Cass. civ. Sez. III, Sent., 26-06-2012, n. 10632

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. I.P. conveniva in giudizio P.A. e U. F., rispettivamente proprietario e conducente del veicolo targato (OMISSIS), nonchè la Minerva Assicurazioni s.p.a., quale società assicuratrice di R.C., chiedendone la condanna al risarcimento di tutti i danni patiti a seguito del sinistro, avvenuto il (OMISSIS), a causa della collisione di tale mezzo con il motociclo condotto da suo marito, M.P., sinistro in seguito al quale quest’ultimo era poi deceduto il successivo (OMISSIS). Esponeva che il marito, di professione postino, allorchè si trovava in servizio e percorreva in (OMISSIS), giungeva all’intersezione con via (OMISSIS) e veniva in collisione con l’autovettura condotta dalla U., che aveva omesso di dare la dovuta precedenza, attraversando di colpo via (OMISSIS). A seguito dell’urto il M. rovinava a terra, sbattendo contro un manufatto in cemento posto all’angolo e riportava così gravi lesioni che lo conducevano, dopo pochi giorni, alla morte. Con una prima decisione non definitiva veniva stabilita la responsabilità esclusiva della convenuta nella verificazione del sinistro, ed il giudizio proseguiva in ordine al quantum. Con sentenza definitiva il Tribunale di La Spezia dichiarava tenuti e condannava i convenuti, in solido tra loro, a corrispondere all’attrice, a titolo di risarcimento del danno morale, l’importo, liquidato all’attualità, di Euro 250.000,00, di cui 150.000,00 a titolo di danno morale soggettivo.

2. Con la sentenza oggetto della presente impugnazione, depositata il 20.06.2009, la Corte di Appello di Genova accoglieva in parte l’appello della Compagnia assicuratrice e respingeva quello incidentale della danneggiata. Osservava la Corte territoriale, rispetto alle questioni oggetto del presente ricorso:

2.1. quanto al parziale accoglimento dell’appello principale, era inammissibile, costituendo una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione, al prossimo congiunto di persona deceduta in conseguenza di un fatto illecito costituente reato, del risarcimento a titolo di danno da perdita del rapporto parentale, e del danno morale (inteso quale sofferenza soggettiva, ma che in realtà non costituisce che un aspetto del più generale danno non patrimoniale).

Quanto al danno patito dal coniuge superstite, le tabelle usualmente applicabili ed applicate presso detta Corte, non inficiate dall’orientamento della S.C. a Sezioni Unite, prevedevano una liquidazione del danno morale al coniuge superstite che va da Euro 45.000,00 a Euro 150.00,00 (invece le tabelle milanesi anno 2004 prevedevano una liquidazione da Euro 100.000,00 ad Euro 200.000,00).

Nella liquidazione del danno morale provocato dalla morte di un prossimo congiunto, il giudice di merito deve procedere con valutazione equitativa, tenendo conto della perdita affettiva e della compromissione dell’integrità familiare. Tenuto conto della particolarità del caso di specie, della giovane età della coppia, dello sconvolgimento di vita che era derivato dalla prematura scomparsa di uno dei coniugi, dell’intensità del vincolo affettivo, tutelato costituzionalmente, e definitivamente compromesso dall’atto illecito del terzo, era equo liquidare tale pregiudizio nella misura massima consentita dalla previsione tabellare. Nessun aumento in percentuale del massimo appariva applicabile e contemplato, in quanto la doverosa personalizzazione del danno patito non può che muoversi all’interno di quel divario di valori "tabellarmente" predisposto proprio al fine di consentire un apprezzamento del caso concreto; con conseguente impossibilità di una liquidazione del danno ulteriore rispetto al massimo indicato, da intendersi come ulteriore per l’inevitabile duplicazione della medesima voce di danno che tale operazione comporta, ma anche come ulteriore rispetto ad un superamento non consentito ed ingiustificato dei massimi prefissati;

