Cass. civ. Sez. II, Sent., 25-06-2012, n. 10581 Divisione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – M.L. conveniva davanti al Tribunale di Brescia L. e G.M., fratelli del marito Lu., esponendo che: quest’ultimo era deceduto il (OMISSIS) lasciando eredi legittimi la moglie e i figli S. e L. G.; l’eredità accettata con beneficio d’inventario era stata quindi rinunciata da parte dei figli stessi con atti in data 14 aprile e 21 ottobre 1992; che nell’asse ereditario era compresa (oltre a una quota di società facente capo ai fratelli G. per la liquidazione della quale era pendente altro giudizio) quota indivisa della proprietà di un immobile sito in (OMISSIS), già intestato al marito e al fratello L., ed occupato per la metà dal comproprietario G.L. e per l’altra metà da G.M.; aveva interesse a che fosse riconosciuta la sua qualità di unica erede per ottenere la restituzione della sua quota di quell’immobile.

Pertanto, chiedeva che, accertati da parte del Tribunale la sua qualità e il possesso in capo ai convenuti dei beni ereditari, i predetti fossero condannati "all’immediato rilascio della quota indivisa del bene immobile de quo previa individuazione della stessa e divisione dell’immobile".

Si costituivano i convenuti eccependo l’incompetenza per territorio indicando come competente il Tribunale di Mantova, nel cui circondario si trovava l’immobile de quo; che la M. non aveva provato, con idonea documentazione, la propria qualità di erede;

che, comunque, il contraddittorio avrebbe dovuto essere integrato nei confronti dei due figli di Gh.Lu. al fine di chiarire la loro posizione successoria perchè, sebbene avessero rinunciato all’eredita, nondimeno si erano trovati nel possesso dei beni ereditari senza mai avere accettato col beneficio d’inventario l’eredità stessa.

Nel merito, esponevano che, pur risultando l’immobile intestato ai soli Lu. e G.L. quali acquirenti del terreno su cui era sorto, nondimeno il denaro utilizzato per l’acquisto e per l’edificazione era stato sborsato anche dal terzo fratello M. con la conseguenza che questi avrebbe avuto il diritto di essere soddisfatto mediante il versamento di un importo pari a 1/3 del valore dell’immobile in divisione. Negato che la casa fosse "abusivamente occupata" atteso che mai prima della citazione M. aveva rivendicato per sè il possesso dell’edificio, i convenuti, per il caso in cui le domande di parte attrice si fossero volute intendere siccome espressive di un’azione di scioglimento della comunione, osservavano dunque che il bene avrebbe dovuto essere necessariamente venduto all’asta, attesa la necessità di una sua previa liberazione "dal debito dei due condividenti nei confronti di G.M.".

Chiedevano il rigetto delle domande ex adverso formulate e, in via riconvenzionale, che L. e gli eredi di Lu. fossero condannati a corrispondere a M. la somma pari a 1/3 del valore degli immobili oggetto di divisione con assegnazione allo stesso di un terzo del ricavato dell’asta o subordinando l’assegnazione in proprietà dei beni ai cointestati al preventivo pagamento di somma pari a 1/3 del loro effettivo valore o in subordine dei "costi dell’immobile".

Avendo la M. aderito all’indicazione del Tribunale competente, la causa era cancellata dal ruolo del Tribunale di Brescia e riassunta dalla stessa attrice davanti al Tribunale di Mantova con atto notificato il 12 maggio 1998. Costituitisi nuovamente, i convenuti formulavano opposizione alla divisione facendo valere un’iscrizione ipotecaria eseguita contro la stessa M. in forza di un lodo nelle more pronunciato inter partes. Il giudice istruttore disponeva integrarsi il contraddittorio nei confronti di A. T., moglie di G.L. in comunione dei beni. Datosi corso all’ordine, T. si costituiva formulando anch’essa opposizione all’esecuzione.

