Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 18-05-2011) 06-12-2011, n. 45365

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 3.6.2008 il Gup del Tribunale di Caltanissetta, all’esito del giudizio abbreviato, condannava F.F., con le circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti all’aggravante della premeditazione, l’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 e la continuazione, alla pena di anni venti di reclusione in ordine al reato di omicidio volontario premeditato (in concorso con altre persone alcune delle quali già giudicate e condannate) In danno di M.M., nonchè, ai delitti di detenzione e porto illegale di arma ed al concorso ex art. 116 c.p. nel tentato omicidio in danno di due agenti della polizia, fatti commessi in (OMISSIS). Assolveva, invece, E. A. dai medesimi reati per non avere commesso il fatto.

La Corte di Assise di Appello di Caltanissetta, in data 19.2.2010, sull’appello del pubblico ministero e dell’imputato F., riformando la decisione di primo grado, condannava E. A., con la diminuente del rito abbreviato, alla pena dell’ergastolo e concedeva a F.F. l’attenuante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 3 riducendo la pena allo stesso inflitta nella misura di anni dodici di reclusione.

2. La Corte premetteva che nella sentenza di primo grado si dava atto che in relazione all’omicidio di M.M. – attinto da numerosi colpi di arma da fuoco cal. 7,65 mentre transitava sulla pubblica via a bordo di un motoveicolo – erano stati celebrati più processi nei quali era stata affermata la responsabilità sia degli esecutori materiali, R.G. e T.S., sia dei mandanti, Tr.Ro. ed E.D. (fratello di A. deceduto prima dell’irrevocabilità della sentenza). In detti processi era emerso, in specie attraverso le dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia, il contesto nel quale si era verificato l’omicidio: l’inserimento della vittima nella famiglia di "cosa nostra" gelese ed i suoi legami con la cosca dei Rinzivillo; la sua partecipazione alla gestione delle attività estorsive e del commercio degli stupefacenti; la contrapposizione esistente in quel periodo tra il gruppo dei Rinzivillo e quello facente capo ai fratelli E. del quale faceva parte Tr.Ro.. In particolare, era emerso che i predetti E. ed il Tr. contestavano al M. una gestione personalistica delle attività illecite – tanto che neppure si preoccupava di sostenere la latitanza dei fratelli E. – e che a seguito di detta contrapposizione il M. aveva progettato un attentato ai danni del Tr. che però era riuscito a sventarlo ed aveva a sua volta organizzato l’omicidio del M..

Ripercorse, quindi, le dichiarazioni rese dai collaboratori esaminate nella sentenza di primo grado, la Corte di assise di appello evidenziava come il Gup, pur rilevando che tutti i collaboratori indicavano Tr.Ro. quale ideatore dell’omicidio con l’avallo dei fratelli E., tuttavia, avesse ritenuto che dalle dichiarazioni rese dal Tr., divenuto poi collaboratore, da L.N. e dal coimputato F. – che nelle more si erano autoaccusati della partecipazione all’omicidio – fosse emerso con certezza che mandante dell’omicidio era stato E. D., mentre non risultava accertato il ruolo avuto da E.A.. Il Tr., infatti, aveva riferito di avere avuto come referente nella vicenda M. il D. ed aveva fatto solo un generico riferimento ad A.; il F. non aveva saputo dire con precisione se E. A. fosse stato coinvolto nella deliberazione dell’omicidio.

Riteneva, di contro, la Corte di appello che le circostanze acquisite nel giudizio abbreviato, in specie quelle riferite dai collaboratori nel processo celebrato dinanzi alla Corte di Assise che univocamente avevano indicato E.A. tra i mandanti dell’omicidio, valutate unitamente a quelle acquisite attraverso l’integrazione probatoria disposta nel giudizio di appello con l’esame di Tr.Ro. e di F.F., configurasse un compendio probatorio idoneo ad affermare la responsabilità dell’ E. in ordine a tutti i reati contestati.

Infine – per quel che qui interessa – la Corte riteneva infondata la doglianza del F. relativa alla attribuibilità allo stesso, ex art. 116 c.p., del reato contestato al capo c) e riconosceva al predetto l’attenuante speciale di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8 con riduzione della pena in misura contenuta ritenendo non decisivo il contributo del dichiarante.

3. Avverso la sentenza di secondo grado hanno proposto ricorso per cassazione con atti separati E.A. e F. F., a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia.

3.1. L’ E. con il primo motivo di ricorso ripropone l’eccezione già formulata nei giudizi di merito di nullità della procedura di estensione dell’estradizione con conseguente improcedibilità dell’azione penale. Afferma il ricorrente che in atti non risulta la prova della notifica dell’avviso della comunicazione della fissazione di interrogatorio davanti al pubblico ministero di Viterbo per l’assunzione delle dichiarazioni dell’interessato sulla richiesta di estensione dell’estradizione.