2.2. quanto al primo profilo dell’appello incidentale, indubbiamente la morte della vittima aveva determinato nella sfera giuridica del suo più stretto congiunto una vera e propria menomazione dell’intera vita psichica, ovvero un’alterazione dell’equilibrio mentale, tale da influire sulle estrinsecazioni della vita quotidiana del soggetto leso, il quale, per pretenderne il risarcimento deve provare la sussistenza di una vera e propria lesione psichica, che, come danno biologico proprio è soggetto ad un rigoroso onere probatorio. Al riguardo, la I. aveva prodotto solo in appello certificato del dott. Pe., psichiatra, dell'(OMISSIS), relativo alla sindrome depressiva patita dalla stessa, che attestava che essa, non avendo raggiunto una piena remissione, necessitava dell’integrazione di cicli di psicoterapia breve. Aveva prodotto altresì numerosissime prescrizioni mediche dal 2000 al 2004, concernenti la somministrazione di farmaci antidepressivi. Si trattava, però, di produzioni certamente tardive, perchè accompagnate all’atto di appello, senza che di analoghe vi fosse traccia nel primo grado. Non v’era dubbio che, se una patologia depressiva si era innestata a seguito del lutto patito, essa non avrebbe potuto che manifestarsi in maniera più devastante ed incisiva al momento del verificarsi dell’evento e nella fase immediatamente successiva, andando poi gradualmente a scemare con il passare del tempo. Se dunque un’autonoma patologia fosse sussistita, se ne sarebbero dovute produrre tempestivamente le risultanze documentali. Sotto tale profilo il gravame era pertanto inammissibile;

2.3. quanto, infine, al danno biologico trasmissibile iure hereditatis richiesto dalla I. andava anzitutto osservato che la stesso S.C. aveva sempre ribadito la sua inammissibilità, per cui il danno cosiddetto "tanatologico" o da morte immediata va ricondotto nella dimensione del danno morale, inteso nella sua più ampia accezione, come sofferenza della vittima che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita (nella specie la S.C. aveva confermato la sentenza impugnata che aveva qualificato la predetta sofferenza della vittima come danno morale e non come danno biologico terminale, attesane l’inidoneità – essendo stato l’intervallo di tempo tra il sinistro e la morte di tre giorni – ad integrare gli estremi di quella fattispecie di danno non patrimoniale). Doveva infatti ritenersi condivisibile l’apprezzamento per cui tale pregiudizio non risultava idoneo, nel caso in cui l’intervallo di tempo tra l’incidente e la morte fosse comunque irrisorio, ad integrare gli estremi di quella fattispecie di danno non patrimoniale. Diversamente poteva invece ritenersi se si configurasse tale pregiudizio alla stregua di danno morale, secondo un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, secondo cui "in caso di morte della vittima a seguito di sinistro stradale, la brevità del periodo di sopravvivenza alle lesioni, se esclude l’apprezzabilità a fini risarcitori del deterioramento della qualità della vita in ragione del pregiudizio alla salute, ostando alla configurabilità di un danno biologico risarcibile, non esclude viceversa che la medesima abbia potuto percepire le conseguenze catastrofiche delle lesioni subite e patire sofferenza, il diritto al cui risarcimento, sotto il profilo del danno morale, risulta, pertanto, già entrato a far parte del suo patrimonio al momento della morte e può conseguentemente essere fatto valere iure hereditatis", dovendo conseguentemente il giudice di merito apprezzare la peculiarità del fatto specifico e provvedere alla liquidazione, necessariamente ancorata a criteri equitativi.

Tuttavia tale profilo non aveva formato oggetto espresso della domanda proposta in primo grado, non potendo la stessa rientrare nell’ampia dizione adottata, che riguardava la richiesta di tutti i darmi a qualsiasi titolo patiti, ciò in quanto con tale domanda si operava comunque un riferimento ai darmi propri della I., quale soggetto autonomo e coniuge, e non un riferimento ai danni patiti dal marito defunto, solo in un secondo tempo a lei trasmessi.

Neppure la pretesa risultava aver formato oggetto dell’appello incidentale proposto dalla I. avverso la sentenza di primo grado, avendo la stessa riproposto con tale gravarne le esposte conclusioni iniziali. Anche tale pretesa si rivelava pertanto inammissibile.

3. Ricorre per cassazione la I., sula base di cinque motivi.

Resiste la Compagnia assicuratrice con controricorso e chiede dichiararsi inammissibile o, in subordine, rigettarsi il ricorso.

Questi i motivi proposti dalla I. ed i relativi quesiti:

3.1. Violazione Art. 360 c.p.c., n. 5 per insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (riconoscimento danno morale terminale e liquidazione iure hereditatis), perchè la Corte territoriale, pur riconoscendo nella specie l’esistenza del danno morale terminale, ne avrebbe escluso, erroneamente, il risarcimento perchè, a suo dire, non richiesto.