Con sentenza n. 307/2003, indicata come non definitiva, il Tribunale, qualificata la domanda proposta dall’attrice di divisione ed esclusa la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dei figli di Gh.Lu., che avevano rinunciato all’eredità paterna, dichiarava lo scioglimento della comunione; che la M. e G.L. erano unici proprietari dell’immobile de quo; che lo stesso cespite era comodamente divisibile in due unità, disponendo che si procedesse all’estrazione a sorte; escludeva che M. G. fosse partecipe della comunione, vantando il medesimo un mero diritto di credito ex art. 935 o ex art. 936 cod. civ. e lo condannava al pagamento in favore dell’attrice del 50% dei frutti goduti per effetto dell’occupazione dell’immobile de quo; rigettava le domande riconvenzionali; disponeva la cancellazione delle espressioni ritenute sconvenienti contenute nel verbale di udienza del 21 maggio 2005; riservava al definitivo il regolamento delle spese processuali; ordinava il prosieguo del giudizio con separata ordinanza.

Successivamente era emessa altra sentenza non definitiva, la n. 200/04, con la quale era deciso che la precedente sentenza doveva considerarsi definitiva e che l’estrazione a sorte doveva avvenire una volta passata in cosa giudicata la prima sentenza.

Avverso la sentenza n. 307/2003 proponevano appello, prima la M., e successivamente i G. e la T.; la M. proponeva appello anche avverso la sentenza n. 200/04.

Con sentenza dep. il 28 agosto 2006 la Corte di appello di Brescia, rigettava l’impugnazione proposta dai G. avverso la sentenza n. 307/2003 e, accogliendo in parte quello della M., rigettava la domanda di cancellazione formulata ex art. 89 cod. proc. civ. – formulata – dal procuratore dei G.;

rigettava l’impugnazione proposta dalla M. avverso la sentenza n. 200/04; regolava le spese di entrambi i gradi di giudizio, compensandole per un terzo e ponendo il residuo a carico dei G. e della T..

Procedendo nell’ordine logico ad esaminare innanzitutto l’impugnazione proposta dai G. avverso la sentenza n. 307/2003, i Giudici ritenevano: a) la legittimazione ad causam dell’attrice la quale aveva affermato di essere erede di Lu.

G. e poi, nel corso del giudizio, aveva dato anche la prova di tale qualità con la dichiarazione dell’accettazione dell’eredità e della denuncia di successione, seppure quest’ultima non fosse necessaria; b) i figli di Gh.Lu. non erano litisconsorti necessari avendo rinunciato all’eredità, che non avevano mai accettato, posto che la M. aveva formulato la dichiarazione di accettazione con beneficio di inventario in nome proprio e non come rappresentante dei figli allora minorenni; c) seppure con formulazione infelice, la domanda di divisione era contenuta nell’atto di citazione laddove la richiesta di rilascio del bene era subordinata alla individuazione dello stesso che non poteva non seguire che allo scioglimento della comunione e all’accertamento della comoda divisibilità dell’immobile; le conclusioni rassegnate all’udienza del 24 settembre 2002 non integravano una domanda nuova ma costituivano esplicitazione di quanto già introdotto in causa sin dall’inizio; d) il Tribunale, nel disporre l’estrazione a sorte, non era incorso nel vizio di ultra petizione denunciato con riferimento al fatto che l’attrice aveva chiesto l’assegnazione del bene, non essendo tale istanza vincolante per il giudice, il quale aveva pronunciato comunque nell’ambito dell’oggetto della domanda di divisione; e) che non poteva accogliersi la richiesta degli appellanti di procedere, ai sensi dell’art. 1115 cod. civ. all’estinzione del credito di M. per le somme erogate per l’acquisto del terreno e della costruzione dell’immobile, posto che tale norma presuppone che le spese siano fatte dai comproprietari per la conservazione e il godimento della cosa comune, quando nella specie le somme sarebbero state versate prima dell’acquisto del terreno che fu intestato agli altri due fratelli che ebbero ad acquistare l’immobile ex art. 934 cod. civ.; al momento dell’erogazione dei suddetti importi la cosa non sarebbe stata ancora comune nè era risultata provata l’esistenza di un accordo in base al quale Lu. e L. si sarebbero obbligati al rimborso in favore di M..

