Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 25-06-2012, n. 10504 Arbitrato estero ed internazionale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il 25 febbraio 2004 il presidente del Tribunale di Sondrio, accogliendo un ricorso della Imi Fabi s.p.a., ingiunse con decreto alla società (OMISSIS) Hipro Trading Handels GmbH (in prosieguo indicata solo come Hipro Trading) di corrispondere alla ricorrente la somma di Euro 427.374,50, costituente il saldo del prezzo di acquisto di alcune partite di talco.

La società ingiunta propose opposizione eccependo, tra l’altro, l’esistenza di una clausola contrattuale in base alla quale la controversia avrebbe dovuto essere devoluta al Tribunale arbitrale internazionale di Vienna. L’eccezione fu però disattesa dal Tribunale di Sondrio, che rigettò l’opposizione.

Ma la Hipro Trading interpose gravame, e la Corte d’appello di Milano, con sentenza resa pubblica il 12 ottobre 2009, riformò la decisione di primo grado e dichiarò improponibile la domanda avanzata dalla Imi Fabi col ricorso monitorio revocando, di conseguenza, il decreto ingiuntivo.

A fondamento di tale pronuncia la corte milanese osservò che la clausola arbitrale – da ritenersi valida e ritualmente pattuita – appariva riferibile anche alla controversia in esame, potendosi desumere dalle stesse premesse del ricorso per ingiunzione che le forniture di talco, del cui prezzo era stato chiesto il pagamento, rientrassero nella previsione del contratto "di distribuzione" in cui la clausola era contenuta, nè essendo ciò affatto incompatibile con l’attività di procacciamento d’affari che la Hipro Trading si era impegnata contrattualmente a svolgere in favore della controparte.

Per la cassazione di questa sentenza la Imi Fabi ha proposto ricorso, formulando quattro motivi di doglianza, ai quali la Hipro Trading ha replicato con controricorso.

Inizialmente instradato alla trattazione camerale, il ricorso è stato poi rimesso all’esame in pubblica udienza delle Sezioni unite a seguito di ordinanza della prima sezione di questa corte del 26 marzo 2012, n. 4858.

Motivi della decisione

1. E’ stata eccepita l’inammissibilità del ricorso, perchè proposto avverso una sentenza, non notificata, dopo l’intervenuta scadenza del termine semestrale previsto dall’art. 327 c.p.c., comma 1 come modificato dalla L. n. 69 del 2009.

L’eccezione è infondata.

Il termine di decadenza, che a citata disposizione dell’art. 327 originariamente fissava in un anno dalla data di pubblicazione della sentenza impugnata, è stato dimezzato dalla L. n. 69 del 2009, art. 46, comma 17. Il successivo art. 58, comma 1, stabilisce però che, fatte salve le eccezioni indicate nei commi seguenti, le modifiche apportate dalla medesima legge al codice di procedura civile – tra le quali non pare dubbio sia da comprendere anche quella riguardante la citata disposizione dell’art. 327 – si applicano ai giudizi instaurati dopo l’entrata in vigore di detta legge. L’espressione "giudizi instaurati" allude al momento in cui il giudizio inizia il suo corso, ossia al momento introduttivo del procedimento di primo grado. Ne consegue che il termine di decadenza previsto per l’impugnazione dei provvedimenti non notificati continua ad essere annuale, ancorchè la sentenza impugnata con appello o ricorso per cassazione sia stata pronunciata dopo il 4 luglio 2009, data di entrata in vigore della citata L. n. 69 del 2009, in tutti i casi nei quali il giudizio di primo grado era stato intrapreso già prima di quella data; e che solo per i giudizi instaurati ab initio dopo la medesima data quel termine è invece divenuto semestrale.

Non osta a tale conclusione – anzi indirettamente la conferma – la circostanza che l’ultimo comma del menzionato L. n. 69 del 2009, art. 58 faccia decorrere dalla data di pubblicazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione il momento a partire dal quale trovano applicazione le modifiche procedurali contemplate dal precedente art. 47. La distinzione in tal modo operata tra il regime transitorio cui soggiacciono le innovazioni introdotte dall’art. 46 e quelle di cui al successivo art. 47 esclude, per l’appunto, che la regola stabilita per le seconde possa essere applicata anche alle prime: esclude, quindi, che il dimezzamento del termine decadenziale posto dall’art. 327 c.p.c., comma 1 per ogni tipo d’impugnazione sia soggetto ad una norma transitoria destinata a regolare, in via di eccezione, soltanto le modifiche apportate alle disposizioni riguardanti profili processuali esclusivi del ricorso per cassazione.

Posto, allora, che la data d’instaurazione del procedimento monitorio va individuata in quella del deposito del ricorso, con la conseguenza che le controversie di opposizione a decreti ingiuntivi, emessi su ricorsi depositati anteriormente al 4 luglio 2009 sono soggette alle disposizioni del codice di procedura civile e a quelle di attuazione dello stesso codice anteriori alle modifiche introdotte da detta legge (in tal senso Cass. 21 luglio 2011, n. 16005), non può esservi dubbio sul fatto che, nella presente vertenza, il termine di decadenza entro cui proporre il ricorso per cassazione, a norma del citato art. 327 c.p.c., comma 1 fosse di un anno a partire dal deposito in cancelleria della sentenza d’appello impugnata.

Detto termine risulta essere stato rispettato.

2. I quattro motivi del ricorso possono essere esaminati congiuntamente, perchè, sia pure da angoli di osservazione in parte differenti, ruotano tutti intorno alla medesima questione: se la clausola di arbitrato internazionale che la corte d’appello ha ritenuto ostativa all’esame della vertenza ad opera del giudice italiano adito col ricorso monitorio sia davvero riferibile al rapporto controverso o sia invece – come la ricorrente sostiene – ad esso estranea.