Chiede, pertanto, alla Corte: "se sia conforme a diritto che il Giudice di merito ritenga non ricompresa nelle conclusioni dell’originario atto di citazione siccome riproposte nell’atto di appello impugnato, la richiesta del danno morale subito dal defunto (recte danno non patrimoniale descrittivamente definito quale danno morale) richiesto dall’attore iure hereditatis, da determinarsi nella più ampia accezione resa dalla recente giurisprudenza della Suprema Corte, atteso che la domanda proposta reclama il ristoro del danno arrecato a parte attrice conseguente alla perdita del coniuge per ogni singolo titolo spettante, nessuno escluso o riservato, ereditario e non, secondo le risultanze di causa".

3.2. Violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 5 per contraddittoria e insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia (riconoscimento del danno biologico terminale e liquidazione iure successionis), per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto non accoglibile la domanda di detta componente del danno. Chiede alla Corte: "se il periodo di giorni sei e non tre come erroneamente indicato dal giudice di appello sia un lasso di tempo astrattamente idoneo a determinare nella vittima dell’incidente stradale per cui è processo, il diritto ad ottenere il risarcimento del danno biologico richiesto iure hereditatis, dalla sig.ra I.P..

3.3. Violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., comma 3 in relazione alla mancata ammissione di consulenza tecnica sulla persona di limitari P., con riferimento al disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – contraddittoria motivazione su un punto decisivo della causa (riconoscimento danno psichico) con riferimento al disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per avere la Corte territoriale disatteso la richiesta istruttoria di consulenza sulle condizioni psichiche della I., siccome ha ritenuto tardive le produzioni documentali che chiarivano il decorso psichiatrico sofferto dalla predetta. Chiede, pertanto, alla Corte: "se nel rigetto della richiesta di ammissione di C.T.U. di I.P., sia necessario che la Corte di Appello di Genova motivi sull’indispensabilità o meno del mezzo istruttorio richiesto dopo che l’Ufficio aveva riconosciuto l’esistenza di una vera e propria menomazione dell’intera vita psichica e di una alterazione dell’equilibrio mentale tale da influire sulle estrinsecazioni della vita quotidiana".

3.4. Insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della causa con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5 (liquidazione voce danno non patrimoniale), Nonostante la Corte territoriale abbia preso atto dei principi espressi dalle Sezioni Unite della Suprema Corte nella sentenza 26972/2008 in ordine alla liquidazione del danno non patrimoniale, non li avrebbe applicati correttamente alla fattispecie concreta. Parte ricorrente invoca l’orientamento di questa Corte secondo cui, nelle ipotesi di liquidazione del danno morale ai superstiti da morte del congiunto (ma l’enunciazione è applicabile ad ogni liquidazione del danno morale soggettivo da reato), per stabilire se le sentenze precedentemente emesse siano in linea con i principi enunciati dalla sentenza delle sezioni unite n. 26972 del 2008, occorre considerare se la avvenuta liquidazione del danno non patrimoniale sia o no comprensiva anche del tipo di pregiudizio derivante dalla lesione del (diritto al) rapporto parentale. Soccorre a tal fine la motivazione della sentenza e, in difetto di esplicite considerazioni, l’entità delle somme liquidate (in tal senso, Cass. n. 3359 del 2009, in motivazione). Nell’ipotesi, il giudice di primo grado aveva liquidato Euro 150.000,00 a titolo di danno morale soggettivo, non tenendosi conto della durata del dolore per la perdita del rapporto parentale. La liquidazione a parte del danno esistenziale, quindi, non avrebbe rappresentato una duplicazione perchè l’ammontare complessivo di Euro 250.000,00 avrebbe compreso anche il ristoro del pregiudizio da lesione del diritto al rapporto parentale. A mente dell’orientamento delle Sezioni Unite, duplicazione, rispetto a tale componente di danno, vi sarebbe solo ove il danno morale sia concepito nella nuova configurazione quale sofferenza oggettiva. La Corte, invero, facendo applicazione delle tabelle vigenti presso il proprio distretto, non avrebbe tenuto conto che i criteri alla base delle stesse non sono adeguati ai canoni derivanti dalle Sezioni Unite del 2008, presupponendo una concezione del danno morale quale pretium doloris, non comprendente i pregiudizi alla vita dinamico-relazionale, mentre più adeguate sarebbero state le tabelle milanesi, in quanto basate su una giurisprudenza che da sempre aveva negato l’autonomia del danno esistenziale ed elaborate quindi sulla considerazione di un danno morale comprendente anche la lesione del rapporto parentale.