Nell’accogliere l’impugnazione della M., la sentenza riteneva non sconveniente ma funzionale al diritto di difesa l’affermazione con cui, nel contrastare l’opposizione alla divisione formulata dai G. che avevano iscritto ipoteca giudiziale in virtù di un credito riconosciuto da un lodo arbitrale, il difensore della M. aveva dedotto che nel lodo mancava la statuizione di condanna che era stata scritta arbitrariamente dall’avv. B. dopo che egli "ha ottenuto, non è dato sapere in che modo,una formula esecutiva".

Nel regolare le spese del doppio grado i Giudici procedevano alla liquidazione anche di quelle relative alla fase conclusasi con la prima sentenza che l’aveva riservata al definitivo e, pur osservando che la M. avverso tale statuizione non aveva proposto impugnazione, la riforma, seppure parziale di quella decisione, aveva comportato il potere del giudice di ridefinire il complessivo regolamento delle spese, dovendo considerarsi tale sentenza definitiva.

Infine, secondo i Giudici, i G. dovevano essere considerati soccombenti in relazione alla domanda di divisione: poteva, peraltro, procedersi a una compensazione parziale, tenuto conto dell’esito della controversia relativa all’estrazione a sorte (sfavorevole alla M.) e del giudizio di gravame che ha visto le parti in posizione di reciproca soccombenza.

2.- Avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione l’avv. B.G.B. in proprio nonchè G.L. e G.M. sulla base di sette motivi.

Resiste con controricorso l’intimata, depositando memoria illustrativa.

Motivi della decisione

Preliminarmente va disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso proposto anche in proprio dall’avv. G.B. B., sollevata dal Procuratore Generale, atteso che, in relazione all’istanza di cancellazione di frasi sconvenienti od offensive – ove concerna frasi rivolte al solo difensore – è da ritenersi la legittimazione autonoma del difensore, che è il soggetto interessato a fare valere con l’impugnazione eventuale vizi della decisione che su di essa abbia pronunciato (Cass. 12134/1991), vizi che nella specie sono stati dedotti con il sesto motivo di ricorso.

1.1.- Il primo motivo, lamentando violazione del disposto di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5 nonchè omessa o carente e contraddittoria motivazione, denuncia l’insanabile contrasto tra le affermazioni della Corte che, dopo avere affermato "la legittimazione ad agire della M. nel momento in cui ha proposto la domanda volta a vedersi riconosciuta la sua qualità di erede al fine di entrare in possesso dei beni ereditari, si fondava all’evidenza sulla sua mera affermazione di essere erede di Gh.Lu.", successivamente aveva poi rilevato l’equivoco in cui erano incorsi gli appellanti G. "di considerare la prova della qualità di erede di chi agisce in petizione di eredità rilevante non già sul merito della azione ma sulla legittimazione ad agire".

Censura, quindi, la decisione gravata che, in relazione alla domanda di scioglimento della comunione, aveva omesso di verificare la legittimazione ad agire, posto che l’attrice avrebbe dovuto dimostrare il titolo di proprietà che derivava dalla successione del marito e che fosse idoneo a escludere i figli: il Giudicante avrebbe dovuto accertare in capo all’istante la titolarità del diritto nella misura richiesta.

1.2. – Il motivo è infondato.

Occorre premettere che la legittimazione ad agire costituisce una condizione dell’azione diretta all’ottenimento, da parte del giudice, di una qualsiasi decisione di merito, la cui esistenza è da riscontrare esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall’azione, prescindendo, quindi, dalla effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa che si riferisce al merito della causa, investendo i concreti requisiti di accoglibilità della domanda e, perciò, la sua fondatezza.

