Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 10-11-2011) 06-12-2011, n. 45391

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. G.G., per il tramite del suo difensore, impugna per cassazione la sentenza della Corte di Appello di Milano, deliberata il 13 agosto 2010, che riformando parzialmente quella di primo grado – emessa dal GIP del Tribunale di Milano in data 6 luglio 2009 ed impugnata oltre che dal predetto imputato anche dal Procuratore Generale della sede con riferimento alla quantificazione della pena – lo ha condannato alla pena di anni otto e giorni venti di reclusione previa concessione delle attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, della premeditazione e dall’aver agito per motivi abietti e futili (desiderio di vendicarsi per una lite avvenuta circa tre anni prima) e della recidiva specifica, reiterata ed infraqulnquennale, siccome colpevole del reato di tentato omicidio contestatogli aver compiuto in (OMISSIS), agendo in concorso con altro individuo non identificato, atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare la morte di Ga.Ed. detto (OMISSIS), colpendolo ripetutamente al capo con una mazza da baseball, con violenza tale da spaccare, durante l’aggressione, tale strumento atto ad offendere.

1.1 Il ricorso proposto nell’interesse dal G. – che nel corso del giudizio di merito mentre non risulta aver mai negato il fatto storico di aver percosso il Ga. con una mazza di baseball, presa da casa subito dopo averlo notato la presenza dello stesso nei giardini di (OMISSIS), ha però escluso di aver mai voluto uccidere la persona offesa, essendo invece sua intenzione soltanto punirla per un torto subito tempo addietro (un’aggressione) – prospetta tre motivi d’impugnazione.

1.1.1. Con il primo si denunzia la illegittimità della sentenza impugnata per violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento alla decisione dei giudici di appello di escludere la configurabilità dell’esimente di cui all’art. 56 c.p., comma 3, con l’argomentazione, ritenuta illogica e meramente congetturale, "che non vi era stata una desistenza rilevante ed attiva, da parte dell’imputato, che semplicemente, ad un certo punto, con l’arma ormai inutilizzabile e rendendosi conto che la mancanza di reazione negli astanti poteva cessare da un momento all’altro, non ha infierito oltre". Più specificamente, dopo aver ricordato che per aversi desistenza volontaria non è richiesto un recesso attivo, essendo sufficiente che la condotta sia stata libera e non coartata, la difesa del G. evidenzia in ricorso che costui ha spontaneamente desistito dal continuare a percuotere la vittima e che il rilievo dei giudici di appello secondo cui ciò è avvenuto in quanto l’arma (la mazza da baseball) era ormai inutilizzabile, costituisce argomento era del tutto inconferente, poichè il bastone, come dichiarato dai testi che assistettero all’aggressione, si era rotto al primo colpo e l’imputato, malgrado ciò, aveva comunque continuato a percuotere la vittima con il moncone, con pugni e calci, sino a quando aveva poi spontaneamente smesso ed abbandonato il luogo; così come irrilevante doveva ritenersi il rilievo che nell’allontanarsi il G. avrebbe ribadito la propria intenzione omicida, pronunciando la frase "se ti fai rivedere ti ammazzo, ti sparo: fatti trovare qui domani e ti sparo", trattandosi di una minaccia valevole per il futuro è non già l’esternazione di una intenzione omicida per un fatto (aggressione) che si era già in tutti i suoi termini ormai concluso. Dal riconoscimento dell’esimente discende allora, secondo il ricorrente, che avendo l’azione del G. causato al Ga. una malattia dalla durata di giorni trenta, l’imputato, per gli atti compiuti, deve rispondere dei reati di percosse e lesioni personali.

1.1.2. Con il secondo motivo, in ricorso si denunzia l’illegittimità della sentenza impugnata, per violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento al mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, nonostante l’avvenuto versamento alla persona offesa, banco iudicis, della somma di Euro 5000,00, accettata dal Ga. che l’aveva ritenuta interamente satisfattiva, rinunciando alla costituzione di parte civile. Tale circostanza, infatti, ad avviso del ricorrente, incongruamente è stata valutata dai giudici di appello come rilevante soltanto ai fini della concessione delle attenuanti generiche.

