Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 30-06-2011) 06-12-2011, n. 45374 Reato continuato e concorso formale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con sentenza pronunciata il 18 giugno 2009 il GUP del Tribunale di Messina condannava S.F. alla pena di anni otto di reclusione ed Euro 1600,00 di multa perchè giudicato colpevole, unificate le condotte a mente dell’art. 81 c.p., del reato di cui all’art. 416 bis c.p., del reato di tentata estorsione aggravata a mente della L. n. 203 del 1991, art. 7 in danno di B. A., del reato di usura in danno di T.F., del reato di usura in danno di C.P. e del reato di ricettazione degli assegni bancari utilizzati per la consumazione del precedente reato di usura. Con la stessa sentenza il Gup condannava alla pena di anni sette e mesi sei di reclusione ed Euro 1200,00 di multa B.A., imputato dello stesso reato associativo di cui innanzi e del reato di estorsione aggravata, anche dalla L. n. 203 del 1991, art. 7, in danno dei commercianti del mercato rionale (OMISSIS), nonchè dello stesso reato estorsivo in danno del titolare di un rivendita posta nel medesimo mercato.

Sull’appello degli imputati la Corte di Appello messinese, con sentenza deliberata il 21 luglio 2010, ritenuta assorbita l’estorsione individuale in quella più ampia in danno dei commercianti del mercato rionale anzidetto, rideterminava la pena a carico del B. in anni sei di reclusione ed Euro 1000,00 di multa e riduceva la sanzione a carico dell’altro appellante ad anni sei e mesi quattro di reclusione ed Euro 1600,00 di multa.

2. Ricorrono per cassazione avverso la sentenza di secondo grado gli imputati, assistiti dai rispettivi difensori di fiducia.

2.1 Nell’interesse del B. sono stati sviluppati due motivi di impugnazione.

2.1.1 Col primo di essi denuncia la difesa ricorrente difetto di motivazione in relazione al reato associativo, dedotto semplicemente, secondo opinamento difensivo, dalla partecipazione al reato estorsivo, in particolare osservando che:

– la Corte avrebbe utilizzato gli argomenti volti a sostenere l’accusa di estorsione (ammessa dal ricorrente) per confermare apoditticamente la colpevolezza dell’imputato anche per quello associativo;

– la Corte, inoltre, ha tratto certezze in ordine alla sussistenza della famiglia mafiosa Vadala da altro processo, relativo alla c.d.

"operazione Omero", processo al quale l’imputato è stato estraneo, nè è provata la partecipazione del medesimo ad altra attività del gruppo anzidetto;

– trattasi pertanto di motivazione apparente, che non tiene conto della quasi incensuratezza dell’imputato, delle circostanze appena sintetizzate, dei modestissimi proventi dell’estorsione e della mancanza di elementi ulteriori, rispetto a detto reato, per corroborare l’accusa di associazione malavitosa contestata.

2.1.2 Col secondo motivo di ricorso denuncia la difesa ricorrente il difetto di motivazione in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, in particolare osservando che:

– la sentenza indica le ragioni della contestata decisione richiamando le condanne definitive a carico del B., espressive, per la Corte, di una sua propensione a violare la legge;

– in realtà a carico del B. sussistono soltanto due lievi condanne, peraltro, molto lontane nel tempo, per reati bagatellari, puniti con la sola pena pecuniaria;

– un tale irragionevole riferimento inficia la logicità della motivazione.

2.1.3 Il difensore del B. ha poi depositato motivi aggiunti, nella sostanza illustrando ulteriormente il primo motivo di ricorso innanzi sintetizzato.

2.2 Si duole della condanna anche S.F., il quale, a sostegno della sua impugnazione, sviluppa cinque motivi di ricorso.

2.2.1 Col primo di essi la difesa ricorrente contesta, sia sotto il profilo della violazione di legge che del difetto di motivazione, la condanna dell’imputato per il reato di tentata estorsione ai danni di Be.An., dappoichè la condotta accertata, secondo opinamento difensivo, doveva essere correttamente inquadrata nel reato di esercizio abusivo delle proprie ragioni (art. 393 c.p.).