Sempre secondo la ricorrente, la Corte territoriale avrebbe liquidato solo il danno morale quale pretium doloris e non il pregiudizio da perdita del rapporto parentale. Infatti, nonostante abbia dato atto che si deve tenere conto della perdita affettiva e della compromissione dell’integrità familiare, ha tenuto conto nella liquidazione della somma solo della giovane età della coppia, dello sconvolgimento di vita e dell’intensità del vincolo familiare.

3.5 Omessa o insufficiente motivazione su altro punto decisivo della controversia (applicazione tabelle e criteri di liquidazione) (sempre con riferimento al disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 5). Il Tribunale per la liquidazione del danno non patrimoniale ha utilizzato le tabelle di Milano, invece, la Corte di Appello di Genova ha applicato le tabelle elaborate presso il proprio ufficio, limitandosi a giustificare la scelta affermandosi che si trattava di quelle "usualmente e tutt’oggi applicabili ed applicate presso questo ufficio, per nulla inficiate dal recente orientamento della S. C. a Sezioni Unite", senza alcuna menzione dei criteri indicati nelle tabelle per la liquidazione del danno morale al coniuge superstite.

Indicazione, attualmente indispensabile, alla luce della pronuncia delle Sezioni unite, per stabilire se le soglie stabilite fossero comprensive anche del pregiudizio da lesione del rapporto parentale.

Si trattava di tabelle elaborate nel 2004, periodo in cui sussisteva la concezione dell’autonomia della voce del danno esistenziale, senza che la Corte avesse spiegato le ragioni di tale scelta.

4.1. I motivi del ricorso si rivelano tutti inammissibili per mancanza del momento di sintesi in relazione al quarto ed al quinto motivo e per inidoneità dei quesiti formulati in relazione ai primi tre motivi (per i primi due dei quali, peraltro, rubricati come vizi ex art. 360 c.p.c., n. 5, non sono stati formulati i relativi momenti di sintesi). Infatti, l’art. 366-bis cod. proc. civ., nel testo applicabile ratione temporis, prevede le modalità di formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, disponendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso se, in presenza dei motivi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4 ciascuna censura deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 cod. proc. civ., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a dicta giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza; mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo iter argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (Cass. n. 4556/09).

4.2. Orbene, nel caso in esame, rispetto al quarto ed al quinto motivo, che deducono vizi motivazionali non è stato formulato il momento di sintesi; mentre si rivelano inidonei i quesiti formulati al termine di ciascuno degli altri tre, i primi due dei quali, peraltro, pur rubricati quali vizi di motivazione, avrebbero dovuto più propriamente richiedere il controllo sull’inammissibilità delle richieste oggetto degli stessi, ritenuta dai giudici di merito. I "momenti di sintesi", come da questa Corte precisato richiedono un quid pluris rispetto alla mera illustrazione del motivo, imponendo un contenuto specifico autonomamente ed immediatamente individuabile (v.

Cass., 18/7/2007, n. 16002). L’individuazione dei denunziati vizi di motivazione risulta perciò impropriamente rimessa all’attività esegetica del motivo da parte di questa Corte (Cass. n. 9470(08). Si deve, peraltro, ribadire che è inammissibile, alla stregua della seconda parte dell’art. 366 bis cod. proc. civ., il motivo di ricorso per cassazione con cui, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la parte si limiti a censurare l’apoditticità e carenza di motivazione della sentenza impugnata, in quanto l’indicata norma processuale impone la precisazione delle ragioni che rendono la motivazione inidonea a giustificare la decisione mediante lo specifico riferimento ai fatti rilevanti, alla documentazione prodotta, alla sua provenienza e all’incidenza rispetto alla decisione (Cass. n. 4589/09).

