Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 25-06-2012, n. 10517 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – La sentenza attualmente impugnata – in parziale accoglimento dell’appello di D.S.B. avverso la sentenza del Tribunale di Salerno n. 1568/2006 del 4 luglio 2006 – dichiara la nullità del termine finale apposto al contratto di lavoro concluso tra il D.S. e Poste italiane s.p.a. per il periodo 1 marzo 2000-30 giugno 2000, ai sensi dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994 e successivi accordi integrativi, per far fronte ad "esigenze eccezionali" conseguenti alla ristrutturazione aziendale.

La Corte d’appello di Salerno, per l’effetto, riconosce il diritto del lavoratore alla prosecuzione del rapporto di lavoro e condanna la società al versamento delle retribuzioni maturate a decorrere dalla data di notifica dell’atto introduttivo del giudizio, oltre ad accessori di legge e spese processuali.

2. Il ricorso di Poste italiane s.p.a. domanda la cassazione della sentenza per tre motivi; resiste, con controricorso, D.B. S..

La ricorrente deposita anche memoria ex art. 378 cod. proc. civ., nella quale chiede l’applicabilità dello ius superveniens rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore dal 24 novembre 2010.

Motivi della decisione

1 – Sintesi dei motivi di ricorso.

1.- Con il primo motivo di ricorso, illustrato da quesiti di diritto, si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione: a) della L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23; b) dell’art. 1362 c.c. e segg., in relazione all’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994 nonchè all’accordo 25 settembre 1997 e ai successivi accordi integrativi.

Si sostiene che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale, nel testo dell’accordo 25 settembre 1997 non vi è alcuna traccia della correlazione tra le "esigenze eccezionali" e il processo di ristrutturazione.

Pertanto, la presunta "chiarezza" del tenore letterale del suddetto accordo sarebbe il frutto del pregiudizio del Giudice d’appello rappresentato dall’idea che la L. n. 56 del 1987, art. 23 non consenta all’autonomia collettiva di costruire fattispecie di assunzioni a termine collegate a situazioni (oggettive o soggettive) tipicamente aziendali e non direttamente collegate ad occasioni precarie di lavoro.

2. Col secondo motivo si denuncia omessa e insufficiente motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5).

La società assume che la Corte territoriale, del tutto apoditticamente e illogicamente è giunta alla conclusione della nullità della relativa clausola di apposizione del termine al contratto in oggetto facendo riferimento anzichè alla reale volontà delle le 00.SS., per effetto dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994 e dei successivi accordi integrativi 25 settembre 1997 e 27 aprile 1998, entro il 30 maggio, ad una diversa fonte normativa, cioè alla L. n. 230 del 1962 e così finendo per imporre all’autonomia collettiva i limiti ricavabili dall’art. 1 di tale ultima legge.

3.- Con il terzo motivo, illustrato da quesito di diritto, si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1217 e 1233 cod. civ..

La società ricorrente si duole, infine, che la Corte territoriale abbia omesso qualsiasi verifica in ordine alla rituale costituzione in mora del datore di lavoro, la quale non potrebbe, in ogni caso, desumersi dalla mera istanza per il tentativo di conciliazione.

La ricorrente sottolinea, altresì, come la Corte territoriale non abbia tenuto "conto della possibilità che il lavoratore abbia anche espletato attività lavorativa retribuita da terzi una volta cessato il rapporto di lavoro con la società resistente", disattendendo, peraltro, le richieste della società di ordine di esibizione dei modelli 101 e 740 del lavoratore.

2 – Esame delle censure.

4.- I primi due motivi – da esaminare congiuntamente, data la loro intima connessione – sono da respingere.

4.1.- Deve essere ricordato che in base ad un consolidato orientamento di questa Corte – cui il Collegio intende dare continuità – per i contratti successivi al 30 giugno 1997 (cioè al periodo di applicazione del D.L. 1 ottobre 1996, n. 510, art. 9 convertito dalla L. 28 novembre 1996, n. 608) e anteriori al c.c.n.l.

del 11 gennaio 2001 (nonchè al nuovo regime previsto dal D.Lgs. n. 368 del 2001) vanno applicati i principi più volte affermati da questa Corte in materia, in base ai quali, sulla scia di Cass. S.U. 2 marzo 2006 n. 4588, è stato precisato che l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali e di provare la sussistenza del nesso causale fra le mansioni in concreto affidate e le esigenze aziendali poste a fondamento dell’assunzione a termine (vedi, fra le altre: Cass. 27 luglio 2010, n. 17550; Cass. 8 luglio-2009, n. 15981; Cass. 4 agosto 2008, n. 21063, nonchè Cass. 20 aprile 2006, n. 9245; Cass. 7 marzo 2005, n. 4862; Cass. 26 luglio 2004, n. 14011).

