Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 26-09-2011) 02-12-2011, n. 44933 Bancarotta fraudolenta

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 15 dicembre 2009 la Corte d’Appello di Cagliari, confermando la decisione assunta dal Tribunale di Lanusei, ha riconosciuto P.G., G.O. e O. G. responsabili del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale in relazione al fallimento della società Kira Sarda Shoes s.r.l., della quale il primo era stato presidente del consiglio di amministrazione, mentre gli altri due ne erano stati consiglieri.

Secondo l’ipotesi accusatoria, recepita dal giudice di merito, i fatti di distrazione erano consistiti in alcuni pagamenti apparentemente fatti ad altre società in base a fatture, che tuttavia erano risultate corrispondere a operazioni inesistenti; nel trasferimento di rilevanti somme dal conto corrente della società a quello personale cointestato ai fratelli G.; nel dirottamento dei contributi concessi dalla Regione Sardegna a vantaggio di altri soggetti giuridici inesistenti, o comunque non aventi titolo per ricevere tali rimesse.

Hanno proposto separati ricorsi per cassazione gli imputati, ciascuno per le ragioni di seguito esposte.

Nell’interesse di P.G. sono stati presentati motivi distinti dai due difensori, Avv.ti Lisandro Coppini e Giannetto Soddu.

Nell’atto sottoscritto dall’Avv. Coppini il primo motivo si traduce nell’eccezione di nullità della sentenza di appello per omessa riproduzione del capo d’imputazione. Il secondo motivo deduce l’insussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo del reato, facendo perno per un verso sulle molteplici risultanze testimoniali confermative dell’esistenza di un credito dei G. verso la società, a giustificazione dei pagamenti effettuati in loro favore;

e per altro verso sul buon andamento dell’impresa, che all’epoca dei fatti non poteva far presagire il fallimento sopravvenuto soltanto due anni dopo. Col terzo motivo il ricorrente contesta l’applicabilità alla bancarotta impropria, di cui alla L. Fall., art. 223, dell’aggravante ad effetto speciale prevista dall’art. 219, comma 1 della stessa legge solo per il fallimento dell’imprenditore individuale. Col quarto motivo denuncia inosservanza del principio di correlazione fra contestazione e condanna in dipendenza del mancato coordinamento fra il capo d’imputazione, relativo a false comunicazioni sociali, e i fatti distrattivi posti a base dell’affermazione di responsabilità.

Nell’atto depositato dall’Avv. Soddu i motivi di ricorso sono due.

Col primo si deduce l’insussistenza del dolo, sul presupposto della legittimità dei pagamenti effettuati a favore dei G., giusta le risultanze istruttorie specificatamente indicate. Col secondo si eccepisce l’inapplicabilità alla bancarotta impropria dell’aggravante L. Fall., ex art. 21, comma 1.

Anche nell’interesse di G.O. sono stati presentati due ricorsi. Quello a firma dell’Avv. Franco Di Riccio è affidato a quattro motivi così sintetizzabili: 1) nullità della sentenza di appello per mancanza del capo d’imputazione; 2) insussistenza degli elementi costitutivi del reato e inversione dell’onere probatorio; 3) inapplicabilità dell’aggravante del danno di rilevante gravità; 4) inosservanza del principio di correlazione fra contestazione e condanna. Il ricorso a firma dell’Avv. Pietro Pittalis si fonda su due motivi: col primo il ricorrente deduce l’insussistenza di prova circa un suo coinvolgimento in atti distrattivi realizzatisi quando egli era estraneo all’amministrazione della società; lamenta inoltre, a sua volta, che si sia fatto luogo a un’inversione dell’onere probatorio; col secondo motivo insiste anch’egli sull’inapplicabilità dell’aggravante L. Fall., ex art. 219, comma 1, al reato di bancarotta impropria.

Il ricorso nell’interesse di G.O., infine, è articolato in quattro motivi, ripetitivi di quelli illustrati nel ricorso proposto dall’Avv. Di Riccio per G.O..

Vi è agli atti una memoria difensiva, presentata dall’Avv. Soddu nell’interesse del P., ulteriormente illustrativa del motivo di ricorso riguardante la dedotta inapplicabilità dell’aggravante L. Fall., ex art. 219 comma 1.

RITENUTO IN DIRITTO Esaminando le questioni dedotte nel corretto ordine logico, viene per prima in considerazione l’eccezione di nullità della sentenza di appello per mancata riproduzione dei capi d’imputazione.

L’inferenza è da rigettare. Ad illustrarne l’infondatezza basti il richiamo al principio affermato, in un caso sovrapponibile a quello di cui ci si occupa, dalla sentenza n. 1137 in data 17 dicembre 2008 di questa stessa sezione: "La mancata o incompleta indicazione in sentenza – nel caso di specie di appello – del capo di imputazione non ne determina la nullità, in quanto l’enunciazione dei fatti e delle circostanze ascritti all’imputato può essere desunta dal contenuto complessivo della decisione". L’applicazione della regula iuris or ora richiamata induce al rigetto dell’eccezione, atteso che dal contesto della sentenza impugnata ben si comprende come l’imputazione abbia riguardato il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, essendo questa consistita nell’apparente pagamento a favore di terzi di fatture emesse per operazioni in realtà inesistenti, nel trasferimento di somme dal conto corrente della società a quello degli imputati G., nel dirottamento dei contributi concessi dalla Regione Sardegna.

