Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 01-12-2011) 05-12-2011, n. 45297

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con pronunzia del 22 dicembre 2010, la Corte d’Appello di Catanzaro ha respinto l’istanza avanzata da M.L.P. e da M.S. diretta alla revisione della sentenza 24 marzo 1997 della Corte d’Assise di Locri (confermata dalla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria il 13 novembre 1008 e divenuta definitiva a seguito della decisione 21 giugno 1999 della Corte di Cassazione), sentenza con la quale sono stati condannati alla pena di trenta anni di reclusione per il concorso nel sequestro di persona a scopo di estorsione di C.A., seguito dalla morte della vittima.

2. Dato atto che gli imputati dimoravano in (OMISSIS), località (OMISSIS) e che il cadavere del C. era stato rinvenuto in territorio di (OMISSIS), località (OMISSIS), la Corte d’Appello ricordava che gli elementi prodotti consistevano nella testimonianza dell’investigatore privato D.P., il quale aveva riferito sui dati emersi dall’esame autoptico condotto sul corpo del C. e sulla difficoltà di trasportare un corpo per un lungo percorso, essendo l’area interessata sotto lo stretto controllo delle forze dell’ordine. Era stato poi sentito il teste Ca. CT della difesa che aveva concluso per l’elevata probabilità che il C. fosse stato seppellito nello stesso posto in cui era stato ucciso mentre il teste R., già consulente legale del p.m., aveva affermato che il cadavere non era stato spostato dal luogo del ritrovamento e nel contempo di non poter escludere che il C. fosse stato ucciso in un altro luogo e poi spostato nel luogo del ritrovamento, la teste A. aveva evidenziato le chiare e notevoli differenze chimico fisiche dei terreni in località (OMISSIS) e quelli in località (OMISSIS). Il collaboratore di giustizia P. aveva riferito delle confidenze fattagli in carcere da G.S. (condannato in quanto complice dei M.) il quale gli aveva detto dell’estraneità sua e dei M. al sequestro. Lo stesso P. diceva di aver udito di nascosto un colloquio tra il Gl. e lo zio D. avente ad oggetto la posizione di un altro concorrente nel sequestro Cr.Gi.. Costui, stando al colloquio, "aveva inguaiato tutti" col prendere in prestito il telefono cellulare di G.S. per poi cederlo per venti milioni di lire a persona sconosciuta di (OMISSIS). Il tenore di questo colloquio era stato confermato da G.D., il quale aveva aggiunto che il Cr. gli aveva ripetuto la vicenda del telefonino senza peraltro fare il nome della persona alla quale l’aveva ceduto. Cr.Gi., nel confermare questa racconto, aveva precisato che il telefonino gli era stato consegnato materialmente da M.C. (fratello degli istanti che aveva confermato il prestito) e che questo cellulare, impiegato per telefonare alla famiglia C., egli, Cr., lo aveva a sua volta prestato a un certo F. che gli aveva promesso in cambio la somma di L. venti milioni. Sapeva il cognome di questo F. e tuttavia mai lo avrebbe detto per paura. I testi Pe. e c. avevano poi riferito sulla presenza degli istanti M. a (OMISSIS) nel corso del 1993. 3. La Corte d’Appello osservava che tale complessivo materiale probatorio non appariva in alcun modo idoneo a determinare un diverso epilogo e dunque un’assoluzione degli istanti. Dopo aver fatto rinvio alla ricostruzione contenuta nella sentenza della Corte d’Assise di Locri, riteneva che i dati conoscitivi raccolti erano sprovvisti di una sia pur minima attitudine dimostrativa "attenendo piuttosto a singoli e disconnessi segmenti della ben più ampia vicenda delittuosa" e rivelandosi generici e frammentari. Emblematico il contenuto della testimonianza del Cr. il quale non si risolveva da anni a fare il nome del F. che avrebbe potuto utilizzare il telefono cellulare servito a chiamare i familiari del povero C..

Ciò detto, riteneva non necessario sottoporre le prove già valorizzate nella sentenza di condanna a giudizio di comparazione con le nuove, onde apprezzarne la forza di resistenza, in quanto l’accertamento della Corte d’Assise di Locri non era stato in alcun modo inficiato dagli esiti dell’istruzione svolta.

4. Contro tale sentenza ricorrono i M. i quali, dopo una lunga premessa diretta a mostrare l’errore di fondo della concezione del giudizio di revisione a base della decisione impugnata, la quale, ritenendo il carattere eccezionale dell’istituto, ignorerebbe che non è necessario dimostrare l’innocenza dei condannati e quindi l’errore giudiziario, ma che è sufficiente che gli elementi prodotti inducano il dubbio della loro colpevolezza, osservano che la sentenza difetta di una reale motivazione.

Infatti gli elementi tacciati di genericità e frammentarietà erano stati tuttavia ritenuti sufficienti a superare la barriera di ammissibilità dell’istanza di revisione. Di talchè in questa logica era allora necessario condurre un’analisi per saggiare la forza falsificante degli elementi nuovi sulle prove già raccolte. Ora, in particolare, nulla si era detto in relazione al fatto che le relazioni peritali portavano alla conclusione che il C. era stato tenuto prigioniero e ucciso a (OMISSIS), laddove invece i M. erano sempre rimasti a (OMISSIS) e cioè a settanta chilometri di distanza. In tal modo l’affermazione della Corte d’Assise che i due istanti erano stati i carcerieri del sequestrato si poggiava sul fatto che il sequestrato si trovasse a (OMISSIS) e che fosse stato dopo trasferito a (OMISSIS).