Al riguardo deduce in particolare l’istante che:

– la motivazione impugnata, sul punto, ha affermato che il reato di estorsione in luogo di quello di cui all’art. 393 c.p. va, nella fattispecie, dedotto dall’esorbitanza della pena richiesta, Euro 107.000,00, a fronte di un debito iniziale pari ad Euro 3.000,00, nonchè dai metodi utilizzati in danno della vittima, ben al di là del mero intento di far valere un proprio diritto;

– il profilo distintivo tra i due reati di cui alla censura va individuato, con l’insegnamento della suprema Corte, nell’elemento psicologico dell’agente, volto, nel reato più grave, a conseguire un profitto senza averne diritto e diretto invece, nel reato di ragion fattasi, nel conseguimento di un profitto che si assume dovuto, magari erroneamente, con una azione personale pur potendosi adire l’autorità giudiziaria;

– dal compendio processuale emerge, invece, che il Be., prima dell’epoca dei fatti di causa, collaborava con l’imputato come procacciatore di polizze assicurative e che in questo rapporto aveva assunto più posizioni debitorie verso il suo datore di lavoro (prestito di Euro 3000,00, polizze per i familiari, denaro versato al figlio della p.l.);

– pertanto è certa la circostanza che, prima dei fatti di causa, il Be. era debitore dell’imputato e che tra i due erano insorti forti ed acuti contrasti di natura personale;

– la stessa informativa di reato precisa le varie voci debitorie vantate dall’imputato per un importo complessivo di Euro 14.215,67 e ciò comprova sia la ferma convinzione dell’imputato stesso di essere creditore non soddisfatto della p.l., sia la ragione del suo agire:

il pagamento di un suo credito, azionabile davanti all’a.g.;

– dagli atti processuali risulta che il di 8.1.2008 morì V. N. e che di tale morte i fratelli V. ritenevano responsabile il Be., che iniziarono da allora a minacciare pesantemente, a riprova altresì che la morte del V. segna una nuova fase della vicenda dedotta in giudizio;

– la somma pretesa dall’imputato è stata sempre quella anzidetta, a cui si aggiunse la pretesa autonoma dei V. di Euro 5000,00 a titolo di risarcimento per il funerale del congiunto;

– la maggior somma di Euro 107.000,00 indicata nel foglio acquisito all’informativa di reato indica la somma capitale minore, mentre quella esorbitante si raggiunge con un conteggio illogico ed assurdo di moltiplicazione del capitale per 36 (mesi di pagamento dilazionato) per il 20% di interesse, elementi, questi, accessori al capitale.

2.2.2 Col secondo motivo di ricorso denuncia la difesa ricorrente difetto di motivazione e violazione di legge in relazione alla sussistenza sia dei reati di usura che dell’aggravante contestati, in particolare deducendo che:

– non v’è prova che a carico della Tr. e del marito, su un prestito di Euro 6000,00, siano stati applicati tassi superiori al limite legale;

– l’accusa è sostenuta su una frase intercettata "10.000 salgono se andiamo avanti" alla quale non può riconoscersi sostanza probatoria decisiva;

– la p.l. non ha mai confermato l’ipotesi accusatoria;

– anche per la p.l. C. deve richiamarsi la deposizione testimoniale favorevole all’accusa;

– per l’episodio C. a carico dell’imputato rimane una intercettazione, quella del 7.11.2007, smentita dalla testimonianza diretta della p.l.;

– non risultano acquisiti gli assegni consegnati dall’imputato alla p.l. e, quindi, palese è in questo caso il deficit probatorio.

2.2.3 Col terzo motivo di ricorso denuncia la difesa ricorrente violazione di legge e difetto di motivazione in relazione all’art. 648 c.p., sul rilievo che non era certa nella circostanza la provenienza illecita dei titoli che si assumono ricettati e che questo non può non influire sulla sussistenza, nello specifico, dell’elemento psicologico del reato.

