive modifiche, avanzate da M.C.E. M.. Osservava che non sussisteva l’assoluta impossibilità di prendersi cura della prole da parte della madre, dedita all’attività stagionale di giostrala nelle ore pomeridiane, e che, sotto altro profilo, ai fini dell’applicazione del beneficio della detenzione domiciliare non potevano assumere rilievo eventuali difficoltà di tipo organizzativo nella cura dei figli, peraltro nel caso di specie insussistenti alla luce dell’aiuto fornito da altri familiari.

Sottolineava, poi, che la gravità dei reati in espiazione (detenzione di circa 13,376 kg. di hashish, e di gr. 124,08 di cocaina, detenzione di materiale esplodente di tipo tritolo pari a due chili, nonchè di munizioni per arma comune da sparo) erano espressivi di una spiccata pericolosità che non poteva essere adeguatamente contenuta mediante misure alternative alla detenzione in carcere, considerati anche il tenore negativo delle informazioni di polizia e il giudizio prognostico negativo espresso nella relazione di sintesi della Casa Circondariale di Matera del 21 marzo 2011. 2. Avverso il suddetto provvedimento ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia. M.C., il quale lamenta erronea applicazione della L. n. 354 del 1975, art. 47 ter, comma 1, lett. b), e contraddittorietà della motivazione in ordine alle ragioni poste a base del diniego dei benefìci indicati, tenuto conto anche dell’erronea indicazione della scadenza della pena. Argomenta che una lettura della normativa in tema di detenzione domiciliare come quella prospettata dal Tribunale, oltre a non essere corretta, determina un’inammissibile disparità di trattamento tra uomo e donna. Evidenzia, inoltre, che, al momento del passaggio in giudicato della sentenza, M.C. si trovava agli arresti domiciliari e che appare irragionevole, oltre che in contrasto con il disposto degli artt. 3 e 27 Cost., un sistema che preveda differenti parametri di giudizio in ordine alla pericolosità sociale della persona a seconda della fase procedimentale.

Denuncia, infine, contraddittorietà della motivazione con riferimento al diniego dell’affidamento in prova al servizio sociale.

Motivi della decisione

Il ricorso non è fondato.

1. In relazione alla prima censura il Collegio osserva che la previsione contenuta nella L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 47 ter, comma 1, lett. b), secondo la quale la pena della reclusione non superiore a quattro anni (anche se costituente parte residua di maggior pena) può essere espiata nella propria abitazione dal padre esercente la potestà di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta od altrimenti assolutamente impossibilitata a darle assistenza, non trova applicazione automatica per il semplice fatto che la donna svolga un’attività lavorativa, ma forma oggetto della valutazione discrezionale del giudice che, ove sostenuta da motivazione idonea e pertinente, si sottrae al sindacato di legittimità. Sulla base di questa premessa deve inferirsi che l’impedimento assoluto della madre ad assistere la prole non può essere stabilito in via di generalizzata astrattezza, ma deve essere accertato in relazione alle peculiari connotazioni delle singole situazioni: di talchè come non può condividersi il principio per cui l’attività lavorativa della madre non può mai costituire impedimento grave, deve considerarsi parimenti inaccettabile la tesi che individua nel lavoro della madre della prole la causa che fa scattare il diritto del padre di ottenere la detenzione domiciliare ai sensi della L. n. 354 del 1975, art. 47 ter, comma 1, lett. b), e successive modifiche (Sez. 1, 8 aprile 2008 n. 14651; Sez. 1, 28 gennaio 2009, n. 13021).

Il provvedimento impugnato ha fatto corretta applicazione di questo principio, in quanto, con argomentazione logicamente articolata, ha messo in luce la circostanza che la moglie del ricorrente gestisce un’impresa individuale di spettacoli viaggianti che comporta un impegno lavorativo a tempo parziale solo nelle ore pomeridiane e quando le condizioni climatiche lo consentono. Ha, inoltre, sottolineato la circostanza che, in ogni caso, la donna può contare sull’aiuto della madre e, infine, che le lesioni e le fratture riportate in un recente sinistro stradale dalla moglie del ricorrente costituiscono una situazione transitoria nel contesto della quale i minori sono accudititi dagli altri familiari.

