Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 28-09-2011) 02-12-2011, n. 44942

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La CdA di Genova, con la sentenza di cui in epigrafe, ha, nei confronti di L.C., confermato la pronunzia di primo grado, con la quale la stessa era stata condannata alla pena di giustizia (oltre risarcimento del danno) perchè riconosciuta colpevole dei delitti di truffa pluriaggravata (capo B), furto pluriaggravato (capo C), falsità in foglio firmato in bianco (art. 486 c.p., capo b) in danno di G.D.F.E..

La L. era funzionario della Banca Popolare di Novara, ag. (OMISSIS), della quale la G.D.F. era cliente.

Secondo quanto ritenuto in sentenza, l’imputata, con artifizi e raggiri, aveva indotto la G., ricevendo in tal modo formale e ampio mandato (compilando abusivamente un documento contenete un atto di procura firmato "in bianco" dalla predetta) per la gestione dei rapporti bancari e degli interessi della anziana cliente sopra indicata; in tal modo si impadroniva dei risparmi della donna, rappresentati da certificati di deposito al portatore; si impadroniva, inoltre, di monete d’oro e preziosi, custoditi nella cassetta di sicurezza di pertinenza della G..

Ricorre per cassazione il difensore e articola sette censure.

Con la prima, indicata come subordinata alle altre, rileva la prescrizione di tutti i reati ascritti alla L..

Con la seconda censura, deduce erronea interpretazione e applicazione del dettato dell’art. 512 c.p.p. in punto di utilizzabilità delle dichiarazioni predibattimentali della G., nel frattempo deceduta. Era stata a suo tempo proposta richiesta di incidente probatorio, in considerazione della età avanzata della donna (86 anni), delle sue condizioni di salute (frattura del femore) e delle non perfette condizioni mnemoniche. Il GIP non ha accolto tale richiesta con motivazione tautologica.

Quattro mesi dopo la G. è deceduta. E’ evidente quindi che, pur in presenza delle condizioni che avrebbero imposto la adozione dell’incidente probatorio, l’imputata è stata, in conseguenza dell’immotivato diniego oppostole, privata della possibilità di far esaminare in contraddittorio, la pretesa PO. I giudici del merito, investiti della questione, la hanno erroneamente risolta. Per altro, nel tentativo di aggirare il problema, hanno sostenuto la natura non essenziale, ai fini del decidere, dell’utilizzo delle dichiarazioni della G.. Così in realtà non è, in quanto la sentenza fa continuo riferimento alle parole della donna.

Con la terza censura, si deduce omessa o viziata motivazione in ordine alla responsabilità per il delitto di truffa, attesa la natura tortuosa del capo di imputazione che identifica gli artifici e raggiri nel rapporto di amicizia tra la L. e la G., rapporto esistente da oltre 15 anni. Erroneamente poi la delega è ritenuta illecita (non è vero che la G. ne ignorasse il contenuto), atteso che essa in realtà rispetta la effettiva volontà della anziana signora. La CdA poi: a) equivoca sulla natura del numero identificativo dei certificati di deposito, numero che non indica il proprietario, ma l’impiegato che li ha emessi, b) trascura il fatto che la imputata, prima di essere informata della denunzia a suo carico, presentò un esposto alla Procura della Repubblica in cui lamentava le indebite pressioni esercitate sulla G. da parte di terze persone e dava conto della ubicazione dei beni, da lei semplicemente amministrati, c) trascura di rilevare la situazione di pressione psicologica che i parenti esercitavano sulla vecchia signora, in vista della successione, d) non ha colto l’insussistenza di un danno patrimoniale effettivo, non potendosi, al proposito, fare uso della impropria consulenza del dott. A., sentito come teste, ma ammesso a formulare giudizi e considerazioni.

Con la quarta censura, deduce la erronea qualificazione del reato sub B), atteso che, a tutto voler concedere, la condotta contestata può essere inquadrata nello schema della appropriazione indebita e non in quello della truffa. Invero, gli artifici e raggiri non possono nè ravvisarsi nella prospettazione di migliori investimenti dei fondi di pertinenza della cliente (di tale condotta non è traccia in atti e, invero, la CdA non indica donde abbia tratto il suo convincimento in merito), nè nel risalente rapporto di amicizia tra le due donne. La L. deteneva i beni della G. col suo consenso (anche quelli custoditi nella cassetta di sicurezza, della quale aveva la chiave). Se dunque se ne è appropriata approfittando della fiducia accordatale, allora ricorre l’aggravante ex art. 61 c.p., n. 11, ma non certamente il delitto di truffa.