Altra eccezione di rito è quella con cui i ricorrenti, invocando il principio di necessaria correlazione fra contestazione e condanna, lamentano che pur dopo il proscioglimento – statuito già in prime cure – dall’imputazione L. Fall., ex art. 223, in relazione all’art. 2621 c.c., si sia pervenuti alla loro condanna per atti di distrazione non contestati come tali, atteso che l’impianto della contestazione era rimasto invariato nel riferimento a condotte proprie del falso in bilancio.

L’infondatezza di tale linea argomentativa è stata già ben evidenziata dalla Corte d’Appello, col rilevare che tutti gli episodi di distrazione posti a base dell’affermazione di penale responsabilità erano già fedelmente riportati nel decreto di rinvio a giudizio. A tale corretto rilievo null’altro vi è da aggiungere, se non rimarcare che il principio di correlazione fra contestazione e condanna viene violato soltanto se la condanna sia emessa per fatti ontologicamente diversi da quelli enunciati nell’editto accusatorio recepito nel decreto di rinvio a giudizio, ovvero contestati in udienza ex art. 516 c.p.p..

Proseguendo nella disamina delle doglianze, vengono in considerazione le contestazioni mosse in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato ascritto agli imputati.

Dal punto di vista della materialità del fatto-reato, l’inferenza si volge a contrastare il giudizio di infondatezza dell’assunto a tenore del quale i trasferimenti di somme dal conto corrente bancario della società a quello intestato ai fratelli G. avrebbero avuto la finalità di soddisfare i corrispondenti crediti vantati da costoro per conto di un’altra loro società, denominata Kira Shoes e avente sede a (OMISSIS). Lamentano i ricorrenti che il giudice di merito abbia dato luogo a una vera e propria inversione dell’onere probatorio, avendo fondato il proprio convincimento sulla ritenuta inadeguatezza delle prove dichiarative fornite al riguardo dalla difesa, dimenticando che era l’accusa a dover provare la colpevolezza degli imputati.

L’assunto non può essere condiviso. Secondo un principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, una volta provato dall’accusa che un determinato bene appartenente all’impresa poi fallita sia entrato nella disponibilità dell’amministratore, se ne presume la distrazione se l’autore del fatto non provi di avervi dato legittima destinazione (Cass. 27 novembre 2008 n. 7048; 5 dicembre 2004 n. 3400/05; Cass. 10 giugno 1998 n. 2876/99). Ne consegue che la Corte territoriale, valorizzando l’accertato prelievo di denaro appartenente alla società per metterlo a disposizione del conto personale intestato ai G., nonchè l’insussistenza di una valida causale per tale trasferimento di fondi, non è incorsa in una indebita inversione dell’onere della prova, ma ha dato corretta applicazione al criterio di accertamento del reato che informa la regula iuris testè ricordata.

Se poi la rilevata carenza di prova sia condivisibile o meno, alla stregua delle risultanze istruttorie, è questione che attiene al giudizio di merito e che perciò si sottrae al sindacato della Corte di Cassazione; in proposito si può soltanto osservare come sia giuridicamente corretto il rilievo mosso dalla Corte d’Appello col rimarcare che il rapporto di debito-credito dedotto dalla difesa, siccome assertivamente instauratosi fra due società commerciali, secondo la logica e il diritto avrebbe dovuto trovare riscontro, se esistente, nelle scritture contabili.

Dal punto di vista dell’elemento psicologico del reato, la linea difensiva dei ricorrenti si attesta sulla dedotta insussistenza del dolo specifico. Essa, peraltro, s’infrange nel principio giuridico unanimemente accolto dalla giurisprudenza, secondo cui il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non richiede il dolo specifico, ma si perfeziona con il dolo generico, ossia con la consapevolezza di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (così, da ultimo, Cass. 14 gennaio 2010 n. 11899; v. anche Cass. 2 ottobre 2009 n. 49635; Cass. 30 gennaio 2006 n. 7555; Cass. 9 marzo 1999 n. 4424).