Ciò posto, nella specie la sentenza ha non soltanto verificato, alla stregua della prospettazione formulata con la domanda dall’attrice, che la medesima – qualificatasi erede – era legittimata ad agire per chiedere lo scioglimento della comunione dei beni di cui si affermava comproprietaria in virtù del titolo dedotto ma ha, poi, accertato anche la titolarità del diritto azionato, avendo rilevato che la medesima aveva accettato con beneficio di inventario l’eredità e che i figli, i quali non avevano mai accettato l’eredità (essendo minorenni i predetti, sarebbe stata necessaria l’accettazione con beneficio di inventario) ma vi avevano rinunciato: la denuncia di successione – che, costituendo un adempimento fiscale, non è necessaria per l’accettazione – è irrilevante (e, comunque, Giudici hanno ritenuto che era stata effettuata) così come che non assume alcun rilievo nella specie la trascrizione dell’accettazione che ha funzione di pubblicità dichiarativa idonea a risolvere conflitti fra più aventi diritto.

2.1. – Il secondo motivo, lamentando violazione di legge e omessa o carente e contraddittoria motivazione in relazione al disposto di cui agli artt. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5 e all’art. 101 cod. proc. civ., denuncia la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti dei figli del de cuius che, pur avendovi rinunciato, erano sicuramente chiamati all’eredità e la loro partecipazione al giudizio era necessaria ai fini dell’accertamento della qualità di unica erede della M. anche relativamente alla domanda di divisione.

2.2. -Il motivo va disatteso.

In tema di divisione, ricorre il litisconsorzio necessario nei confronti di coloro che sono partecipi della comunione e nei cui confronti deve spiegare effetto lo scioglimento dello stato di indivisione: i figli di Gh.Lu., avendo rinunciato all’eredità, sono ad essa estranei di guisa che è del tutto irrilevante che i medesimi fossero stati chiamati all’eredità, potendosi e dovendosi la qualità di erede di colui che agisce per ottenere lo scioglimento della comunione accertarsi in contraddittorio nei confronti degli altri comunisti.

3.1. – Il terzo motivo, lamentando violazione di legge e/o carente e contraddittoria motivazione in relazione al disposto di cui agli artt. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5 e all’art. 183 cod. proc. civ., censura la sentenza impugnata la quale aveva escluso che fosse da considerarsi nuova la domanda di divisione quando con motivazione contraddittoria aveva fatto riferimento alla richiesta di riconoscimento della qualità di erede ed aveva agito nei confronti dei fratelli G., i quali non facevano parte della comunione;

d’altra parte non vi sarebbe stata necessità di adire il foro dell’aperta successione.

La M. aveva sostituito all’originario oggetto del giudizio, costituito dall’accertamento del diritto alla divisione, quello volto alla determinazione del suo contenuto.

3.2. – Il motivo è infondato.

La sentenza ha correttamente proceduto all’interpretazione della domanda, ricercando quella che, al di là delle espressioni usate, doveva ritenersi la effettiva volontà della parte. Ed invero, partendo dal presupposto che l’immobile de quo era caduto in comunione fra l’attrice, iure hereditario subentrata al marito Lu. e a tale titolo legittimata, e G.L., cointestario dell’immobile con Lu., la richiesta di ottenere il rilascio di una determinata porzione del bene postulava necessariamente lo scioglimento della comunione (al quale vi è comunque espresso riferimento nell’atto di citazione "previa divisione"), posto che le operazioni divisionali erano strumentali per ottenere la conversione della quota ideale di partecipazione sul bene indiviso nell’assegnazione di una porzione del bene, proporzionale a quella quota, del quale era chiesto il rilascio, dovendo qui solo accennarsi che la qualità di erede costituisce condizione legittimante per la proposizione anche della domanda di divisione.