3.2. Con il secondo motivo deduce l’inutilizzabilità degli atti compiuti nel processo relativo al medesimo fatto celebratosi dinanzi alla Corte di assise di Caltanissetta nei confronti degli altri imputati e dello stesso E.A. per il quale era stata emessa sentenza di non doversi procedere per mancanza dell’estradizione. Ad avviso del ricorrente, l’improcedibilità dell’azione penale travolgerebbe gli atti compiuti in quel processo che, pertanto, non potevano essere utilizzati neppure nel nuovo processo.

3.3. Il ricorrente denuncia, inoltre, la violazione dell’art. 603 c.p.p., avendo la Corte di appello accolto la richiesta del pubblico ministero di esaminare Tr.Ro. (ud. 4.12.2009), pur trattandosi di giudizio abbreviato e non essendo stata formulata detta richiesta nel giudizio di primo grado dinanzi al Gup; impugna, quindi, l’ordinanza resa alla predetta udienza in ordine alla rinnovazione dell’Istruzione dibattimentale disposta per esaminare il Tr..

Deduce, altresì, la violazione della citata norma e dell’art. 495 c.p.p. con riferimento alla mancata ammissione dell’esame del collaboratore B.C., prova sopravvenuta richiesta dalla difesa (ud. 25.1.2010).

3.4. Con un ulteriore motivo di ricorso si deduce il vizio di motivazione in ordine alla valutazione con la quale il giudice di secondo grado ha ribaltato la decisione del primo giudice. In particolare, l’ E. contesta la motivazione della sentenza impugnata con riferimento: alla ritenuta pluralità delle fonti di conoscenza dei dichiaranti; alla valutazione delle dichiarazioni rese successivamente dal Tr., tralasciando del tutto le precedenti sulle quali era fondata la decisione del Gup; alla valutazione delle dichiarazioni del coimputato F. essendo state tralasciate quelle precedenti contenute nei verbali di interrogatori resi al pubblico ministero ed acquisiti In atti. In particolare, ad avviso del ricorrente, la Corte ha travisato le circostanze riferite dal F. ed ha ritenuto attendibili le dichiarazioni rese da questi dinanzi alla Corte senza fornire una spiegazione logica ed omettendo di considerare che il F. è smentito da quanto riferito dallo S., dal V., dall’ I., confortati anche dalla circostanza che il ricorrente era stato tratto in arresto in Germania appena un mese dopo l’omicidio il che dimostra come i due fratelli E. non fossero affatto insieme durante la latitanza, tanto meno nel periodo precedente ai fatti in oggetto.

4. Il F. propone quattro distinti motivi di ricorso.

4.1. Con il primo motivo contesta il mancato riconoscimento della diminuente di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8 nella massima estensione. Sostiene in primo luogo che la Corte non ha correttamente individuato l’epoca in cui il F. ha iniziato la collaborazione (26.8.2009), confondendo la prima fase delle dichiarazioni solo autoaccusatorie con quella successiva nella quale il predetto, iniziata la collaborazione, ha reso dichiarazioni accusatorie nei confronti del coimputato E.; in tale modo è risultata compromessa e contraddittoria la valutazione in ordine alla piena collaborazione ed alla portata determinante della stessa per l’esito del processo.

4.2. Deduce, altresì, il vizio della motivazione, affetta da manifesta illogicità e contraddizione, relativamente all’affermazione della responsabilità del F. in ordine al fatto contestato al capo c). Dalle risultanze processuali, in specie da quanto riferito da coloro, L.N. e lo stesso F., che avevano partecipato all’esecuzione materiale dell’omicidio non emergevano circostanze idonee a ritenere sussistente il reato di tentato omicidio in danno dei poliziotti in quanto risultava che il R. per assicurarsi la fuga dopo l’omicidio aveva sparato in aria e non contro i due poliziotti casualmente intervenuti sul posto. La ritenuta attendibilità di quanto riferito dal F. e dal L. su tutta la vicenda determina una contraddizione quanto alla valutazione in ordine al reato di tentato omicidio di cui al capo c).

4.3. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia la violazione dell’art. 157 c.p. in relazione al reato di cui al capo b). Avendo riconosciuto l’attenuante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8 la Corte avrebbe dovuto dichiarare la prescrizione del reato essendo trascorsi quasi quindici anni dal fatto ((OMISSIS)).