In particolare, secondo il difensore del G., la decisione della Corte territoriale di ritenere insufficiente la somma offerta deve ritenersi incongrua e motivata in maniera del tutto insufficiente, in quanto affidata a valutazioni autoreferenziali e sommarie, non avendo i giudici di appello adeguatamente considerato:

a) che il ricorrente, ammesso al gratuito patrocinio, è nullatenente al pari della persona offesa, sessantacinquenne e soggetto che all’epoca dei fatti non svolgeva alcuna attività lavorativa; b) l’assenza di lesioni permanenti; c) l’intervenuta accettazione della somma da parte del Ga..

1.1.3. Con il terzo ed ultimo motivo, in ricorso si denunzia l’illegittimità della sentenza impugnata, per violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento al trattamento sanzionatolo ed al riconoscimento delle attenuanti generiche con giudizio di equivalenza.

Secondo il ricorrente, in particolare, la statuizione della Corte territoriale sul punto sarebbe viziata dall’erronea interpretazione dell’art. 99 c.p., avendo i giudici di appello ritenuto che nei confronti del G. doveva applicarsi obbligatoriamente l’aumento di pena per la recidiva, senza considerare, però, che la recidiva applicabile nel caso in esame era quella reiterata infraquinquennale ma non anche specifica, avendo l’imputato riportato condanna per violazione della legge sugli stupefacenti e per il delitto di resistenza ma non anche per tentato omicidio, sicchè, non avendo riportato precedenti condanne per un reato incluso nel novellato art. 407 c.p.p. l’aumento di pena per li recidiva doveva, ritenersi non obbligatorio.

Motivi della decisione

1. L’impugnazione proposta nell’interesse di G.G. è basta su motivi non consentiti nel giudizio di legittimità e comunque manifestamente infondati, e ne va pertanto dichiarata l’inammissibilità. 1.1. Con riferimento al primo motivo d’impugnazione va rilevato come lo stesso si risolve in una sostanziale riproposizione di argomentazioni difensive già esaminate dai giudici di appello e dagli stessi disattese con motivazione assolutamente congrua.

Ed invero come da tempo affermato da questa Corte di legittimità (in termini, Sez. 1, Sentenza n. 5037 del 08/04/1997, dep. 29/05/1997, Rv. 207647, imp. Sannino) "la desistenza volontaria – disciplinata dall’art. 56 c.p., comma 3, – è una esimente di carattere speciale che trova fondamento nella considerazione utilitaristica di politica criminale secondo cui è opportuno mandare impunito il colpevole di un reato tentato per incentivare l’abbandono di iniziative criminose, ovvero, nell’ambito della prevenzione speciale, sulla considerazione che l’agente, il quale volontariamente desiste, dimostra di possedere una ridotta volontà criminale. Di conseguenza, pur se non è necessario che si identifichi con la spontaneità, la desistenza deve essere deliberata in una situazione di libertà interiore indipendente da fattori esterni che influiscano sulla volontà dell’agente menomandone la libera determinazione".

In particolare, come affermato anche di recente da questa Corte (In termini, Sez. 1, Sentenza n. 9015 del 04/02/2009, dep. 27/02/2009, Rv. 242877, imp. Petralito), "la desistenza volontaria …., presuppone la costanza della possibilità di consumazione del delitto", con la conseguenza che, "qualora tale possibilità non vi sia più, o per la non realizzabilità fisico-materiale della consumazione stessa oppure, sul piano soggettivo, anche soltanto per una non realizzabilità erroneamente ritenuta dal soggetto agente, ricorre, sussistendone i requisiti, l’ipotesi del delitto tentato".

Orbene, nel caso in esame, i giudici di appello, sulla scorta della ricostruzione del fatto compiuta dal primo giudice sulla base delle attendibili deposizioni dei molti testi oculari escussi, hanno ritenuto non ravvisabile l’elemento della costanza della possibilità di consumazione del delitto, sviluppando sul punto una motivazione del tutto plausibile ed ancorata a dati di fatto incontrovertibili, quali, da un lato, la rottura della mazza da baseball e, dall’altro, la presenza di svariate persone che assistettero all’aggressione, dagli stessi desumendo che nel G., per quanto fiancheggiato da due complici che tenevano a bada gli astanti, era maturata la convinzione dell’irrealizzabilità del proprio originario programma omicidiario.

