Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 25-06-2012, n. 10520 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- La sentenza attualmente impugnata, conferma la sentenza del Tribunale di Firenze n. 151/2004 del 5 febbraio 2004, dichiarativa della nullità del termine apposto ai diversi contratti a tempo determinato stipulati tra C.G. e Poste Italiane s.p.a. il 19 febbraio 1999, il 20 maggio 1999, il 3 luglio 2000, il 1 febbraio 2001, il 22 agosto 2001 e il 1 luglio 2002 e della sussistenza, a decorrere dal 26 ottobre 1998, tra le stesse parti, di un contratto di lavoro a tempo indeterminato, con condanna della suindicata società a corrispondere alla lavoratrice le retribuzioni omesse dalla data di messa in mora, oltre agli accessori di legge.

La Corte d’appello di Firenze, per quel che qui interessa, precisa che:

a) come deciso in analoghe controversie, sulla base dell’indirizzo univoco della giurisprudenza di legittimità, l’apposizione del termine al contratto in oggetto è sicuramente illegittima perchè non autorizzata dalla L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 e dall’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, nonchè dai successivi accordi integrativi 25 settembre 1997 e 27 aprile 1998;

b) in base al suddetto complesso normativo, infatti, è stato concordato che la società Poste italiane potesse concludere assunzioni a termine per le "finalità di sopperire a esigenze eccezionali relative alla fase di ristrutturazione di Poste Italiane", vagliate dalla contrattazione collettiva, fino al 30 maggio 1998;

c) sulla base della consolidata giurisprudenza di legittimità, è da ritenere che dopo il limite temporale stabilito dalle parti sociali (30 maggio 1998) Poste Italiane non poteva più fare riferimento alla L. n. 56 del 1987 e alla contrattazione collettiva da essa richiamata, ma doveva applicare, per le assunzioni a termine durante il periodo concomitante con le ferie, le disposizioni della L. n. 230 del 1962, sotto il profilo sia formale sia sostanziale;

d) nella specie le previsioni della L. n. 230 del 1962, non risultano rispettate e mancano previsioni collettive autorizzazione della stipulazione del contratto a termine ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23;

e) ne consegue che, poichè il contratto in argomento è stato stipulato dopo il maggio 1998 e prima dell’operatività del c.c.n.l.

del 2001, la clausola appositiva del termine in esso contenuta è nulla;

f) va respinta la censura della società riguardante l’aliunde perceptum perchè risulta priva di indicazioni concrete utili per l’eventuale determinazione del relativo ammontare.

2- Il ricorso di Poste Italiane s.p.a. domanda la cassazione della sentenza per quattro motivi; resiste, con controricorso, C. G..

Le parti depositano anche memorie ex art. 378 cod. proc. civ.. In particolare, la ricorrente nella propria memoria chiede l’applicabilità dello ius superveniem rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore dal 24 novembre 2010.

Motivi della decisione

1 – Sintesi dei motivi di ricorso.

1.- Col primo motivo si denuncia violazione ed erronea applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23 (art. 360 cod. proc. civ., n. 3).

Con il secondo motivo si denuncia violazione ed erronea applicazione dell’art. 1362 cod. civ., e segg. (art. 360 cod. proc. civ., n. 3) nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 cod. proc. civ., n. 5).

Con i primi due motivi la società assume che la Corte territoriale, del tutto apoditticamente e illogicamente ritiene che l’apposizione di un termine ai sensi della L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, andava effettuata, per effetto dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994 e dei successivi accordi integrativi 25 settembre 1997 e 27 aprile 1998, entro il 30 maggio, assumendo arbitrariamente che questa sia stata la volontà delle le OO.SS..

Si sottolinea, altresì, che la Corte fiorentina è giunta alla conclusione della nullità della relativa clausola facendo riferimento ad una diversa fonte normativa, cioè alla L. n. 230 del 1962 e così ha finito per l’imporre all’autonomia collettiva i limiti ricavabili dall’art. 1 di tale ultima legge.

2.- Col terzo motivo si denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 cod. proc. civ., n. 5).

Si sostiene che la Corte d’appello ha erroneamente affermato la genericità dell’eccezione di aliunde perceptum, sul presupposto – apodittico e illogico – che il datore di lavoro abbia l’onere di allegazione dei fatti posti alla base dell’eccezione stessa perchè il giudice possa, se del caso, attivare i poteri istruttori di ufficio.

