Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 28-06-2012, n. 10899 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- Con ricorso al Tribunale di Ragusa F.V., assunto da Poste Italiane s.p.a. con un contratto a tempo determinato dall’8 giugno 2000 al 30 settembre 2000 per "esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane", rilevava la illegittimità dell’apposizione del termine al contratto in questione. Pertanto, sosteneva che essendo stata l’assunzione illegittima, il contratto si era convertito in contratto a tempo indeterminato. Chiedeva pertanto che, previa dichiarazione di illegittimità del termine apposto al predetto contratto di lavoro, fosse dichiarata l’avvenuta trasformazione dello stesso in contratto a tempo indeterminato, con consequenziali pronunce in ordine agli intimati recessi.

Il Tribunale adito, con sentenza del 27 settembre 2004, rigettava la domanda, ritenendo fondata l’eccezione della società di avvenuta risoluzione del contratto per mutuo consenso.

Avverso tale sentenza proponeva appello il lavoratore lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo l’accoglimento delle domande proposte con il ricorso introduttivo.

2- La Corte d’appello di Catania, con sentenza del 27 gennaio 2007, in riforma della suindicata sentenza del Tribunale di Ragusa: 1) dichiarava la nullità del termine apposto al contratto in oggetto e ne disponeva la conversione in contratto a tempo indeterminato con decorrenza dall’8 giugno 2000; 2) ordinava alla società la riammissione di F.V. nel posto di lavoro da ultimo occupato; 3) condannava la società medesima al risarcimento del danno nella misura pari alle retribuzioni maturate dal 10 luglio 2003 fino alla riassunzione, con gli accessori di legge e con detrazione all’aliunde perceptum, nella misura risultante dagli atti notori prodotti in giudizio dal lavoratore; 4) condannava la società anche al pagamento delle spese processuali dei due gradi di merito.

In particolare, la Corte territoriale: 1) ha dichiarato che la mera inerzia del lavoratore non poteva essere interpretata come fatto estintivo del rapporto (in quanto tale effetto consegue dal concorso di altre circostanze significative, salvo i comportamenti correlati all’ordinaria cessazione del rapporto) 2) dopo aver inquadrato il contratto in oggetto nell’ambito del sistema di cui alla L. n. 56 del 1987, art. 23 (che aveva delegato le OOSS a individuare nuove ipotesi di assunzione a termine con la contrattazione collettiva), ha ritenuto illegittima l’apposizione del termine sul principale rilievo secondo cui il contratto stesso era stato stipulato in assenza di alcuna valida autorizzazione da parte della contrattazione collettiva, perchè la normativa collettiva consentiva l’assunzione a termine per la causale dedotta solo fino al 30 aprile 1998.

3.- Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la società con dieci motivi e F.V. non svolge attività difensiva.

La ricorrente deposita anche memoria ex art. 378 cod. proc. civ., nella quale chiede l’applicabilità dello ius superveniens rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore dal 24 novembre 2010.

Motivi della decisione

1^ – Sintesi dei motivi.

1.- Con il primo e il secondo motivo, prospettando sia violazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 1372 c.c., comma 1, artt. 1175, 1375, 2697, 1427 e 1431 cod. civ.), sia vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), la società ricorrente sostiene che la Corte territoriale avrebbe erroneamente – e con motivazione lacunosa e contraddittoria – disatteso l’eccezione di risoluzione del contratto per mutuo consenso, nonostante il comportamento di inerzia manifestato dal lavoratore successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro a termine.

2- Con i motivi dal terzo all’ottavo, la società ricorrente – lamentando violazione e falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3,) dell’art. 2697 cod. civ., della L. n. 230 del 1962, artt. 1, 2 e 3 della L. n. 56 del 1987, art. 23 e dei criteri di ermeneutica contrattuale in relazione agli accordi collettivi intercorsi, nonchè vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) – deduce che il potere normativamente attribuito alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi di assunzione a termine, in aggiunta a quelle già stabilite dall’ordinamento, configurava una vera e propria "delega in bianco" in favore delle organizzazioni sindacali, le quali, pertanto, potevano legittimare il ricorso al contratto a termine non solo per causali di carattere oggettivo, ma anche meramente soggettivo, sicchè restava precluso al giudice di individuare limiti ulteriori, anche di ordine temporale, atti a circoscrivere l’ambito di operatività delle ipotesi di contratto a termine individuate in sede collettiva. E che, comunque, la Corte territoriale, esclusa l’applicabilità della disciplina della L. n. 56 del 1987, art. 23 avrebbe omesso, altresì, di verificare la riconducibilità della previsione, posta a fondamento dell’assunzione in oggetto, in una delle ipotesi di legittima apposizione del termine previste dalla L. n. 230 del 1962, art. 1.