2.2.4 Col quarto motivo di ricorso denuncia la difesa ricorrente violazione di legge e difetto di motivazione in relazione al reato associativo, in particolare osservando che:

– la sussistenza di un clan Vadalà è ritenuta provata dalla Corte di merito sulla scorta di una sentenza resa a margine della c.d. operazione Omero, sentenza non ancora passata in giudicato, di guisa che trattasi, nello specifico, di una circostanza quanto meno incerta;

– le caratteristiche delle condotte estorsive imputate al clan Vadalà fanno riferimento nella citata sentenza sull’operazione Omero alle modalità del pizzo, non riscontrabile nella tentata estorsione a carico del Be.;

– l’imputato ha rapporti soltanto con V.A., assunto presso al sua agenzia di assicurazioni e soltanto per questo, mentre non risultano acquisite prove sui rapporti tra l’imputato ed altri componenti di tale famiglia;

– i prestiti alla Tr. ed al C. provengono da fondi dell’imputato e la famiglia Vadalà in questo non ha avuto alcun ruolo;

– la presenza in diverse intercettazioni ambientali di T. F., esponente del clan Vadalà per la sentenza relativa al procedimento Omero, può qualificare l’aggravante ex L. n. 203 del 1991, art. 7, ma non può certo provare la partecipazione associativa dell’imputato.

2.2.5 Col quinto ed ultimo motivo di impugnazione denuncia la difesa ricorrente violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla mancata concessione all’imputato delle attenuanti generiche, in particolare osservando che i precedenti evocati dalla Corte di merito a giustificazione dell’impugnato diniego non sarebbero gravi e significativi, risalirebbero a tempi lontani e non possono offuscare la circostanza che l’imputato stesso è persona dedita alla famiglia e ad una attività lavorativa importante.

2.2.6 Il difensore dello S. ha anch’egli depositato motivi aggiunti, nella sostanza illustrando ulteriormente il terzo motivo di ricorso innanzi sintetizzato, circa la configurabilità a carico dell’imputato del reato associativo contestato, ed il quinto motivo di impugnazione relativo alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, in particolare richiamando la recente sentenza in materia del giudice delle leggi, la L. 10 giugno 2011, n. 183 ed invocando, ai fini dell’applicazione della disciplina di favore, la mancata considerazione da parte del giudice territoriale della condotta dell’imputato successiva ai reati per i quali è causa.

3. I ricorsi sono, ad avviso della Corte, infondati.

3.1 Osserva la Corte, quanto al primo motivo illustrato nell’interesse del B., che le argomentazioni illustrate dalla difesa impugnante costituiscono la pedissequa riproposizione della doglianza di merito, puntualmente ed esaustivamente confutata dalla Corte territoriale con motivazione logicamente articolata.

Con esso, inoltre, la difesa istante torna a proporre una ricostruzione degli accadimenti alternativa a quella accreditata, con argomenti privi di illogicità e contraddizioni, dalle istanze di merito.

La contestazione associativa della quale il ricorrente si duole sotto il profilo del difetto di motivazione, risulta infatti provata, secondo l’opinare dei giudicanti di merito, dall’attività estorsiva posta in essere dall’imputato in (OMISSIS), a danno dei commercianti del mercato zonale di (OMISSIS), attività ammessa dall’interessato, svolta in modi e termini tipicamente mafiosi secondo logico avviso della Corte distrettuale (la guardiania imposta, il pagamento del pizzo settimanale per conto della famiglia mafiosa Vadalà alla quale veniva versato l’introito).

A ciò hanno aggiunto i giudici dei primi due gradi di giudizio le risultanze del processo c.d. "Omero", per ulteriormente comprovare l’esistenza del clan mafioso della famiglia Vadalà, in quel contesto processuale dedotto da fonti probatorie date dagli intranei al gruppo V.F. e V.A..

Palese, pertanto, la coerenza logica e la robustezza probatoria della condanna per il reato associativo a carico del ricorrente, alla quale la difesa istante ha opposto, come da sintesi innanzi riportata, generiche riproposizioni di doglianze già delibate in sede di gravame di merito, in assenza di apprezzabili repliche alla motivata conferma della condanna di prime cure.

3.2 Col primo motivo di ricorso, articolato come da sintesi di cui innanzi, anche la difesa di S.F. ripropone le tesi sostenute nella fase di merito al fine di dimostrare che, nella contrapposizione tra il Be., p.l., e l’imputato, non sia intercorso nulla più che un abuso inquadrabile nella ragion fattasi e non certo una condotta qualificabile come tentata estorsione.