Sennonchè di un tale trasferimento si dovrebbe oramai quanto meno dubitare, una volta che era stato provato che il C. aveva addosso solo residui del terriccio di (OMISSIS) e nessuno riferibile a (OMISSIS) e per di più che il C. era stato originariamente seppellito nel luogo del ritrovamento.

La Corte d’Appello in conclusione avrebbe così eluso il vaglio critico del novum offerto dalla difesa dimostrativo che la vittima era stata da sempre tenuta prigioniera a (OMISSIS) e a si sarebbe rifiutata di operare un tale vaglio contraddittoriamente, in quanto l’istanza di revisione aveva superato la fase dell’ammissibilità. 5. In prossimità dell’udienza i ricorrenti hanno presentato motivi aggiunti con i quali si dolgono del vizio di motivazione che inficerebbe la risoluzione della Corte d’Appello di non acquisire d’ufficio numerose prove indicate dalla difesa. Ribadiscono comunque che quelle prodotte in nessun modo possono essere definite disconnesse e frammentarie rispetto alla finalità di dimostrare un’insufficienza e contraddittorietà delle prove che hanno determinato la pronuncia della sentenza di condanna.

6. All’odierna udienza le parti hanno rassegnato le proprie conclusioni. Il difensore dei M. ha fatto presente che in un dibattimento presso il Tribunale di Locri, il Cr. ha annunziato di voler collaborare con la giustizia e quindi di fare il nome del F. di cui si è detto. Ha deposito al riguardo copia del verbale del dibattimento in parola.

Motivi della decisione

1. I ricorsi sono privi di fondamento.

In linea di principio va subito osservato che non v’è alcuna contraddizione logica nel fatto di ritenere ammissibile un’istanza di revisione in relazione al complesso probatorio prospettato e nel non sottoporre poi a giudizio di comparazione le prove della sentenza di condanna con quelle raccolte nel nuovo dibattimento, quando l’esperimento probatorio, tenutosi dinanzi al giudice della revisione, si sia concluso col fallimento del thema probandum e cioè con l’incertezza uno o più aspetti della realtà storica di alcune delle circostanze che si sarebbero dovute provare.

2. Nella specie, l’istanza di revisione era stata ritenuta ammissibile in quanto i M. si proponevano di dimostrare che il cadavere della vittima, rinvenuto a oltre settanta chilometri di distanza dal luogo di dimora dei ricorrenti, era stato seppellito proprio nel luogo di rinvenimento e che il telefono cellulare, attraverso il quale erano stati tenuti i contatti tra i sequestratoli e i parenti dell’ucciso, non era nella disponibilità dei condannati e dei loro concorrenti, ma di un terzo.

E tanto, tenuto conto della difficoltà di locomozione derivanti dallo stretto controllo della polizia nei tempi del sequestro e del fatto che i M. erano stati costantemente osservati in (OMISSIS), località (OMISSIS), poteva indurre il ragionevole dubbio circa il luogo dell’uccisione del C.. Dovendosi poi ritenere che questo luogo, distante da (OMISSIS), coincideva con quello della prigionia, la circostanza avrebbe posto in dubbio anche il ruolo di carcerieri degli istanti, per di più estranei allo svolgimento delle trattative in quanto non in possesso (diretto o interposto) del telefono attraverso cui erano state svolte.

3. Ora, la sentenza da atto che, esperite le prove richieste, si doveva considerare assodato che le polveri rinvenute sui resti del C. non potevano ricondursi alla composizione chimica del luogo di dimora dei ricorrenti (coincidendo in tutto con quelle del luogo di ritrovamento). Ma aggiunge che non era stato invece in alcun modo provato che il telefono cellulare delle trattative fosse mai uscito dalla esclusiva disponibilità dei concorrenti (e quindi degli istanti).

Pertanto il complesso probatorio prospettato nell’istanza, in tesi foriero di un ragionevole dubbio, non si era formato nel dibattimento di revisione.

D’altronde – resta implicito nella pronunzia, ma è chiaramente deducibile dalla narrazione – è solo in via probabilistica che poteva inferirsi che i resti di terriccio su un cadavere rinvenuto a tanti anni di distanza fossero gli unici esistenti al momento del seppellimento; che, anche tanto ammesso, nulla provava che il luogo di sepoltura coincidesse con quello dell’uccisione e che a sua volta il luogo dell’uccisione coincidesse ancora con quello del sequestro.

Ciò in quanto era una circostanza indimostrabile quella che i M. e i loro complici non si fossero potuti spostare con la vittima viva o morta per settanta chilometri.

4. Come si è visto in narrativa, i ricorrenti nulla oppongono al modo in cui sono stati riportati i risultati probatori del giudizio di revisione. Essi invece si dolgono del senso che a tale giudizio darebbe stato dato nella sentenza impugnata, la quale supporrebbe che ai fini della revoca della sentenza di condanna debba emergere l’errore giudiziario e non un semplice dubbio. E tuttavia non è affatto vero che la decisione in esame ignori che ai fini della revisione non è necessario dimostrare l’innocenza dei condannati e che è sufficiente che gli elementi prodotti inducano il dubbio della loro colpevolezza.

La pronunzia, al contrario, correttamente afferma che allo stato non v’è alcun elemento idoneo a ingenerare ragionevolmente un simile dubbio, posto che, come si è appena visto, i nuovi dati conoscitivi erano sprovvisti di una sia pur minima attitudine dimostrativa "attenendo piuttosto a singoli e disconnessi segmenti della ben più ampia vicenda delittuosa" e rivelandosi generici e frammentari.

5. Nè alcun rilievo può allo stato annettersi all’annunciata collaborazione del Cr., la quale semmai potrà essere fatta valere in una eventuale, futura nuova richiesta di revisione.

6.1 ricorsi vanno quindi respinti e i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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