3.- Con il nono e il decimo motivo – prospettando sia violazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1206, 1217, 1219, 2094 e 2099 cod. civ.), sia vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) – la ricorrente si duole, infine, che la Corte territoriale abbia omesso qualsiasi verifica in ordine alla rituale costituzione in mora del datore di lavoro (che non potrebbe, in ogni caso, desumersi dalla mera istanza per il tentativo di conciliazione) ed abbia motivato sul punto in modo contraddittorio.

2^ – Esame dei motivi.

4.- I primi due motivi – da esaminare congiuntamente, data la loro intima connessione – non sono fondati, nei sensi di seguito precisati.

4.1- Come questa Corte ha più volte affermato "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice del merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto" (vedi Cass. 10 novembre 2011, n. 23428; Cass. 10 novembre 2008, n. 26935; Cass. 28 settembre 2007, n. 20390; Cass. 17 dicembre 2004, n. 23554; Cass. 11 dicembre 2001, n. 15621).

Tale principio va enunciato anche in questa sede, rilevando, inoltre, che, come pure è stato precisato, "grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro" (vedi, per tutte: Cass. 30 agosto 2011, n. 17838; Cass. 2 dicembre 2002, n. 17070). Circostanze che, con corretta motivazione, la Corte territoriale ha ritenuto nel caso non provate, alla luce dell’impossibilità di arguirle solo dal decorso del tempo maturatosi prima della proposizione del ricorso, non senza considerare che, comunque, il reperimento di altre occasioni di lavoro è strumentale alla necessità di sopperire ad elementari bisogni di vita ed, in difetto di un più specifico contesto di riferimento, non è, pertanto, di per sè solo significativo di una univoca volontà di rinunciare al diritto e che ancor meno significativa appare la percezione di indennità (quali il TFR) dovute ex lege per effetto della cessazione del rapporto di lavoro.

5- Riguardo, poi, ai motivi del ricorso dal terzo all’ottavo – anch’essi da esaminare congiuntamente stante la loro connessione – vanno ribaditi i principi, ormai acquisiti, che questa Suprema Corte ha affermato con riferimento alla disciplina dell’istituto nel sistema vigente anteriormente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 368 del 2001.

In primo luogo, sulla scia di Cass. SU. 2 marzo 2006 n. 4588, questa Corte ha più volte affermato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (vedi Cass. 4 agosto 2008, n. 21063 nonchè: Cass. 20 aprile 2006 a 9245; Cass. 7 marzo 2005, n. 4862;

Cass. 26 luglio 2004, n. 14011).

"Ne risulta, quindi, una sorta di delega in bianco a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato" (v., fra le altre, Cass. 4 agosto 2008, n. 21062; Cass. 23 agosto 2006, n. 18378). In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive, la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (vedi fra le altre Cass. 23 agosto 2006, n. 18383; Cass. 14 aprile 2005, n. 7745; Cass. 14 febbraio 2004, n. 2866).

In particolare, come questa Corte ha più volte rilevato, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l.

26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza alla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 23" (vedi, fra le altre, Cass. 1 ottobre 2007, n. 20608; Cass. 27 marzo 2008, n. 7979; Cass. 18 marzo 2011, n. 6294; Cass. 31 marzo 2011, n. 6636).

Rilevato, quindi, che, in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, hanno reputato che con tali accordi le parti avessero convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998) della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo. Questa Corte ha anche osservato che tale interpretazione non viola alcun canone ermeneutico, atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di una più diffusa argomentazione ai fini della ricostruzione della volontà delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (vedi, ex plurimis: Cass. 28 agosto 2003, n. 12245; Cass. 25 agosto 2003, n. 12453).

Inoltre, è stato rilevato che tale interpretazione si palesa rispettosa del canone ermeneutico dell’art. 1367 cod. civ., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi (in considerazione della loro idoneità ad introdurre termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano previsti ex ante), laddove, diversamente opinando, gli stessi risulterebbero "senza senso" (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004, n. 2866).