Opportunamente hanno i giudici di merito, andando di contrario avviso rispetto alla tesi difensiva, valorizzato la circostanza che un debito iniziale di minimo importo (Euro 3000,00) sia diventato, senza giustificazione alcuna, di importo pari ad Euro 107.000,00, a ciò giustapponendo poi i metodi messi in capo per il recupero di tale somma, caratterizzati da violenza reiterata a carico della vittima, violenza consumata con l’apporto di figure appartenenti al clan malavitoso Vadalà ( T., F., V.A., V. U.).

A fronte della esaustiva motivazione diffusamente articolata dalla Corte distrettuale, come detto, la difesa impugnante ripropone argomentazioni (quelle innanzi sintetizzate) già correttamente confutate in quella sede processuale, nuovamente affidandosi ad una ricostruzione alternativa dei fatti di causa improponibile davanti al giudice di legittimità. Tanto sotto il profilo motivazionale.

Quanto poi all’aspetto più propriamente in diritto, rammenta la Corte il proprio costante insegnamento, secondo cui, se è configurarle il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (art. 393 c.p.) allorchè il soggetto abbia agito al fine di esercitare un suo preteso diritto, deve peraltro ritenersi che, quando la minaccia utilizzata si estrinseca in forme di tale forza intimidatoria e di tale sistematica pervicacia che vanno al di là di ogni ragionevole intento di far valere un diritto, allora la coartazione dell’altrui volontà è finalizzata a conseguire un profitto che assume ex se i caratteri dell’ingiustizia. Pertanto, in tali circostanze e situazioni, la condotta integra il reato di estorsione (art. 629 c.p.), giacchè la minaccia dell’esercizio di un diritto, in sè non ingiusta, tale diventa se le modalità che la caratterizzano denotano soltanto una prava volontà ricattatrice.

Ciò deve "a fortiori" dirsi allorchè la condotta materiale si sia sostanziata in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza, consistenti addirittura in lesioni personali e pesanti minacce contestualmente portate da più concorrenti (Cass., Sez. 2, 01.10.2004, n. 47972; Sez. 2, 16.2.2006, n. 12982; sez. 5, 14.4.2010, n. 28538).

A maggior ragione vanno richiamati i principi appena richiamati quando i metodi violenti sono finalizzati al conseguimento di pretese, come nella fattispecie, palesemente e gravemente illegittime.

3.3 Infondato si appalesa altresì il secondo motivo di impugnazione proposto da S.F., nel cui ambito ancora una volta la difesa ricorrente ripropone pressocchè pedissequamente le ragioni di doglianza già rappresentate alla Corte distrettuale e da questa esaustivamente confutate.

Quanto all’usura in danno di Tr.Al., beneficiaria di un prestito di Euro 6000,00 perchè in condizioni di difficoltà per l’incidente occorso al figlio e costretta alla restituzione della maggior somma di Euro 10000,00, i giudici di merito hanno richiamato i contenuti di una significativa intercettazione ambientale tra l’imputato ed il complice T., esponente del clan Vadalà, nonchè le dichiarazioni della stessa parte lesa, ammissive del prestito e criticamente valutate con logico argomentare, oltre le quali ricorre il giudizio in fatto precluso in questa sede processuale. Con riferimento, invece, all’usura in danno di C.P., imprenditore in difficoltà economiche, per questo costretto ad erogare Euro 300,00 mensili a titolo di interessi su un capitale di Euro 1800,00, la Corte di merito ha valorizzato anche in questo caso una intercettazione, quella del 7.11.2007, tra la p.l. e V.A., coimputato, con il ricorrente, della condotta in esame, ma sottoposto a diverso processo, di poi criticamente valutando le affermazioni della p.l., volte a sminuire le responsabilità dell’imputato, per il loro contrasto con il contenuto delle intercettazioni dette e perchè logicamente dimostrative del metus indotto dal prevenuto sulla persona della parte lesa.

Anche in questa circostanza oltre l’esaustiva motivazione dei giudici di merito, rimane il giudizio sui fatti di causa, alternativo a quello logicamente accreditato dai giudicanti, giudizio improponibile in cassazione.