Questione ulteriore, sollevata dalla controricorrente, ma ovviamente da trattare solo nell’eventualità di accoglimento delle doglianze espresse nel ricorso, è poi quella dell’individuazione del corretto criterio di collegamento in base al quale, in difetto di previsioni arbitrali, dovrebbe identificarsi il giudice ordinario fornito di giurisdizione ne caso in esame.

3. La ricorrente insiste nell’affermare che la controversia avente ad oggetto il pagamento delle forniture di talco alle quali il decreto ingiuntivo si riferisce è estranea alla previsione del contratto a suo tempo stipulato tra le parti, nel quale è contenuta la clausola per arbitrato internazionale. Quel contratto sarebbe valso infatti ad instaurare un rapporto di agenzia, in forza del quale la Hipro Trading era impegnata a commercializzare i prodotti della Imi Fabi, agendo per conto ed in nome di questa, ma non avrebbe anche contemplato atti di acquisto di tali prodotti direttamente da parte della stessa Hipro Trading. Tali acquisti sarebbero dunque avvenuti su una base contrattuale diversa e senza perciò la possibilità d’invocare, anche riguardo ad essi, una clausola arbitrale rigorosamente circoscritta al contratto di agenzia. Donde la denunciata violazione delle norme in tema di giurisdizione (primo motivo del ricorso) e di interpretazione dei contratti (secondo motivo), nonchè la doglianza per vizi di motivazione della sentenza impugnata (terzo motivo), oltre alla falsa applicazione dell’art. 2730 c.c. che la ricorrente imputa alla corte d’appello per avere inesattamente ravvisato nel tenore del ricorso per ingiunzione affermazioni contrarie alla tesi dianzi riferita.

4. Giova premettere che la questione se l’azione civile esercitata in presenza di un compromesso o di una clausola compromissoria che prevedano il ricorso ad un arbitrato estero investa il tema della giurisdizione, ovvero soltanto quello della proponibilità della domanda, pur se ampiamente discussa dalle parti, appare priva di effettivo rilievo decisivo nel presente giudizio. Non ne discendono conseguenze, infatti, sull’esito del ricorso per cassazione: che non da essa dipende, bensì dall’essere o meno la vertenza in esame compresa nella clausola arbitrale della quale si è già ampiamente discusso nelle fasi di merito, assumendo valore soltanto nominativo lo stabilire se l’eventuale operatività di tale clausola abbia precluso al giudice adito di decidere sul fondo della controversia per ragioni qualificabili come di giurisdizione oppure tali da configurare un difetto di proponibilità della domanda.

5. Decisivo è, invece, lo stabilire se la fornitura di merce il cui prezzo è stato richiesto con il ricorso per ingiunzione sia riconducibile al più ampio rapporto contrattuale intercorso tra le parti – il cosiddetto Distribution agreement -, comprensivo anche dell’obbligo dell’una parte di operare quale agente dell’altra e di quest’ultima di remunerare le prestazioni poste in essere a questo titolo dalla prima, o se si sia invece trattato di rapporti giuridici autonomi e diversi. Essendo la clausola arbitrale contenuta unicamente nel suindicato Distribution agreement, è evidente che dalla risposta al suddetto quesito dipende l’applicabilità o meno di tale clausola alla controversia sul pagamento delle forniture in esame.

Di come la questione sia stata risolta dal giudice d’appello s’è già detto, e questa corte reputa di dover senz’altro escludere che quella decisione si ponga in contrasto con le regole legali di ermeneutica contrattuale.

La corte di merito non ha affatto negato che il contratto nel quale era compresa la clausola arbitrale prevedesse lo svolgimento di quelle attività che la ricorrente riconduce al paradigma del rapporto di agenzia con rappresentanza. Ha però ritenuto – escludendo in modo espresso che possa ravvisarsi una qualche incompatibilità tra le due prestazioni – che il medesimo contratto comprendeva anche la possibilità di vendita diretta dalla committente all’agente del prodotto in questione; ed una simile conclusione, evidentemente, si giustifica in base ad un’accezione più ampia dell’attività di "commercializzazione" di quel prodotto ("to market the product"), che la stessa ricorrente riferisce essere stata prevista nel contratto in aggiunta alla "vendita in nome e per conto" ("to negotiate sales for the Producer in his name").

Non v’è in siffatta lettura della volontà espressa dalle parti nel contratto alcuna violazione di regole giuridiche, e la relativa motivazione, ancorchè sintetica ed in parte solo implicita, è nondimeno sufficientemente chiara e non illogica nè contraddittoria, specie ove si consideri che l’opposta tesi, sostenuta dalla difesa della Imi Fabi, secondo cui le forniture di talco di cui si controverte sarebbero riconducibili a rapporti contrattuali autonomi e diversi, non si basa invece su alcun supporto documentale che valga a dare evidenza a tali ulteriori rapporti, perchè la mera produzione in giudizio della relative fatture nulla dimostra quanto al presupposto contrattuale delle prestazioni fatturate.

Stando così le cose, non assume rilievo decisivo la questione se, nel ricorso per ingiunzione, la Imi Fabi avesse o meno fatto a propria volta riferimento al contratto contenente la più volte richiamata clausola arbitrale; nè, comunque, ad un siffatto riferimento la corte d’appello ha certo attribuito il valore di prova legale proprio di una confessione, onde neppure le doglianze della ricorrente in ordine all’applicazione dell’art. 2730 c.c. colgono nel segno.

6. Il ricorso, pertanto, deve esser rigettato, con conseguente condanna della società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 9.000,00 per onorari e 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 5 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 25 giugno 2012

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