4.1. – Il quarto motivo, lamentando violazione di legge e/o carente e contraddittoria motivazione in relazione al disposto di cui agli artt. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5 e art. 112 cod. proc. civ., denuncia l’ultrapetizione in cui era incorso il Tribunale per avere disposto l’estrazione a sorte dei lotti quando l’attrice aveva chiesto l’assegnazione del bene detenuto da G.M., così pronunciando su una domanda mai proposta.

4.2.- Il motivo è infondato.

In tema di divisione, l’art. 729 cod. civ. stabilisce la regola generale secondo cui l’assegnazione delle porzioni uguali è fatta mediante estrazione a sorte, alla quale il giudice può derogare soltanto in presenza di ragioni oggettive legate alla condizione dei beni quale risulterebbe dall’applicazione della regola del sorteggio:

pertanto, la richiesta formulata dalla parte non era certamente vincolante per il giudice il quale era tenuto a procedere nel modo prescritto dalla citata norma.

5.1. Il quinto motivo, lamentando violazione di legge e/o carente e contraddittoria motivazione in relazione al disposto di cui agli artt. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5 e art. 1115 cod. civ., censura la sentenza impugnata la quale aveva respinto le domande riconvenzionali con cui era stato chiesto il prelevamento delle somme di cui era creditore M. e di opposizione allo scioglimento della divisione finchè non fossero stati soddisfatti i debiti contratti per la cosa comune. Le deduzioni formulate dai convenuti, dirette ad ottenere l’estinzione del debito dei due condividenti, non erano state contestate dalla M. ed erano state ribadite con le istanze istruttorie, soltanto successivamente ma tardivamente il nuovo difensore dell’attrice aveva formulato contestazione del credito di M. nei confronti della comunione. Pertanto, in assenza di contestazioni, dovevano ritenersi provate l’esistenza dell’accordo restitutorio e la quantificazione del debito.

In ogni caso, le obbligazioni contratte da L. e Lu. erano destinate a beneficio della cosa comune, gravavano anche sul successore a titolo particolare del comunista e si estendevano alle spese volte a ottenere il miglior godimento del cosa comune. Formula il seguente quesito di diritto: Dica la Ecc.ma Corte, ai sensi del disposto dell’art. 366 bis c.p.c., se il debito contratto dalla comunione nei confronti di G.M., debito oggi in fase di accertamento, relativamente al quantum, davanti al Tribunale di Mantova con causa sospesa in attesa della definizione del presente giudizio, va estinto dai comunisti comproprietari ai sensi e per gli effetti dell’art. 1115 c.c., comma 2, attraverso la vendita dell’immobile comune, e comunque prima della eventuale divisione in natura".

5.2.- Il motivo è inammissibile.

Ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 6 ratione temporis applicabile, i motivi del ricorso per cassazione devono essere accompagnati, a pena di inammissibilità (art. 375 c.p.c., n. 5) dalla formulazione di un esplicito quesito di diritto nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1), 2), 3), 4) e qualora il vizio sia denunciato anche ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione.