3.4 Del tutto generica appare poi la censura affidata dalla difesa ricorrente al terzo motivo di ricorso in relazione alla ritenuta colpevolezza dell’imputato per i il reato di ricettazione, soprattutto perchè ripetitiva, essa censura, di quella prospettata al giudice di secondo grado, il quale, senza che sul punto si possa registrate una replica apprezzabile nel ricorso di legittimità, ha sottolineato che undici assegni di Euro 10.000 ed un assegno di Euro 16.500 provenienti da L.P.V., gioielliere vittima di usura per un prestito di Euro 150.000, erano rimasti nella disponibilità dell’imputato anche dopo il pagamento del debito usuraio.

A ciò oppone il difensore nulla più che l’argomento per il quale non vi sarebbe certezza, nella fattispecie, della provenienza illecita dei titoli, viceversa abbondantemente argomentata in prime e seconde cure.

3.5 Ancora infondato deve ritenersi il quarto motivo di impugnazione, con il quale, come innanzi chiarito, la difesa istante contesta l’accusa associativa a carico dello S..

Ed in vero, in tema di associazione di tipo mafioso, secondo autorevole lezione interpretativa di questa Corte nella sua più autorevole composizione, la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno "status" di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato "prende parte" al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi. Sviluppando poi tale premessa la Corte ha osservato che la partecipazione può essere desunta da indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi l’appartenenza nel senso indicato, purchè si tratti di indizi gravi e precisi – tra i quali, esemplificando, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di "osservazione" e "prova", l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di "uomo d’onore", la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, e però significativi "facta concludentia" – idonei, senza alcun automatismo probatorio, a dare la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo, con puntuale riferimento, peraltro, allo specifico periodo temporale considerato dall’imputazione (Cass., Sez. Unite, 12/07/2005, n. 33748, Marinino; Cass., Sez. 1, Sent, 11/12/2007, n. 1470). Orbene, nel caso di specie a carico dell’indagato i giudici di merito hanno, con coerenza logica, ritenuto adeguatamente provato, che le condotte di usura contestate e la tentata estorsione a danno del Be. si collocano nell’ambito di interessi della consorteria malavitosa operante nel territorio, quella dei Vadalà, i cui componenti sono coinvolti personalmente, come nell’usura a carico della Tr. e dello S., ovvero impegnati nell’appoggio fattivo a sostegno delle pretese estorsive dello S..

3.6 Infondati si appalesano infine le censure difensive in ordine alla motivazione illustrata dal giudice territoriale per negare la concessione agli imputati delle circostanza attenuanti generiche (secondo motivo del ricorso B. ed ultimo motivo del ricorso S.).

E’ noto al riguardo l’insegnamento di questo giudice di legittimità secondo cui, in tema di attenuanti generiche, posto che la ragion d’essere della relativa previsione normativa, come opportunamente rammendato dal giudice territoriale, è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza. Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio, trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti, tuttavia, la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda (Cass., Sez. 2, 22/02/2007, n. 8413; Cass., Sez. 2, 02/12/2008, n. 2769) giacchè il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall’imputato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l’uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l’indicazione delle ragioni ostative alla concessione e delle circostanze ritenute di preponderante rilievo (Cass., Sez. 2, 23/11/2005, n. 44322).

Ciò premesso ed in applicazione degli esposti principi deve concludersi che, ai fini dell’applicabilità o del diniego delle circostanze attenuanti generiche, assolve all’obbligo della motivazione della sentenza il riferimento alla gravità delle condotte giudicate, ritenuta di particolare rilievo come elemento concreto della personalità dell’imputato, non essendo affatto necessario che il giudice di merito compia una specifica disamina di tutti gli elementi che possano consigliare o meno una particolare mitezza nell’irrogazione della pena (Cass., Sez. 5, 06/09/2002, n.30284; Cass., Sez. 2, 11/02/2010, n. 18158).

Nel caso di specie la Corte ha dapprima illustrato le ragioni della doglianza e ad esse ha poi opposto, pur richiamando i precedenti penali dei due imputati per i difensori di minimo rilievo penalistico, soprattutto la gravità dei fatti contestati e le modalità delle condotte giudicate.

In applicazione dei principi innanzi appena esposti, deve concludersi per la infondatezza della censura in esame, sia sotto il profilo del difetto di motivazione che della violazione di legge.

4. In conclusione,alla stregua delle esposte considerazioni, i ricorsi in esame vanno rigettati ed i ricorrenti, a mente dell’art. 616 c.p.p., condannati al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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