4.3. Invece, rispetto alle violazioni di legge dedotte nel terzo motivo ed ai vizi denunziati nel primo e nel secondo (che entrambi si dolgono più di un error in procedendo che di vizi motivazionali invocando impropriamente il n. 5 anzichè il n. 4 dell’art. 360 c.p.c., comma 1) non sono stati idoneamente formulati i quesiti di diritto.

4.4. I quesiti, come noto, non possono consistere in una domanda che si risolva in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni illustrate nel motivo e porre la Corte di cassazione in condizione di rispondere al quesito con l’enunciazione di una regula iuris (principio di diritto) che sia suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. A titolo indicativo, si può delineare uno schema secondo il quale sinteticamente si domanda alla corte se, in una fattispecie quale quella contestualmente e sommariamente descritta nel quesito (fatto), si applichi la regola di diritto auspicata dal ricorrente in luogo di quella diversa adottata nella sentenza impugnata (Cass. S.U., ord. n 2658/08). E ciò quand’anche le ragioni dell’errore e della soluzione che si assume corretta siano invece – come prescritto dall’art. 366 c.p.c., n. 4 – adeguatamente indicate nell’illustrazione del motivo, non potendo la norma di cui all’art. 366 bis c.p.c. interpretarsi nel senso che il quesito di diritto possa desumersi implicitamente dalla formulazione del motivo, poichè una siffatta interpretazione si risolverebbe nell’abrogazione tacita della norma in questione (Cass. 20 giugno 2008 n. 16941). Una formulazione del quesito di diritto idonea alla sua funzione richiede, pertanto, che, con riferimento ad ogni punto della sentenza investito da motivo di ricorso la parte, dopo avere del medesimo riassunto gli aspetti di fatto rilevanti ed averne indicato il modo in cui il giudice lo ha deciso, esprima la diversa regola di diritto sulla cui base il punto controverso andrebbe viceversa risolto, formulato in modo tale da circoscrivere la pronunzia nei limiti del relativo accoglimento o rigetto (v.

Cass., 17/7/2008 n. 19769; 26/3/2007, n. 7258). Occorre, insomma che la Corte, leggendo il solo quesito, possa comprendere l’errore di diritto che si assume compiuto dal giudice nel caso concreto e quale, secondo il ricorrente, sarebbe stata la regola da applicare.

4.5. Non si rivelano, pertanto, idonei i quesiti in questione: dato che non contengono adeguati riferimento in fatto (nè circa l’oggetto della questione controversa, nè la sintesi degli sviluppi della controversia sullo stesso), nè espongono chiaramente le regole di diritto che si assumono erroneamente applicate e, quanto a quelle di cui s’invoca l’applicazione, in ciascuno di detti quesiti, si è in presenza di enunciazioni di carattere generale ed astratto che, in quanto prive di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, non consentono di dare risposte utili a definire la causa (Cass. S.U. 11.3.2008 n. 6420). Del resto, il quesito di diritto non può risolversi – come nell’ipotesi – in una tautologia o in un interrogativo circolare, che già presuppone la risposta (Cass. S.U. 2/12/2008 n. 28536).

4.6. Del resto, l’inadeguata indicazione degli elementi in fatto comporta che i motivi dal primo al terzo si rivelano anche non riferibili alla sentenza impugnata, perchè non specificamente attinenti all’effettiva ratio deciderteli, non censurando le statuizioni riguardanti la ritenuta inammissibilità, per tardività, delle domande relative alle voci di danno oggetto dei predetti motivi, limitandosi a censurare pretesi vizi motivazionali che si collocano, nel primo e secondo motivo, "a valle" della ritenuta inammissibilità o che sono da questa comunque privati di rilevanza (come nel terzo motivo, non essendo necessario valutare l’ammissibilità di una CTU se la domanda relativa è stata ritenuta inammissibile).

4.7. Senza contare che i motivi dal primo al terzo sono inammissibili anche perchè deducono quale vizio motivazionale o come violazione di legge veri e propri pretesi errores in procedendo, senza – peraltro – specificare se e come le relative questioni siano state proposte alla Corte territoriale.

5. Ne deriva che il ricorso va dichiarato inammissibile. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo nei rapporti con la compagnia assicuratrice; nulla per le spese nei confronti degli altri intimati, i quali non hanno svolto attività difensiva.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della Compagnia di assicurazione Zurigo, della spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.200,00=, di cui Euro 4.000,00= per onorario, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 23 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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