Cass. civ. Sez. II, Sent., 28-06-2012, n. 10959

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

D.S.R. e Z.G. convennero dinanzi al Tribunale di Lodi G.M., a cui avevano venduto una porzione del loro fabbricato costituita da un locale ad uso negozio mantenendone l’altra per sè, chiedendo che fosse dichiarato che la stessa, in forza di quanto convenuto nell’atto di vendita, aveva il diritto di utilizzare l’uscita posteriore su Via (OMISSIS) solo ed esclusivamente in caso di emergenza; chiesero, inoltre, che la convenuta fosse condannata a rimuovere l’apparecchio condizionatore da lei installato sulla facciata dell’edificio.

La convenuta si oppose a tali richieste e formulò domande riconvenzionali, chiedendo tra l’altro, per quanto qui ancora interessa, che fosse riconosciuto il suo diritto di servitù di passaggio, sia pure esercitatile soltanto in caso di necessità.

Nel corso del giudizio, su istanza degli attori, venne autorizzata la chiamata in causa di Z.M., nuovo proprietario della porzione di immobile interessata dal passaggio in discussione, che si costituì facendo proprie le domande degli attori.

Il giudice di primo grado, nel decidere la controversia, dichiarò l’esistenza del diritto di servitù di passaggio a favore della proprietà della G. attraverso il giardino di proprietà degli attori sia pure per i soli casi di necessità e rigettò tutte le altre domande delle parti.

Interposto gravame principale da parte degli attori ed incidentale ad opera della convenuta, con sentenza n. 2396 del 5 ottobre 2006 la Corte di appello di Milano confermò integralmente la decisione impugnata, affermando, quanto alla servitù, che la formula usata nel contratto intercorso tra le parti, in quanto sganciata dalla condizione personale delle parti e dall’utilizzo che in concreto viene fatto da specifiche persone fisiche, era da interpretarsi come costitutiva di un diritto reale di servitù, esercitatile non già in situazioni di sola emergenza, ma anche in presenza di una qualsiasi necessità; con riferimento alla richiesta di condanna alla rimozione del condizionatore, ne rilevò invece l’inammissibilità ed infondatezza, atteso che esso era posto sul muro comune, sicchè la legittimazione ad agire, anche sotto il profilo della tutela del decoro architettonico dell’edificio, spettava al condominio e non al singolo condomino, aggiungendo che comunque che, essendo stato installato sul retro del fabbricato, di nessun pregio artistico, ed in posizione defilata, esso non pregiudicava l’estetica del fabbricato.

Per la cassazione di questa decisione, notificata il 13 dicembre 2006, con atto notificato l’8 febbraio 2007, ricorrono D.S. R., Z.G. e Z.M., affidandosi a cinque motivi.

Resiste con controricorso G.M..

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso, che denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 1027 cod. civ., e segg., lamenta che il giudice di appello abbia affermato la natura reale del diritto di passaggio stabilito nel contratto di compravendita intercorso tra le parti, nonostante che, per la stessa formula usata, nonchè per le stesse modalità del suo esercizio e del fatto che esso interessava un giardino, esso si riferisse alla persona dell’acquirente, sicchè esso avrebbe dovuto essere considerato come diritto personale di godimento, limitato al verificarsi del caso di necessità, in coerenza con il principio generale di particolare tutela accordata dal codice civile ai cortili e giardini, sia pure in tema di passaggio coattivo.

Il motivo è inammissibile.

La conclusione accolta dalla sentenza impugnata è motivata in ragione della clausola contrattuale in forza della quale le parti avevano stabilito che "L’accesso al negozio in oggetto avviene dalla Via (OMISSIS), mentre l’uscita posteriore verso la Via (OMISSIS) dovrà essere utilizzata solo in caso di necessità". La Corte di merito, partendo dal dato pacifico che l’utilizzo dell’uscita su via (OMISSIS) comportava l’attraversamento del giardino della porzione immobiliare rimasta in proprietà degli attori, ha affermato che con tale previsione i contraenti avevano inteso costituire un diritto di servitù di passaggio, sia pure da esercitarsi soltanto in caso di necessità, al quale andava riconosciuta natura reale, in quanto la sua previsione appariva "sganciata dalla condizione personale delle parti e dell’utilizzo che in concreto viene fatto da specifiche persone fisiche".