4.4. Con l’ultimo motivo il ricorrente deduce la violazione di legge in relazione al calcolo della pena sostenendo che la Corte territoriale aveva rideterminato la pena in violazione del divieto di reformatio in peius. Infatti, concedendo l’attenuante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8 la Corte di appello avrebbe dovuto escludere l’aggravante di cui all’art. 7 della citata legge, applicare la predetta attenuante speciale e le già riconosciute circostanze attenuanti generiche sulla pena base già determinata dal giudice di primo grado (anni ventuno) operando una prima riduzione per le attenuanti generiche da ritenersi prevalenti ed un’ulteriore riduzione per l’attenuante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8.

Inoltre, la Corte di appello aveva operato un aumento per la continuazione maggiore di quello operato dal Gup (anni tre invece di anni due di reclusione).

Motivi della decisione

1.1. L’eccezione relativa alla nullità della procedura di estensione dell’estradizione, già formulata nei precedenti gradi di giudizio dall’ E., è manifestamente infondata.

In sostanza il ricorrente lamenta che non risulta la prova della notifica fatta dalla polizia penitenziaria del fax trasmesso al carcere con il quale si dava avviso che l’ E. doveva essere sentito dal pubblico ministero al fine di rendere dichiarazioni per la procedura dell’estensione dell’estradizione.

In primo luogo, va evidenziato che – come si rileva nella sentenza impugnata (pag. 27) – nel verbale in data 16.5.2006, redatto dal pubblico ministero di Viterbo, si da atto che l’ E. era stato invitato a presentarsi al magistrato per essere interpellato in ordine alla richiesta di cui alla rogatoria e che il predetto aveva rifiutato di lasciare la cella. Pertanto, il ricorrente era stato posto a conoscenza delle regioni per le quali era stato invitato a presentarsi dinanzi al magistrato e per le quali, da quanto in atti, risultava, altresì, preventivamente avvisato anche il difensore di fiducia, Avv.to Danilo Tipo.

Conseguentemente, come correttamente ha ritenuto la Corte di appello, non vi è stata alcuna violazione, atteso che l’ E. consapevolmente ha rifiutato di rendere dichiarazioni. Nè, invero, la disciplina in materia di estradizione prevede alcuna sanzione di nullità a seguito della mancanza della prova dell’avviso dell’invito a rendere dichiarazioni per la procedura dell’estensione dell’estradizione.

Come è stato ricordato anche nella sentenza impugnata ed è qui opportuno ribadire, l’art. 14 della Convenzione Europea di estradizione, nel sancire il principio di "specialità", per cui la persona estradata non può essere "perseguita, giudicata, arrestata" per fatto anteriore alla consegna e diverso da quello che ha dato luogo all’estradizione, consente tuttavia l’estensione dell’estradizione già concessa, ove richiesta nelle forme e con il corredo della documentazione in generale prescritta al precedente art. 12, nonchè di "un processo verbale giudiziario contenente le dichiarazioni dell’estradato". Poichè la domanda di estradizione è atto dello Stato quale soggetto dotato di personalità nella sfera internazionale e compete, di regola, al Ministro della giustizia (art. 720 c.p.p.), il procedimento che conduce alla sua formazione e trasmissione allo Stato richiesto ha natura amministrativa ed è, come tale, sottratto alle garanzie giurisdizionali, applicabili soltanto alle attività presupposte compiute da autorità giudiziarie nazionali. In particolare, è stato chiarito dalla giurisprudenza (S.U. 19.5.1984, Carboni, recentemente ribadita da S.U., 28.2.2001, Ferrarese) che la richiesta di estradizione suppletiva non configura esercizio del potere giurisdizionale. La legislazione convenzionale prevede, è vero, la presentazione da parte dello Stato richiedente, fra l’altro, di una domanda corredata dai documenti richiesti dall’art. 12, tra i quali la lett. a) indica l’originale o la copia autentica del mandato di cattura o di qualsiasi atto avente la stessa efficacia, rilasciato nelle forme prescritte dalla legge della Parte richiedente; ma, precisarono le Sezioni Unite, soprattutto in tema di estradizione attiva, la cui procedura non si svolge neppure nelle forme giurisdizionali, il mandato di cattura o l’atto equipollente non costituisce manifestazione di attività giurisdizionale, avendo esclusivamente carattere strumentale rispetto al provvedimento di natura amministrativa rappresentato dalla richiesta di estradizione suppletiva. In forza di tale principio neppure al "processo verbale giudiziario" previsto dall’art. 14 della Convenzione può riconoscersi natura giurisdizionale; esso deve bensì essere redatto dinanzi ad un organo giudiziario, ma non fa parte nè del procedimento giurisdizionale (nazionale) in vista del quale è richiesta l’estradizione, nè del procedimento di verifica della legittimità della domanda che si svolgerà nello Stato straniero richiesto. La sua funzione è, in sostanza, quella di una informazione di garanzia volta a comunicare all’interessato che è stata richiesta l’estradizione ed a consentirgli di attivare ogni opportuna iniziativa difensiva presso le autorità dello Stato richiesto; la forma "giudiziaria" è una particolare garanzia prevista dalla Convenzione, che designa come competente a dare l’informazione e ricevere le richieste dell’estradando un organo giudiziario, ma non muta la natura amministrativa dell’atto (che è quindi, sotto tale aspetto – attività amministrativa devoluta ad organo giudiziario equiparabile agli atti di cd. "volontaria giurisdizione") (Sez. 1, n. 32346, 05/04/2002, Cianciaruso, rv.