In presenza di un siffatto percorso argomentativo sviluppato nelle sintoniche decisioni dei giudici di merito, che risulta immune da vizi logici o giuridici e pienamente aderente alle risultanze processuali, le argomentazioni sviluppate in ricorso, si risolvono, in ultima analisi, in una sellecitazione a compiere una nuova e diversa "lettura" dei dati probatori in senso più favorevole al ricorrente, che risulta evidentemente non consentita nel giudizio di legittimità. 1.2 Manifestamente infondate risultano anche le deduzioni difensive prospettate in ricorse relativamente alla pretesa insufficienza delle motivazioni addette dalla Certe territoriale in tema di mancato riconoscimento dell’attenuante ex art. 62 c.p., n. 6. Al riguardo occorre considerare, in primo luogo, che secondo l’orientamento del tutto consolidato di questa Corte non vi è inadempimento all’obbligo della motivazione qualora il giudice d’appello richiami, condividendole, le argomentazioni svolte dal primo giudice. In tal caso le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscono una sola entità logico-giuridica, alla quale occorre far riferimento per giudicare della congruità della motivazione, integrando e completando quella adottata dal primo giudice le eventuali carenze di quella d’appello" (in termini, Sez. 1, Sentenza n. 1309 del 22/11/1993, dep. 04/02/1994, Rv. 197250, imp. Albergamo).

Orbene, le sintoniche decisioni dei giudici di merito di negare la concessione dell’attenuante di cui trattasi, non presentano i denunziati profili di illegittimità, ove si consideri, per un verso, che, secondo quanto affermato dal giudice di prime cure e non contestato dal ricorrente, il risarcimento del danno era intervenuto tardivamente, pressochè in limine della discussione finale; per altro verso, "che la riparazione del danno perchè possa condurre all’applicazione della relativa attenuante, deve essere effettiva, integrale e volontaria", e che in proposito "le dichiarazioni liberatorie rese dal creditore non assumono rilievo di sorta ai fini del riconoscimento dell’attenuante medesima" (in termini, ex multis, Sez. 1, Sentenza n. 6679 del 05/05/1995, dep. 07/06/1995, Rv. 201538, imp. Melito).

In particolare, con riferimento a tale ultimo profilo, poichè i giudici di appello, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, hanno ancorato la propria valutazione circa l’Insufficienza del risarcimento a precise risultanze fattuali: quali la particolare violenza dell’aggressione, desumibile anche dalle fratture alla mano sinistra ed alle vertebre L2 e L3; il suo protrarsi per un apprezzabile lasso di tempo; la durata della malattia cagionata alla vittima (giudicata guaribile in trenta giorni, salvo complicazioni);

nessuna effettiva insufficienza motivazionale può fondatamente ravvisarsi in tale apparato argomentativo, comunque adeguato ed immune da vizi logici o giuridici.

1.3 Manifestamente infondato risulta, infine, anche il terzo motivo relativo al trattamento sanzionatorio ed al giudizio di sola equivalenza tra attenuanti ed aggravanti, decisione che si assume viziata da una non corretta interpretazione dell’art. 99 c.p. compiuta dai giudici di appello.

Ed invero seconda l’interpretazione dell’art. 99 c.p., comma 5, assolutamente univoca nella giurisprudenza di questa Corte (in termini Sez. 1, Sentenza n. 46875 del 12/11/2009, dep. 09/12/2009, Rv. 246254, imp. Moussald; Sez. 1, Sentenza n. 36218 del 23/09/2010, dep, 11/10/2010, Rv, 248289, Imp. Plsanello) – la quale ha trovato, del resto, autorevole conferma anche in una recente decisione delle Sezioni Unite (la sentenza n. 20798 del 24/02/2011, dep. 24/05/2011, Rv. 249664, imp. Indelicato) – "la recidiva cosiddetta "obbligatoria", disciplinata dall’art. 99 c.p., comma 5, ricorre ogni qualvolta un soggetto recidivo commetta un nuovo delitto compreso tra quelli indicati nell’art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a), a nulla rilevando se il delitto per cui vi è stata precedente condanna sia anch’esso incluso nell’elenco del citato art. 407", con la conseguenza che nessun profilo di illegittimità è ravvisarle nella decisione impugnata con riferimento ad un giudizio di sola equivalenza e non anche di prevalenza tra le concesse attenuanti generiche e le aggravanti contestate, comunque adeguatamente motivato con riferimento alla proditorietà dell’aggressione ed alla reiterazione della violenza.

2. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e – non ricorrendo ipotesi di esonero in mancanza di elementi indicativi dell’assenza di colpa (Corte Cost, sent. n. 186 del 2000) – al versamento alla cassa delle ammende di una somma congruamente determinabile in Euro 1000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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