Tanto precisato, il motivo è inammissibile in quanto, risultando l’affermazione oggetto di censura il risultato di un’operazione di interpretazione del contratto, che, come tale, è demanda dalla legge alla esclusiva competenza del giudice di merito, il ricorso avrebbe dovuto denunziare l’erroneità della statuizione non sotto il profilo della violazione delle norme sostanziali di riferimento in materia di servitù, ma sotto il profilo della violazione delle regole di interpretazione del contratto ovvero dell’obbligo di motivazione. E’ noto peraltro che, nel giudizio di legittimità, la denunzia della violazione delle regole in materia di ermeneutica contrattuale richiede la specifica indicazione dei canoni in concreto inosservati e del modo attraverso cui si è realizzata la violazione, mentre la denunzia del vizio di motivazione esige la puntualizzazione dell’obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento svolto dal giudice di merito e che, per sottrarsi a censura, quella data dal giudice non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni (Cass., n. 24539 del 2009; 22.5.2006, n. 10131;

Cass., 17.7.2003, n. 11193). Contrapporre a quella fornita dal giudice di merito una diversa ed opposta interpretazione del contratto si risolve in una mera richiesta di un nuovo accertamento sul fatto, come tale non ammessa dinanzi a questa Corte, che è giudice del diritto e non del fatto.

Il motivo non assolve a questi oneri di contenuto e di argomentazione e pertanto non appare in grado di superare il preliminare vaglio di ammissibilità.

Il secondo motivo di ricorso, che denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., ed omessa o insufficiente motivazione, si conclude con il seguente quesito di diritto: "Voglia il Supremo Collegio accertare e dichiarare se l’impugnata sentenza della Corte di appello ha o no osservato la norma dell’art. 112 c.p.c. ed emettere il conseguente provvedimento".

Il motivo è inammissibile.

Nel presente giudizio deve trovare applicazione l’art. 366 bis cod. proc. civ., come introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 6, IL quale impone che la formulazione di motivi del ricorso per cassazione deve concludersi, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto. Tale disposizione è applicabile nel caso di specie in quanto la sentenza impugnata è stata depositata in data 5 ottobre 2006, risultando a tal fine irrilevante che essa sia stata successivamente abrogata dalla L. n. 69 del 2009, art. 47, comma 1, lett. d), entrata in vigore il 4 luglio 2009, tenuto conto, da un lato, che nel processo si applica la legge regolatrice in vigore nel momento in cui l’atto è compiuto e, dall’altro, del disposto della citata L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 5, in base al quale le norme previste da essa si applicano ai ricorsi per cassazione proposti avverso i provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data della sua entrata in vigore (Cass. n. 20323 del 2010; Cass. n. 7119 del 2010;

Cass. n. 22578 del 2009).

Tanto precisato, il motivo è inammissibile in quanto il quesito di diritto al termine di esso, per come formulato, appare del tutto generico ed astratto e perciò inadeguato ad assolvere la finalità che ad esso è assegnata dalla legge, consistente nel favorire la formazione immediata e diretta del principio di diritto e, quindi, il miglior esercizio della funzione nomofilattica della Corte di legittimità (Cass. S.U. n. 19444 del 2009; Cass. n. 20409 del 2008).

Il quesito si risolve infatti nella semplice richiesta a questa Corte di verificare se la decisione impugnata abbia o meno osservato la regola posta dall’art. 112 cod. proc. civ., senza alcuna indicazione al caso concreto, alla questione affrontata dal giudice ed alla statuizione da questi adottata, nonchè delle ragioni per cui essa avrebbe violato la disposizione di legge sopra indicata. Sul punto, questa Corte ha avuto modo di chiarire che il quesito di diritto che il ricorrente ha l’onere di formulare ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., deve necessariamente contenere, sia pure sintetizzandola, l’indicazione della questione di diritto controversa e non può pertanto risolversi nella semplice domanda se la norma di cui venga lamentata la violazione sia stata o meno correttamente applicata (Cass. n. 4044 del 2009; 24339 del 2008; Cass. n. 2658 del 2008;

Cass. n. 17064 del 2008; Cass. S.U. n. 23732 del 2007; Cass. S.U. n. 20360 del 2007; Cass. S.U. n. 36 del 2007; Cass. n. 14682 del 2007).