Atteso, quindi, che presupposto per la concessione del beneficio in esame è l’assoluta impossibilità da parte della madre di accudire la prova e che, nel caso di specie, tale precondizione è stata ritenuta insussistente dal Tribunale sulla base di una motivazione esauriente e logica, la dedotta questione di legittimità costituzionale è irrilevante, oltre che manifestamente infondata, in quanto basata su di un’erronea interpretazione della norma.

2. Parimenti insussistente è la dedotta illogicità del quadro normativo di riferimento costituito dalla L. n. 354 del 1975, art. 47 ter, comma 1, lett. b), posto in correlazione con il disposto dell’art. 656 c.p.p., comma 9, lett. a).

Tale disposizione contiene l’elencazione tassativa delle situazioni derogatrici al principio generale fissato dal precedente comma 5, stabilendo, in particolare, alla lett. a) che la sospensione dell’esecuzione della pena non possa essere disposta nei confronti dei condannati per i delitti di cui all’art. 4 bis ord. pen. Il tenore letterale della disposizione in esame e il richiamo, quale condizione ostativa, alla intervenuta condanna per uno dei delitti indicati nell’art. 4 bis ord. pen. rende evidente che il legislatore, ai fini del diniego del beneficio, ha voluto attribuire rilievo esclusivo a tale profilo (Sez. 1^, 2 aprile 2008, n. 16741; Sez. 1, 10 ottobre 2001, n. 45638; Sez. 2^, 20 settembre 2001, n. 36764).

Pertanto il divieto di sospensione dell’esecuzione della pena opera anche quando il soggetto, al momento dell’esecuzione della condanna a pena detentiva, si trovava agli arresti domiciliari.

L’art. 656 c.p.p., comma 10, che attribuisce al pubblico ministero il potere di sospendere l’esecuzione dell’ordine di carcerazione e di trasmettere gli atti al Tribunale di sorveglianza per l’eventuale concessione della misura alternativa della detenzione domiciliare, sussistendo le condizioni indicate nel precedente comma 5, non trova, quindi, applicazione quando ricorrano le condizioni menzionate nel comma 9, e cioè nei confronti dei condannati per i delitti di cui alla L. n. 354 del 1975, art. 4 bis e successive modificazioni, atteso che tra le due disposizioni vi è uno stretto collegamento testuale e che l’interpretazione letterale è sorretta anche da una convergente esegesi adeguata al dato costituzionale, pena la lesione dell’art. 3 Cost., riguardo ai detenuti agli arresti domiciliari, rispetto agli imputati a piede libero (Sez. 1,10 ottobre 2001, n. 45638; Sez. 1, 8 febbraio 2008, n. 10683).

Occorre, altresì, sottolineare che il disposto dell’art. 656 c.p.p., comma 10, prevede in favore del condannato in custodia domiciliare per il fatto oggetto della condanna da eseguire, (nell’ambito dei limiti edittali indicati al quinto comma della predetta disposizione, nel caso di specie insussistenti) l’automatica sospensione dell’efficacia dell’ordine di carcerazione, dalla quale però non consegue l’effetto del ripristino dello stato di libertà, dovendo egli rimanere nella condizione in cui si trova fino alla decisione del Tribunale di sorveglianza sulla eventuale concessione della corrispondente misura alternativa della detenzione domiciliare. Si tratta di una disciplina inedita che, dedicando specifica attenzione anche alla situazione del condannato agli arresti domiciliari nella fase terminale del giudizio di cognizione, si caratterizza per una maggiore apertura verso obiettivi di risocializzazione e di recupero dalla devianza, la cui considerazione non è valsa, proprio per il perdurare sia pure in forma attenuata della pericolosità del soggetto, presupposta dalla permanenza della misura cautelare al momento del passaggio in giudicato della sentenza, a giustificare la previsione di un intervento liberatorio da parte del pubblico ministero, quale conseguenza derivante dalla sospensione dell’esecuzione, ma solo ad evitare, nell’ottica del perseguimento di quegli obiettivi, la traduzione in istituto penitenziario e, quindi, il negativo contatto con l’ambiente carcerario.