Infine, corretta è apparsa, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del lavoratore si era già definitivamente perfezionato. Ed infatti, anche ad ammettere che le parti fossero mosse dall’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti di sanatoria delle assunzioni effettuate senza la copertura dell’accordo del 25 settembre 1997 (scaduto in forza delle convenzioni attuative), si dovrebbe, comunque, richiamare la regola dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già acquisiti, con la conseguente esclusione per le parti stipulanti del potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004, n. 5141) e la cui legittimità – per come è appena il caso di soggiungere – non risulta possibile "recuperare", sulla base delle originarie ipotesi giustificative di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 1 stante, se non altro, la tipicità della fattispecie posta a base dell’assunzione a termine.

In base agli esposti criteri interpretativi, ormai consolidati, ed al valore dei relativi precedenti, devono, quindi, rigettarsi i motivi di ricorso esaminati, con assorbimento di ogni ulteriore censura.

6 – Con gli ultimi due motivi (nono e decimo) – anch’essi intimamente connessi e quindi da esaminare insieme – la società, come si è detto, contesta le statuizioni della sentenza impugnata riguardanti le conseguenze economiche della dichiarazione di nullità dell’apposizione del termine.

La ricorrente sostiene che la Corte di merito abbia considerato come valido atto di messa in mora l’atto (del 10 luglio 2003), sull’assunto secondo cui con tale atto il lavoratore si è dichiarato disponibile a rendere la prestazione lavorativa che aveva reso fino alla disdetta intimatagli illegittimamente dalla società, così manifestando di avere interesse alla prosecuzione del rapporto e alla retribuzione.

Secondo la ricorrente tale atto non avrebbe potuto essere considerato idoneo al suddetto scopo, non contenendo alcuna offerta della prestazione di lavoro, conseguentemente il corrispondente capo della sentenza impugnata, oltre ad essere motivato in modo contraddittorio, si porrebbe in contrasto con la disciplina codicistica sulla messa in mora e sulla corrispettività della prestazioni.

A tale ultimo riguardo la ricorrente formula il seguente quesito di diritto: "Dica la Suprema Corte se per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui all’art. 1206 e segg. cod. civ.".

Va precisato che il decimo motivo, appare inammissibile in quanto privo di specificità rispetto al motivo precedente e comunque perchè si sostanzia in una inammissibile critica al vaglio del materiale probatorio, istituzionalmente riservato al giudice del merito, secondo il consolidato e condiviso orientamento di questa Corte (vedi, per tutte, da ultimo: Cass. 26 gennaio 2011, n. 1789;

Cass. 19 aprile 2011, n. 8965).

Per quel che riguarda il nono motivo, come già affermato da questa Corte in analoghe controversie (vedi, per tutte: Cass. 31 gennaio 2012, n. 1412), un quesito quale quello su riportato non è conforme all’art. 366-bis cod. proc. civ. (applicabile ratione temporis) perchè "riguarda soltanto l’argomento della mora credendi e risulta del tutto generico, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso vedi fra le altre Cass. 4 gennaio 2011, n. 80)".

Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v, ad es. Cass. SU. 5 gennaio 2007, n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. Del resto, è stato anche precisato che "è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie" (vedi Cass. S.U. 30 ottobre 2008, n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (vedi, per tutte: Cass. 7 aprile 2009, n. 8463).

Peraltro neppure può ignorarsi che nella fattispecie anche la illustrazione del motivo risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto si incentra nella doglianza circa la mancanza di una verifica da parte della Corte territoriale sul punto, senza neppure riportare il testo dell’atto che, secondo l’assunto della società, non avrebbe integrato la messa in mora.

Pertanto, essendo risultati inammissibili i motivi riguardanti le conseguenze economi che della nullità del termine, neppure può incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, (sul quale vedi: Corte costa 303 del 2011).

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (vedi, per tutte: Cass. 31 gennaio 2012, n. 1411; Cass. 8 maggio 2006, n. 10547; Cass. 27 febbraio 2004, n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (vedi, fra le tante: Cass. 31 gennaio 2012, n. 1411; Cass. 4 gennaio 2011 n. 80 cit.).

Orbene, per quel che si è detto, tale condizione non sussiste nella fattispecie.

3^ – Conclusioni.

7- In conclusione, il ricorso deve essere respinto. Nulla si dispone per le spese del presente giudizio di cassazione, non avendo la parte intimata svolto attività difensiva in questa sede.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese del presente giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione lavoro, il 17 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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