Cass. pen. Sez. feriale, Sent., (ud. 01-09-2011) 02-12-2011, n. 45007

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

V.M. ricorre personalmente per cassazione, avverso la sentenza emessa il 29 ottobre 2010 dalla Corte d’appello di Bologna a conferma della sentenza 22 ottobre 2007 del Tribunale di Ravenna – Sezione staccata di Faenza che lo aveva riconosciuto responsabile del delitto di truffa commesso in (OMISSIS), per aver ottenuto da C.A. l’equivalente in contanti della somma di Euro 7.500, portata da un assegno, traendo questi in errore, con artifizi e raggiri, sulla genuinità e regolarità del titolo che invece recava la firma apocrifa di trenza del padre del V. che, in tal modo, si procurava un ingiusto profitto con danno del prenditore.

Secondo i Giudici d’appello la responsabilità dell’imputato discendeva dall’avvenuta monetizzazione dell’assegno, essendo peraltro emerso che i due si erano accordati per un apposito incontro in vista del quale il C. si era procurato la somma di danaro.

Nè la truffa avrebbe potuto dirsi esclusa anche qualora l’assegno fosse stato consegnato in pagamento di un debito di gioco, a nulla rilevando che trattavasi di adempimento di obbligazione naturale, comunque integrando la consegna di un assegno con firma contraffatta, artifizio e raggiro finalizzato al conseguimento di ingiusto profitto con danno del creditore tratto con tale condotta in errore quanto alla genuinità del titolo ceduto in pagamento.

Censura l’imputato la sentenza impugnata deducendo vizi di violazione della legge processuale e di per difetto e/o illogicità della motivazione, da esaminarsi congiuntamente e così sintetizzati.

La Corte distrettuale, ad avviso del ricorrente, avrebbe erroneamente attribuito credibilità alla versione dei fatti resa dalla parte offesa C. anzichè a quella fornita dallo stesso imputato che aveva sostenuto che il rapporto causale sottostante alla dazione del titolo risiedeva nel pagamento di un debito di gioco contratto con il C. che nessuna obiezione ebbe a sollevare circa l’adempimento dello stesso, tramite consegna di assegno bancario. Trattandosi di obbligazione naturale, con impossibilità per il creditore di conseguirne giudizialmente l’adempimento, questi sarebbe stato indotto, contrariamente al vero, ad inventare una diversa giustificazione del rapporto sottostante. In difetto di arricchimento con altrui danno, difetterebbe quindi il delitto di truffa.

Inoltre i Giudici d’appello, secondo il ricorrente, avrebbero dovuto ritenere comunque insussistente il delitto di truffa mancando una condotta – connotata da artifizi e raggiri – volta ad ingannare la parte offesa, indotta a compiere un atto di disposizione patrimoniale per sè, pregiudizievole. Il ricorrente aveva in realtà omesso qualsivoglia attività volta a creare nel C. l’apparenza della genuinità del titolo – onde indurlo ad accettarlo – essendosi unicamente limitato a consegnare l’assegno in pagamento di un debito di gioco, senza avere il dovere giuridico di corrispondere l’importo della vincita, nella speranza che lo stesso fosse negoziato dalla banca, ben sapendo che il conto corrente intestato al padre era capiente.

Impugna infine il ricorrente anche le statuizioni civili della sentenza relative alla condanna generica al risarcimento del danno,mancando i presupposti per l’affermazione della sua responsabilità penale.

Motivi della decisione

Il proposto ricorso è inammissibile perchè manifestamente infondato. L’imputato, in buona sostanza, ripropone nella presente sede di legittimità le medesime doglianze già dedotte con l’atto d’appello (in ordine alle quali la Corte d’appello di Bologna ha reso esaustiva e puntuale "risposta"), nell’intento peraltro di prospettare inammissibilmente una non consentita diversa valutazione o rivalutazione – in termini ovviamente a sè più favorevoli – delle stesse risultanze istruttorie.

Costituisce elemento già incontestabilmente accertato, come precisato dalla Corte distrettuale nell’esaustiva motivazione della sentenza impugnata (già riassuntivamente riportata in parte narrativa, cui si fa rinvio ad evitare inutili ripetizioni) il fatto che la parte offesa aveva proceduto a monetizzare l’assegno nella rilevante somma in contanti di Euro 7.500,00, portata dal titolo, benchè questo recasse la firma apocrifa dell’emittente, appostavi dall’imputato; donde la pacifica sussistenza dell’elemento oggettivo del delitto di truffa consumato stante l’ingiusto profitto in tal modo conseguito dall’imputato in danno del prenditore. Del tutto correttamente ha altresì la Corte d’appello sottolineato che ancorchè l’imputato,con siffatta condotta, avesse inteso onorare un debito di gioco che costituisce obbligazione naturale (dalla quale unicamente consegue la soluti retentio come previsto dall’art. 2034 c.c.), cionondimeno non avrebbe dovuto escludersi l’elemento materiale del delitto di truffa, tantopiù nel caso in cui il debitore si determini a pagare il debito di gioco per mezzo di un assegno nel quale la stessa obbligazione viene trasfusa, stante peraltro l’irrilevanza delle vicende relative al rapporto causale sottostante.

Con argomentazioni del pari ineccepibili in fatto ed in diritto, la Corte distrettuale ha inoltre ribadito sia la dimostrata sussistenza in punto di fatto degli artifizi e raggiri, evidenziati nel capo di imputazione, attuati dall’imputato onde trarre in inganno il C. circa la genuinità del titolo recante la firma apocrifa di emittenza del padre sia l’ovvia integrazione, sotto tale profilo, del particolare atteggiarsi dell’elemento soggettivo del reato, attesa la pacifica idoneità in tal senso,in astratto ed in concreto,della stessa condotta del V. che "artatamente aveva apposto anche la propria firma nel contempo garantendo la genuinità del titolo in quanto proveniente dal proprio padre". Alla declaratoria di inammissibilità segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè (trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile alla volontà, e quindi a colpa, del ricorrente: cfr. Corte Costituzionale sent. n. 186 del 7-13 giugno 2000) al versamento, a favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 a favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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