Al riguardo va ricordato che, nel caso di violazioni denunciate ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 1), 2), 3), 4), secondo il citato art. 366 bis, il motivo deve concludersi con la separata e specifica formulazione di un esplicito quesito di diritto, che si risolva in una chiara sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, formulata in termini tali per cui dalla risposta – negativa od affermativa – che ad esso si dia, discenda in modo univoco l’accoglimento od il rigetto del gravame (SU 23732/07): non può, infatti, ritenersi sufficiente il fatto che il quesito di diritto possa implicitamente desumersi dall’esposizione del motivo di ricorso nè che esso possa consistere o ricavarsi dalla formulazione del principio di diritto che il ricorrente ritiene corretto applicarsi alla specie, perchè una siffatta interpretazione si risolverebbe nell’abrogazione tacita della norma di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ., secondo cui è,invece, necessario che una parte specifica del ricorso sia destinata ad individuare in modo specifico e senza incertezze interpretative la questione di diritto che la Corte è chiamata a risolvere nell’esplicazione della funzione nomofilattica che la modifica di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, oltre all’effetto deflattivo del carico pendente, aveva inteso valorizzare, secondo quanto formulato in maniera esplicita nella Legge Delega 14 maggio 2005, n. 80, art. 1, comma 2, ed altrettanto esplicitamente ripreso nel titolo stesso del decreto delegato soprarichiamato. In tal modo il legislatore si era proposto l’obiettivo di garantire meglio l’aderenza dei motivi di ricorso (per violazione di legge o per vizi del procedimento) allo schema legale cui essi debbono corrispondere, giacchè la formulazione del quesito di diritto risponde all’esigenza di verificare la corrispondenza delle ragioni del ricorso ai canoni indefettibili del giudizio di legittimità, inteso come giudizio d’impugnazione a motivi limitati. In effetti, la ratio ispiratrice dell’art. 366 bis cod. proc. civ. era quella di assicurare pienamente la funzione, del tutto peculiare, del ricorso per cassazione, che non è solo quella di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una corretta decisione di quella controversia ma anche di enucleare il corretto principio di diritto applicabile in casi simili. Pertanto, il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ. deve comprendere l’indicazione sia della "regula iuris" adottata nel i provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo. Ne consegue che il quesito deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la medesima Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile – come si è detto – di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (S.U. 3519/2008).

Nella specie, il quesito è del tutto inidoneo, atteso che: a) non fa alcun riferimento alla fattispecie in concreto dedotta in giudizio e alla soluzione fornita dalla sentenza impugnata; b) è tautologico risolvendosi in un interrogativo circolare, che già presuppone la risposta (S.U. 28536/2008); in effetti, da per accertata una ricostruzione della fattispecie concreta (il credito di cui si discute sarebbe relativo a spese necessarie per la conservazione e il godimento della cosa comune) del tutto diversa da quella che è stata ritenuta in sentenza e che semmai i ricorrenti avrebbero dovuto dimostrare: eventualmente, il motivo avrebbe dovuto piuttosto censurare l’accertamento in fatto compiuto dai giudici che in sede di legittimità è denunciabile sotto il profilo del vizio di motivazione e, ai sensi del citato art. 366 bis, deve concludersi con la indicazione del fatto controverso e del vizio di motivazione denunciato. Pertanto, non è sufficiente che il fatto controverso sia indicato nel motivo o possa desumersi dalla sua esposizione. La norma aveva evidentemente la finalità di consentire la verifica che la denuncia fosse ricondotta nell’ambito delle attribuzioni conferite dall’art. 360 c.p.c., n. 5 al giudice di legittimità, che deve accertare la correttezza dell’iter logico-giuridico seguito dal giudice esclusivamente attraverso l’analisi del provvedimento impugnato,non essendo compito del giudice di legittimità quello di controllare l’esattezza o la corrispondenza della decisione attraverso l’esame e la valutazione delle risultanze processuali che non sono consentiti alla Corte, ad eccezione dei casi in cui essa è anche giudice del fatto. Si era, così, inteso precludere l’esame di ricorsi che, stravolgendo il ruolo e la funzione della Corte di Cassazione, sollecitano al giudice di legittimità un inammissibile riesame del merito della causa.

6.1.- Il sesto motivo, lamentando violazione di legge e /o carente e contraddittoria motivazione in relazione al disposto di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5 e art. 89 cod. proc. civ., censura la motivazione della sentenza impugnata laddove aveva revocato l’ordine di cancellazione delle espressioni sconvenienti e offensive: deduce che erroneamente la Corte aveva compiuto accertamenti circa la veridicità o meno delle affermazioni censurate, che non era suo compito effettuare senza peraltro compiere alcuna indagine sul carattere offensivo o e meno di tali espressioni, mentre non poteva assumere rilievo che le dichiarazioni fossero state inserite in un verbale di udienza sotto la direzione del giudice, il quale si era peraltro riservato di decidere sulla relativa cancellazione. Formula il seguente quesito di diritto: "Dica la Ecc.ma Corte, ai sensi del disposto dell’art. 366 bis c.p.c., se viene meno al dovere di correttezza, con conseguente lesione del prestigio e del decoro tutelato dall’art. 89 c.p.c., l’avvocato che in uno scritto difensivo si abbandoni ad espressioni sconvenienti, offensive e dispregiative per la controparte o per altri soggetti, in ogni caso, e comunque ove dette espressioni non siano attinenti alla materia del contendere e tanto meno indispensabili per chiarire una situazione di fatto diversamente rappresentabile".