Con la quinta censura, deduce la violazione dell’art. 486 c.p., in merito al quale la CdA ha operato anche un travisamento del fatto. La G. non ha mai detto di non avere rilasciato la delega, ma di non ricordarne la ampiezza. Dunque non si può arbitrariamente giungere alla conclusione che ci sia stato un abuso di un foglio firmato in bianco, atteso che tale abuso si ha quando non è rispettata la volontà del sottoscrittore.

Con la sesta censura, si deduce erronea applicazione degli artt. 624 e 625 c.p., atteso che la imputata deteneva la chiave della cassetta di sicurezza, consegnatale dalla G.. Anche in questo caso, a tutto voler concedere, trattasi di appropriazione indebita.

Con la settima censura, si deduce omessa motivazione e violazione di norme processuali in ordine alla conferma della esistenza di un danno in capo agli eredi della PO; trattasi di convincimento mutuato da un atto del procedimento, vale a dire dalla cd. "relazione" del dott. A., ex curatore della eredità giacente della G.. Costui ha svolto accertamenti per suo conto e al di fuori di ogni contraddittorio. Il patrimonio ereditario, comunque, non ha subito alcuna deminutio e i beni non sono stati sottratti agli aventi diritto.

Il 25.4.2011, con atto a firma della L., è stata trasmessa copia fotostatica di un "atto di diffida" redatto il 16.10.2002 dall’avv. D. Moscia e a firma della G., con il quale si vietava a parenti e congiunti della donna di "ingerirsi e prendere iniziative di sorta in relazione alla verifica dello stato di salute, anche mentale, alla gestione del patrimonio …. rientrante nella sfera assolutamente privata" della G.. Si inibiva ai predetti anche di vistare la donna all’epoca ricoverata in casa di cura.

Motivi della decisione

La seconda censura è inammissibile per genericità.

Nè dalle sentenze di merito, nè dal ricorso, si deduce che la morte della G. sia stata conseguenza di una condizione patologica collegata all’età avanzata. Nè può condividersi il principio, implicitamente sostenuto nel ricorso, in base al quale, in presenza di persona non più giovane, si debba fare – sistematicamente e acriticamente – ricorso all’incidente probatorio. La dedotta inutilizzabilità delle dichiarazioni predibattimentali della donna, ad evidenza, quindi, non sussiste. La terza e la quarta censura sono infondate.

Il capo di imputazione sub B) non si distingue certamente per concisione e nitore stilistico, ma sicuramente non è incomprensibile.

La condotta addebitata alla L. è chiara: approfittando della risalente conoscenza/amicizia con la G. e del fatto di essere funzionario dell’istituito di credito del quale la G. era cliente, l’imputata si fece rilasciare una "anomala" procura generale, raccolta all’insaputa dei colleghi e, per di più, compilata con modalità non conformi a quelle dettate (ad uso interno) dal predetto istituto. Tale condotta è stata, non certo illogicamente, considerata un artifizio, mentre la prospettazione di maggiori vantaggi economici, che sarebbero derivati – secondo quanto l’imputata falsamente affermava – dalla adozione di nuovi "investimenti", vantaggi in realtà inesistenti, è stata ritenuta dai giudici del merito condotta integrante un raggiro nei confronti della G.. Costei, fidandosi ciecamente della sua "amica", la autorizzò, con la predetta procura, ad operare sui suoi conti, le affidò la chiave della cassetta di sicurezza e, in pratica, abdicò a qualsiasi controllo sull’operato della procuratrice. Sempre secondo la ipotesi di accusa, cristallizzata nel capo di imputazione e motivatamente fatta propria dalla CdA, la L. (e il direttore della filiale) si appropriarono dei beni della cliente, stornando e non rinnovando certificati di deposito al portatore, trasferendo il contenuto della cassetta in altra banca (non a nome della G.), stipulando, con l’utilizzo di fondi della G., polizze assicurative a loro favore.

La sentenza impugnata, poi, dà atto del fatto che la ricorrente effettivamente presentò un esposto alla Procura della Repubblica relativo a pretese pressioni che la G. avrebbe subito ad opera dei suoi familiari, tentando, al contempo di spiegare la sua condotta, ma ciò fece essendo venuta a conoscenza del fatto che gli ispettori della banca stavano eseguendo accertamenti in merito all’anomalo rapporto che ella aveva instaurato con la anziana cliente.

Analogo discorso va fatto per la "diffida" (cfr. note difensive del 25.4.2011), che è posteriore ai fatti ed è comunque irrilevante, atteso che, se anche fosse vero che i parenti della G. avevano mire sul suo patrimonio e agissero per accaparrarselo post mortem, o, addirittura, quando la predetta era ancora in vita, ciò certamente non varrebbe a giustificare l’operato truffaldino della L..