Neppure giova addurre, come si legge nelle difese del P., che all’epoca dei fatti lo stato d’insolvenza non si fosse ancora manifestato; infatti ad integrare il reato non è richiesta la conoscenza dello stato d’insolvenza dell’impresa, in quanto ogni atto distrattivo viene ad assumere rilevanza ai sensi della L. Fall., art. 216, in caso di fallimento, indipendentemente dalla rappresentazione di quest’ultimo. Qualora, poi, la deduzione debba intendersi rapportata alla asserita insussistenza del dissesto all’epoca dei fatti, così implicitamente evocandosi la teoria cd. della "zona di rischio penale" (come porta a ritenere l’accenno al buon andamento dell’impresa fino al settembre 1994), ugualmente deve essere disattesa in quanto, per la speciale configurazione del precetto, la protezione penale degli interessi creditori è assicurata mediante la sua connotazione di reato di pericolo. L’offesa penalmente rilevante è conseguente anche all’esposizione dell’interesse protetto alla probabilità di lesione, onde la penale responsabilità sussiste non soltanto in presenza di un danno attuale ai creditori, ma anche nella situazione di messa in pericolo dei loro interessi. Conseguentemente, il delitto di bancarotta non impone contestualità tra l’azione antidoverosa ed il pregiudizio derivante dalla stessa, ma ammette anche uno sfasamento temporale, se esso non elide il portato dannoso dell’azione: sicchè la tutela penale dispiega la sua efficacia retroattivamente, risalendo a ritroso, a far data dalla dichiarazione di fallimento, ricapitolando ogni passaggio della gestione dell’impresa fallita nel pregiudizio che viene accertato al momento della dichiarazione di insolvenza con la verifica delle passività gravanti sulla stessa (v. Cass. 22 ottobre 2009 n. 49686, in motivazione).

Non può trovare accoglimento, per un duplice ordine di ragioni, la censura con la quale G.O. lamenta che gli sia stata addossata la responsabilità per atti distrattivi realizzatisi in epoca nella quale – così egli deduce col primo motivo del ricorso a firma dell’Avv. Pittalis – l’amministrazione della società era in capo ad altri soggetti. Sotto un primo profilo, invero, la doglianza in questione tende a denunciare l’errata applicazione della norma incriminatrice a una fattispecie estranea alla sua previsione, così prospettando una violazione di legge che, per essere rimasta estranea ai motivi di appello, è preclusa in questa sede (art. 606 c.p.p., comma 3); sotto un secondo profilo essa non tiene conto del fatto accertato dal giudice di merito, consistito nel concorso del deducente, quale percettore delle somme distratte, negli episodi concretatisi nel trasferimento di fondi dal conto corrente della società a quello personale dei fratelli G..

A conclusione della disamina viene in osservazione il motivo, comune a tutti i ricorrenti, con cui si censura l’applicazione dell’aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità ad una fattispecie che, rientrando nella previsione della L. Fall., art. 223, comma 1, dovrebbe in thesi esulare dall’area di operatività dell’art. 219 della citata legge: il quale infatti non è ivi richiamato, a differenza dell’art. 216. In ciò dovrebbe ravvisarsi un indebito ricorso all’analogia, vietato in materia penale per disposto dell’art. 14 disp. gen. (cd. preleggi).

La tesi giuridica cui la censura si appoggia non ha fondamento. Essa trova confutazione nella più recente giurisprudenza di questa Corte Suprema, la quale, con le sentenze di questa stessa sezione n. 17690 del 18 febbraio 2010 e n. 30932 del 22 giugno 2010, venendo in consapevole contrasto con Cass. 18 dicembre 2009 n. 8829/10, ha affermato il principio secondo cui "in tema di reati fallimentari, la circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità di cui alla L. Fall., art. 219, comma 1, è applicabile alle ipotesi di bancarotta impropria previste dalla L. Fall., art. 223, comma 1".

Si è osservato in quei deliberati, nell’esporre le ragioni dell’approdo ermeneutico qui condiviso, che la diversa struttura del reato di bancarotta cd. "impropria" di cui alla L. Fall., art. 223, rispetto alla fattispecie "propria" contemplata dal precedente art. 216, non può condurre ad una indiscriminata preclusione verso l’applicazione dell’aggravante di cui si discute; e ciò in quanto il primo comma del citato art. 223, contenendo un rinvio formale a tutti i reati di bancarotta propria puniti dagli artt. 216 e 217 della legge, rende compatibile l’applicazione dell’aggravante in virtù del "raccordo normativo tra la norma incriminatrice e la statuizione della L. Fall., art. 219 comma 1, costituito dall’inciso che rinvia alle "pene stabilite dall’art. 216": inciso che si coniuga con quello della L. Fall., art. 219, disposizione quest’ultima che richiama la prima" (così la citata Cass. 22 giugno 2010 n. 30932).

La linea argomentativa che informa i precedenti giurisprudenziali testè richiamati, pienamente condivisibile e dunque qui ribadita, rende ragione della correttezza della conclusione raggiunta per via di interpretazione estensiva, senza che si renda necessario il ricorso all’analogia, certamente vietato in subiecta materia.

La soluzione adottata ha anche il pregio di evitare la disparità di trattamento che, diversamente opinando, si realizzerebbe a discapito dell’imprenditore individuale rispetto all’amministratore di società, in rapporto ad illeciti di pari gravità (se non più gravi nel caso del soggetto societario): il che, sebbene non possa costituire il criterio dominante nella ricostruzione della voluntas legis, vale comunque a confortare l’esito interpretativo raggiunto.

Il rigetto dei ricorsi, che inevitabilmente consegue alle considerazioni fin qui svolte, comporta la condanna di ciascuno dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

la Corte rigetta i ricorsi e condanna ciascuno dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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