6.2.- Il motivo è inammissibile.

Tenuto conto che con la censura si denuncia il vizio di motivazione relativo all’accertamento in fatto circa il carattere offensivo o meno delle espressioni usate nei confronti dell’avv. B., il motivo avrebbe dovuto concludersi non con il quesito di diritto ma con l’indicazione del fatto controverso e delle ragioni per le quali la sentenza sarebbe affettata dal vizio di motivazione. Nella specie, non è indicato quale sarebbe l’espressione offensiva (fatto controverso) e quale sarebbe il vizio in cui sarebbe incorsa la sentenza, posto che evidentemente si trattava di dimostrare l’errore compiuto dai Giudici di non avere ritenuto offensiva l’espressione che tale sarebbe stata: in effetti il "quesito" da per dimostrata una circostanza – il carattere offensivo delle espressioni usate – che era stata esclusa dalla sentenza impugnata e che occorreva dimostrare.

7.1.- Il settimo motivo, lamentando violazione di legge e lo carente e contraddittoria motivazione in relazione al disposto di cui all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 e all’art. 91 cod. proc. civ., censura la sentenza impugnata che, nel condannare gli appellanti al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio, aveva in proposito riformato anche la sentenza n. 307/03 che ne aveva demandato il regolamento alla sentenza definitiva, senza che vi fosse stata al riguardo impugnazione da parte della controparte che aveva impugnato la statuizione di compensazione delle spese relative alla sentenza n. 200/2004.

Censura, quindi, l’affermazione secondo cui i G. e la T. sarebbero rimasti soccombenti, essendosi rivelata erronea, tenuto conto invece che erano state accolte le eccezioni sollevate dai convenuti.

7.2.- Il motivo è infondato.

a) Avendo riformato la decisione n. 307/2004 e avendola qualificata come sentenza definitiva anzichè non definitiva, come invece ritenuto dal primo giudice, i Giudici di appello dovevano necessariamente procedere d’ufficio alla regolamentazione delle spese posto che, per effetto della riforma, la decisione di primo grado era integralmente caducata (anche relativamente a quanto statuito in merito al differimento delle spese al definitivo) e la decisione di appello si sostituiva alla prima: la qualificazione di sentenza definitiva comportava che andavano regolate le spese processuali che sono un provvedimento conseguenziale ed accessorio.

b) Premesso che la verifica circa l’accertamento della soccombenza concerne un accertamento di fatto che può essere censurato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, i Giudici hanno, con motivazione immune vizi logici e giuridici, ritenuto prevalente nella economia complessiva del giudizio, la soccombenza degli attuali ricorrenti, tenuto conto che con l’atto di citazione introduttivo del presente giudizio l’attrice aveva agito chiedendo lo scioglimento della comunione, secondo la corretta interpretazione della domanda compiuta dai Giudici – domanda che è stata accolta – e che le eccezioni e deduzioni al riguardo sollevate dai convenuti per contrastarla – e ancora oggi tenacemente riproposte in sede di legittimità – si sono rivelate infondate. Il ricorso va rigettato.

Le spese della presente fase vanno poste in solido a carico dei ricorrenti, risultati soccombenti.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna i ricorrenti in solido al pagamento in favore della resistente delle spese relative alla presente fase che liquida in Euro 5.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per onorari di avvocato oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 23 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 25 giugno 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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