Sarebbe, però, contraria alla ratio iuris ed alla volontà del legislatore un’ interpretazione della norma, che facendo leva sulla particolarità della disciplina da essa dettata, escludesse dai limiti di pena e dai divieti di sospensione stabiliti dall’art. 656 c.p.p. coloro che si trovino sottoposti alla misura cautelare di cui sopra e in tale condizione vengano raggiunti dalla condanna definitiva, poichè una siffatta esenzione, se riconosciuta, si risolverebbe in una inammissibile posizione di privilegio per il fatto stesso che ad essi verrebbe consentito, sempre e comunque, il mantenimento del loro stato, a differenza dei condannati in libertà, nei cui confronti può dirsi operante una sorta di presunzione di non pericolosità, i quali, dovendo invece sottostare ai limiti e divieti suddetti, non possono, ciò nonostante, sottrarsi alla costrizione carceraria durante il tempo necessario alla conclusione dell’iter processuale per la decisione sulla domanda di misura alternativa.

D’altro canto, nulla nella lettera e nello spirito della disciplina dettata dall’art. 656 c.p.p., comma 10, autorizza a ritenere tale disposizione avulsa dal restante impianto normativo in cui è inserita, poichè, anzi, attraverso il meccanismo del rinvio alla situazione prevista dal comma 5, il quale è a sua volta richiamato dal comma 9, è lecito istituire un collegamento indiretto e mediato con quest’ultima statuizione che, in presenza di determinate condizioni, pone dei limiti tassativi ed inderogabili all’esercizio del potere sospensivo del pubblico ministero.

Quella proposta è una esegesi interpretativa che deve considerarsi corretta, in quanto condotta su basi logiche e sistematiche, oltre che in una visione coerente con il dettato dell’artt. 3 e 27 Cost..

Viene, infatti, ad essere eliminata una ingiustificata disparità di trattamento tra i condannati in libertà e quelli agli arresti domiciliari che si verifìcherebbe paradossalmente qualora si limitasse agli uni, con esclusione degli altri, l’area di operatività dei divieti di sospensione. Con tutta evidenza una tale distinzione non trova alcun fondamento, nè sul piano del diritto positivo, nè su quello della ragionevolezza. Costituisce, peraltro, fondamentale regola ermeneutica che tra due possibili interpretazioni alternative del contenuto precettivo di una disposizione di legge, tra loro divergenti nel risultato, deve essere preferita quella maggiormente rispondente, non solo al comune senso logico, ma anche agli ineludibili parametri costituzionali di riferimento. D’altra parte, in una prospettiva di risocializzazione e nel rispetto del criterio di progressività trattamentale la persona detenuta potrà, all’esito degli interventi predisposti dai competenti organismi, usufruire delle misure previsti dalla legge di ordinamento penitenziario in presenza dei relativi presupposti.

3. Priva di pregio, infine, è anche l’ultima censura.

Il provvedimento impugnato, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, ha messo in luce, ai fini del diniego del beneficio dell’affidamento in prova al servizio sociale, la natura e la gravità dei reati commessi, il contenuto della relazione di sintesi redatta dai competenti organi della casa circondariale di Matera all’esito dell’osservazione scientifica della personalità del ricorrente, evidenziante l’assenza di qualsiasi rivisitazione critica del passato deviante, l’assenza di una positiva evoluzione della personalità del condannato e, di conseguenza, di un grado di rieducazione adeguato all’esecuzione della pena in forma alternative alla detenzione in carcere.

Per tutte queste ragioni s’impone il rigetto del ricorso con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 28 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2011

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