In particolare, la società ricorrente deduce, peraltro in modo del tutto generico e quindi inammissibile, che la Corte territoriale avrebbe errato nel rigettare le richieste di esibizione di documenti (libretti di lavoro e buste paga) ex art. 210 cod. proc. civ. e poi censura la sentenza per non avere tenuto conto che dai principi elaborati in materia dalla giurisprudenza di questa Corte (cita al riguardo Cass. 17 ottobre 2001 n. 12697) discenderebbe che l’aliunde perceptum non può che essere genericamente dedotto dall’istante.

Dovrebbe essere invece onere del lavoratore dimostrare di non essere stato occupato nel periodo in questione, per esempio a mezzo delle dichiarazioni dei redditi relative ai periodi successivi alla scadenza del contratto a termine eventualmente dichiarato illegittimo e di altra eventuale documentazione (libretti di lavoro, buste paga).

3.- Col quarto motivo si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 1372 cod. civ., commi 1 e 2, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5).

Si assume che la Corte d’appello ha erroneamente riconosciuto – incorrendo anche in una "patente carenza di motivazione" – il diritto della C. a tutte le retribuzioni con decorrenza dalla messa in mora.

2 – Esame delle censure.

4.- I primi due motivi – da esaminare congiuntamente, data la loro intima connessione – non sono fondati, nei sensi di seguito precisati.

In base ad un consolidato orientamento di questa Corte cui il Collegio intende dare continuità – per i contratti successivi al 30 giugno 1997 (cioè al periodo di applicazione del D.L. 1 ottobre 1996, n. 510, art. 9, convertito dalla L. 28 novembre 1996, n. 608) e anteriori al c.c.n.l. del 11 gennaio 2001 (nonchè al nuovo regime previsto dal D.Lgs. n. 368 del 2001) vanno applicati i principi più volte affermati da questa Corte in materia, in base ai quali, sulla scia di Cass. S.U. 2 marzo 2006 n. 4588, è stato precisato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali e di provare la sussistenza del nesso causale fra le mansioni in concreto affidate e le esigenze aziendali poste a fondamento dell’assunzione a termine" (vedi, fra le altre: Cass. 27 luglio 2010, n. 17550; Cass. 8 luglio-2009, n. 15981; Cass. 4 agosto 2008, n. 21063, nonchè Cass. 20 aprile 2006, n. 9245; Cass. 7 marzo 2005, n. 4862; Cass. 26 luglio 2004, n. 14011).

In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo), la relativa inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (vedi, per tutte: Cass. 23 agosto 2006, n. 18383; Cass. 14 aprile 2005, n. 7745; Cass. 14 febbraio 2004, n. 2866), per cui, come ripetutamente affermato da questa Corte, deve ritenersi che "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998, sicchè deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (vedi, fra le altre: Cass. 1 ottobre 2007, n. 20608; Cass. 27 marzo 2008, n. 7979; Cass. 27 luglio 2010, n. 17550 cit.).

Peraltro, tale limite temporale (del 30 aprile 1998) non riguarda i contratti stipulati ex art. 8 c.c.n.l. 1994 per "necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie" (per i quali vedi, fra le altre: Cass. 2 marzo 2007, n. 4933; Cass. 7 marzo 2008, n. 6204; Cass. 28 marzo 2008, n. 8122), mentre, per quanto riguarda la proroga di trenta giorni prevista dall’accordo 27 aprile 1998, per i contratti in scadenza al 30 aprile 1998, la giurisprudenza costante di questa Corte ne ha affermato la legittimità, sulla base della sussistenza, riconosciuta in sede collettiva, delle esigenze contingenti ed imprevedibili, connesse con i ritardi che hanno inciso negativamente sul programma di ristrutturazione (vedi, fra le altre: Cass. 24 settembre 2007, n. 19696).

La impugnata sentenza si è attenuta ai suddetti principi, affermando la nullità della clausola appositiva del termine del primo dei contratti in oggetto, stipulati dopo il maggio 1998 e prima dell’operatività del c.c.n.l. del 2001.

Di qui l’infondatezza dei primi due motivi.