Quanto alle dichiarazioni dell’ A., per quel che si comprende dalla sentenza impugnata e dallo stesso ricorso, il predetto ha riferito dati e situazioni patrimoniali personalmente accertate; si tratta quindi di fatti (valutabili dal giudice), non di opinioni (formulate dal teste).

E’ appena il caso di osservare che il contraddicono "potenziale" non è mancato, in quanto l’ A. ben poteva essere esaminato o controesaminato dalla Difesa.

La quinta censura è inammissibile per manifesta infondatezza.

Quale che fosse l’opinione o il ricordo della G., la sentenza di appello mette in evidenza che le stesse modalità di compilazione della procura rendono manifesto che essa fu compilata carpendo il consenso della donna. D’altra parte, se, come si sostiene nello stesso ricorso, costei non ne ricordava "l’ampiezza", è evidente che, in considerazione di tutto il contesto in cui i fatti si svolsero, tale "ampiezza" era esattamente funzionale agli scopi che la L. voleva raggiungere, così come era funzionale che la G. non sapesse con precisione quali fossero i limiti di operatività della sua procuratrice.

La sesta censura è fondata.

La condotta descritta al capo C) va correttamente riqualificata come appropriazione indebita aggravata.

E’ evidente che, se un terzo si impossessa dei beni contenuti in una cassetta di sicurezza allocata in banca, si tratta di furto.

In tal caso, ha ritenuto la giurisprudenza (ASN 199007598-RV 184479) la qualità di soggetto passivo del reato viene assunta dalla banca, mentre i titolari delle singole cassette assumono quella di danneggiati dal reato (atteso che la condotta dell’agente pregiudica il rapporto di fatto con la cosa ed il potere di vigilanza e custodia su di essa esercitato dall’istituto di credito).

Se poi ad impadronirsi del contenuto della cassetta è un dipendete della banca, che approfitti della sua posizione, la qualificazione giuridica non muta (tranne per quel che riguarda la sussistenza della aggravante ex art. 61, n. 11), trattandosi di situazione sostanzialmente analoga a quella in cui il dipendente di una banca si impossessi, mediante movimentazioni effettuate con i terminali dell’ufficio, di somme di danaro di clienti, depositate in conti correnti (come affermato da ASN 200732543-RV 237175).

In entrambi i casi, invero, si verifica l’impossessamento da parte dell’agente (e lo spossessamento in danno del proprietario), tramite la effrazione della cassetta, l’uso non conforme di chiavi in possesso dell’istituto di credito, ovvero la "manomissione elettronica" del conto del cliente.

Diversa tuttavia è l’ipotesi in cui (come nel caso in esame) il dipendente della banca abbia ottenuto dal cliente la chiave della cassetta di sicurezza, dal momento che tale traditio sta a significare – a meno che non sia diversamente convenuto – l’autorizzazione ad aprire la cassetta e, salvo prova del contrario, a disporre (si intende nell’interesse del titolare) del suo contenuto. In tal caso, invero, deve giungersi alla conclusione che l’agente abbia il possesso della cassetta e dei beni in essa custoditi.

Tanto premesso e chiarito, deve rilevarsi come per (tutti) i reati ascritti alla ricorrente il termine di prescrizione sia decorso e come, in presenza di ricorso non inammissibile, a tale prescrizione si debba dar corso.

Restano salvi tuttavia gli effetti civili della sentenza impugnata, dovendo, sotto tale aspetto, essere rigettato il ricorso, anche in considerazione della infondatezza della settima censura, atteso che il patrimonio della G. è stato effettivamente intaccato (basterebbe por mente alle due polizze assicurative), laddove il suo recupero è un mero post factum, penalmente irrilevante.

Conclusivamente, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio, essendo i reati (a seguito della riqualificazione nel senso sopra indicato di quello sub c) estinti per prescrizione; il ricorso va rigettato agli effetti civili e la ricorrente va condannata al ristoro delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dalle costituite PP.CC., spese che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Qualificato il fatto di cui alla lett. c) della rubrica come appropriazione indebita, aggravata ai sensi dell’art. 61 c.p., n. 11, annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere tutti i reati estinti per prescrizione; rigetta il ricorso agli effetti civili e condanna la ricorrente alla rifusione alle parti civili, M. R., S.I., Sp.Mi., Mo.Ri., delle spese e compensi per questo grado di giudizio, che liquida per ciascuna di esse in complessivi Euro duemilacinquecento (2500), oltre accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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