Identica conclusione merita anche l’esame della censura che, in alternativa al vizio di omessa pronuncia, deduce il vizio di omessa o insufficiente motivazione, considerato che anche in relazione ad essa il mezzo, per come formulato, non appare conforme all’orientamento espresso questa Corte circa la necessità che la deduzione del vizio di motivazione debba contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, e concludersi con un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (Cass. n. 11019 del 2011; Cass. n. 8897 del 2008; Cass. S.U. n. 20603 del 2007).

Il terzo motivo di ricorso, che denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., si conclude con il seguente quesito di diritto: "Voglia il Supremo Collegio accertare e dichiarare se l’impugnata sentenza della Corte di appello ha osservato o no la norma dell’art. 112 c.p.c., su questo specifico capo della domanda ed emettere il conseguente provvedimento".

Anche questo motivo va dichiarato inammissibile, potendosi richiamare le ragioni esposte in occasione dell’esame del mezzo precedente.

Il quarto motivo, denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 1105, anche in relazione all’art. 2257 c.c., e art. 1120 c.c., comma 2, art. 1122 c.c., art. 1130 c.c., comma 1, n. 4, censura la sentenza impugnata per avere affermato che la domanda di rimozione del condizionatore, risultando esso installato su una parte comune dell’edificio, anche sotto il profilo del decoro architettonico, spettava al condominio e non al singolo condomino, trascurando di considerare che nella specie il condominio, composto da tre condomini, non aveva un amministratore e che, comunque, ciascun condomino può agire a tutela dei diritti che gli competono sulla cosa comune.

Anche questo motivo va dichiarato inammissibile, sia pure per una ragione diversa dalle precedenti.

La conclusione in questo caso discende dal rilievo che il tema da esso introdotto, relativo alla legittimazione del singolo condominio ad esercitare l’azione a difesa del bene comune, risulta affrontato e risolto, come emerge chiaramente dalla sentenza della Corte di appello, già dalla decisione di primo grado, che aveva affermato la legittimazione al riguardo in capo al solo condominio, pur avendo poi esaminato, ma "solo per uno scrupolo ulteriore", come si legge nella sentenza di appello, la relativa domanda anche nel merito. Ora, dalla lettura della sentenza impugnata e dello stesso ricorso, non risulta però che questo punto della decisione del Tribunale abbia poi formato oggetto di specifico motivo di appello, anche se essa è stata ribadita dal giudice di secondo grado. Nell’esposizione del fatto contenuta nel ricorso si legge che contro la sentenza di primo grado gli attori avevano proposto gravame "negando l’esistenza della servitù di passaggio e di installazione e mantenimento dell’apparecchio esterno dell’impianto di condizionamento d’aria";

nessun cenno ad uno specifico motivo di appello avverso la statuizione in questione, inoltre, è dato rinvenire nella sentenza impugnata. Ne consegue che la questione, al di là dell’esame del merito in ordine alla soluzione accolta, deve ritenersi ormai preclusa per effetto del formarsi del giudicato c.d. interno sul relativo capo della decisione di primo grado, seguito dalla mancata impugnazione sul punto. Per tale ragione il motivo è inammissibile.

Il quinto motivo di ricorso denunzia insufficiente ed errata motivazione in relazione al capo della decisione che ha negato che l’installazione del condizionatore sul muro comune recasse pregiudizio al decoro architettonico dell’edificio.

Il motivo va dichiarato assorbito in ragione della declaratoria di inammissibilità del mezzo precedente, investendo esso una ratio decidendi ulteriore rispetto a quella relativa al difetto di legittimazione ad agire degli attori, che, di per sè, appare autonoma ed in grado di sorreggere, da sola, la decisione impugnata.

Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza dei ricorrenti.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro, di cui Euro 1.700, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 22 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2012

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