5.- Il terzo motivo – attinente, come si è detto., alla detraibilità dell’aliunde perceptum dal danno da risarcire in conseguenza dell’accertata nullità del termine e della conversione del contratto a tempo indeterminato si conclude con la formulazione del seguente quesito ex art. 366-bis cod. proc. civ. (applicabile nella specie, ratione temporis): "dica la Corte se, nel caso di oggettiva difficoltà della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande ed eccezioni – e segnatamente per la prova dell’aliunde perceptum – il giudice debba valutare le richieste probatorie con minor rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale e rigettandole (con apposita motivazione) solo quando gli elementi somministrati dal richiedente risultino invece insufficienti ai fini dell’espediente richiesto".

In applicazione del principio secondo cui il quesito di diritto deve essere formulato in maniera specifica e deve essere pertinente rispetto alla fattispecie cui la censura si riferisce la censura (vedi, per tutte: Cass. SU 5 gennaio 2007, n. 36; Cass. SU 5 febbraio 2008, n. 2658) è evidente che il quesito come sopra formulato dalla società appare del tutto astratto, senza alcun riferimento all’errore di diritto pretesamente commesso dai giudici nel caso concreto esaminato, per cui deve ritenersi inesistente e quindi si valuta inammissibile il relativo motivo, ai sensi dell’art. 366-bis cod. proc. civ., secondo quanto già affermato in analoghe controversie (vedi, per tutte: Cass. 16 dicembre 2011, n. 27210).

6.- Quanto al quarto motivo – premesso che la norma indicata nella rubrica del motivo è inconferente rispetto alla relativa argomentazione, cui va data prevalenza va precisato che la società ricorrente sostiene che la Corte territoriale avrebbe riconosciuto il diritto della lavoratrice alle retribuzioni dalla messa in mora senza che l’interessata abbia fornito al riguardo il "benchè minimo elemento probatorio" e che, nonostante la natura solo risarcitoria della tutela che alla C. poteva essere riconosciuta, nessuna rilevanza e stata assegnata, in senso riduttivo del danno, agli incrementi economici conseguiti a causa del rifiuto opposto dal datore di lavoro alla esecuzione della prestazione.

A corredo del motivo viene formulato il seguente quesito di diritto:

"Dica la Suprema Corte se, attesa la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro ed in applicazione del principio generale di effettività e corrispettività delle prestazioni, sia dovuta o meno l’erogazione del trattamento retribuivo pur in assenza di attività lavorativa e se tale erogazione abbia natura retributiva o risarcitoria".

Come già affermato da questa Corte in analoghe controversie (vedi, per tutte: Cass. 26 luglio 2011, n. 16270) un simile quesito non è conforme all’art. 366-bis cod. proc. civ., perchè risulta del tutto generico, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia in argomento, "senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso vedi fra le altre Cass. 4 gennaio 2011, n. 80)".

Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (vedi, ad es. Cass. SU 5 gennaio 2007, n. 36 cit.), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. Del resto, è stato anche precisato che "è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie" (vedi Cass. SU 30 ottobre 2008, n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (vedi, per tutte: Cass. 7 aprile 2009, n. 8463).

Peraltro neppure può ignorarsi che, nella fattispecie, anche la illustrazione del motivo risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto si incentra nella doglianza circa la mancanza di una verifica da parte della Corte territoriale sul punto, senza neppure riportare il testo della comunicazione in oggetto, che, secondo l’assunto della società, non avrebbe integrato la messa in mora (nella specie ravvisata dalla Corte di merito nella comunicazione per il tentativo obbligatorio di conciliazione, "ove si rinvengono espressioni atte ad in equivocamente rilevare la volontà del lavoratore di essere ripreso in servizio").

7.- Pertanto, essendo inammissibili il terzo motivo e il quarto motivo, riguardanti le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure può incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 (sul quale vedi: Corte cost. n. 303 del 2011).

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (vedi, per tutte: Cass. 31 gennaio 2012, n. 1411; Cass. 8 maggio 2006, n. 10547; Cass. 27 febbraio 2004, n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (vedi, fra le tante: Cass. 31 gennaio 2012, n. 1411; Cass. 4 gennaio 2011 n. 80 cit.).

Orbene, per quel che si è detto, tale condizione non sussiste nella fattispecie.

3 – Conclusioni.

8.- Per le suesposte ragioni, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 30,00 (trenta/00) per esborsi, Euro 3000,00 (tremila/00) per onorari, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 7 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 25 giugno 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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