In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo), la relativa inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (vedi, per tutte: Cass. 23 agosto 2006, n. 18383; Cass. 14 aprile 2005, n. 7745; Cass. 14 febbraio 2004, n. 2866), per cui, come ripetutamente affermato da questa Corte, deve ritenersi che in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998, sicchè deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1 (vedi, fra le altre: Cass. 1 ottobre 2007, n. 20608; Cass. 27 marzo 2008, n. 7979; Cass. 27 luglio 2010, n. 17550 cit.).

Peraltro, tale limite temporale (del 30 aprile 1998) non riguarda i contratti stipulati ex art. 8 c.c.n.l. 1994 per necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie (per i quali vedi, fra le altre: Cass. 2 marzo 2007, n. 4933; Cass. 7 marzo 2008, n. 6204; Cass. 28 marzo 2008, n. 8122), mentre, per quanto riguarda la proroga di trenta giorni prevista dall’accordo 27 aprile 1998, per i contratti in scadenza al 30 aprile 1998, la giurisprudenza costante di questa Corte ne ha affermato la legittimità, sulla base della sussistenza, riconosciuta in sede collettiva, delle esigenze contingenti ed imprevedibili, connesse con i ritardi che hanno inciso negativamente sul programma di ristrutturazione (vedi, fra le altre: Cass. 24 settembre 2007, n. 19696).

4.2.- Pertanto correttamente la Corte leccese ha dichiarato la nullità del termine apposto per esigenze eccezionali ecc. al contratto in oggetto, stipulato per il periodo 1 marzo 2000-30 giugno 2000, in quanto intervenuto dopo il 30 aprile 1998.

5 – Anche il terzo motivo non è da accogliere.

Con esso, come si è detto, la società contesta le statuizioni della sentenza impugnata riguardanti le conseguenze economiche della dichiarazione di nullità dell’apposizione del termine.

La ricorrente formula, ad illustrazione del motivo, il seguente quesito di diritto: "Dica la Suprema Corte se per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui all’art. 1206 cod. civ., e segg.".

Come già affermato da questa Corte in analoghe controversie (vedi, per tutte: Cass. 31 gennaio 2012, n. 1412), un simile quesito non è conforme all’art. 366-bis cod. proc. civ. (applicabile ratione temporis) perchè "riguarda soltanto l’argomento della mora credendi e risulta del tutto generico, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso vedi fra le altre Cass. 4 gennaio 2011, n. 80)".

Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v, ad es. Cass. S.U. 5 gennaio 2007, n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. Del resto, è stato anche precisato che "è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie" (vedi Cass. S.U. 30 ottobre 2008, n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (vedi, per tutte: Cass. 7 aprile 2009, n. 8463).

Peraltro neppure può ignorarsi che nella fattispecie anche la illustrazione del motivo risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto si incentra nella doglianza circa la mancanza di una verifica da parte della Corte territoriale sul punto, senza neppure riportare il testo della comunicazione in oggetto, che, secondo l’assunto della società, non avrebbe integrato la messa in mora (nella specie ravvisata dalla Corte di merito nella comunicazione per il tentativo obbligatorio di conciliazione, "ove si rinvengono espressioni atte ad in equivocamente rilevare la volontà del lavoratore di essere ripreso in servizio").

Pertanto, essendo risultato inammissibile il terzo motivo, riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure può incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, (sul quale vedi: Corte cost. n. 303 del 2011).

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (vedi, per tutte: Cass. 31 gennaio 2012, n. 1411; Cass. 8 maggio 2006, n. 10547; Cass. 27 febbraio 2004, n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (vedi, fra le tante: Cass. 31 gennaio 2012, n. 1411; Cass. 4 gennaio 2011 n. 80 cit.).

Orbene, per quel che si è detto, tale condizione non sussiste nella fattispecie.

3. – Conclusioni.

6.- In sintesi, il ricorso va rigettato. La società Poste italiane va condannata al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate nella misura indicata nel dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 30,00 (trenta/00) per esborsi, Euro 3000,00 (tremila/00) per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro, il 7 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 25 giugno 2012

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