222342).

Alla luce di ciò, nessun pregio può avere neppure il rilievo che l’interessato deve essere sentito prima della richiesta di estensione dell’estradizione del Ministro al fine di dare l’eventuale consenso per superare la necessità della richiesta.

1.2. Non è fondata la censura relativa alla utilizzabilità nel giudizio abbreviato degli atti del processo definito in relazione all’ E. con sentenza di non doversi procedere per mancanza del provvedimento di estradizione.

Invero, si tratta di atti legittimamente inseriti nel fascicolo del pubblico ministero trattandosi dello stesso procedimento ed acquisiti legittimamente agli atti del giudizio abbreviato regolarmente instaurato nei confronti dell’ E.. Detti atti, infatti, erano stati già valutati nel primo grado dal Gup, sia pure pervenendo a conclusioni diverse.

Come è stato più volte ribadito, nel giudizio abbreviato non rilevano nè l’inutilizzabilità cosiddetta fisiologica della prova, cioè quella coessenziale ai peculiari connotati del processo accusatorio, in virtù dei quali il giudice non può utilizzare prove, pure assunte secundum legem, ma diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento secondo l’art. 526 c.p.p., con i correlati divieti di lettura di cui all’art. 514 c.p.p. (in quanto in tal caso il vizio-sanzione dell’atto probatorio è neutralizzato dalla scelta negoziale delle parti, di tipo abdicativo), nè le ipotesi di inutilizzabilità "relativa" stabilite dalla legge in via esclusiva con riferimento alla fase dibattimentale; sono rilevabili, quindi, soltanto le inutilizzabilità cd. patologiche, inerenti cioè ad atti probatori assunti contra legem la cui utilizzazione è vietata in modo assoluto non solo nel dibattimento ma in tutte le altre fasi del procedimento, comprese quelle delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare (S. U., n. 16, 21/06/2000, Tammaro, rv. 216246). All’evidenza, non può rientrare tra le inutilizzabilità cd. patologiche quella di prove regolarmente assunte nel procedimento a carico dell’ E. ed, in specie, quelle assunte. In un regolare dibattimento nei confronti di altri imputati e dello stesso E., ancorchè concluso con sentenza di non doversi procedere nei confronti del predetto perchè non era stata concessa l’estradizione in relazione ai reati in contestazione.

1.3. E’ infondata la violazione dell’art. 603 c.p.p. dedotta dall’ E. sia con riferimento all’accoglimento della richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale del pubblico ministero per esaminare Tr.Ro., sia avuto riguardo alla mancata ammissione della prova nuova sopravvenuta a discarico chiesta dal ricorrente (esame di B.C.), pur essendo stata accolta la richiesta di assunzione di prova sopravvenuta formulata dal Procuratore generale.

Quanto alla prima censura, va rilevato che nel giudizio di secondo grado a seguito di rito abbreviato il giudice può rinnovare l’istruttoria se lo ritiene assolutamente necessario ai sensi dell’art. 603 c.p.p., comma 3. In tema di processo celebrato in appello con la forma del giudizio abbreviato, poi, non è di ostacolo alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale la circostanza che l’assunzione delle prove sia stata richiesta dal pubblico ministero, dovendo tale istanza essere considerata come una sollecitazione al giudice per l’esercizio del potere di ufficio di assumere gli elementi di prova assolutamente necessari per l’accertamento dei fatti che formano oggetto della decisione (Sez. 1, n. 36122, 09/06/2004, Campisi, rv. 229837). Nessuna rilevanza può, quindi, assumere la circostanza che nel giudizio abbreviato di primo grado non fossero stati sollecitati i poteri del giudice in tal senso.

Compiuta e corretta secondo i principi di diritto affermati da questa Corte, pertanto, deve ritenersi la motivazione dell’ordinanza in data 4.12.2009 con la quale la Corte di merito ha disposto la rinnovazione dell’istruzione per esaminare Tr.Ro., F. F. e S.C.. Invero, la Corte, rammentato che anche nel procedimento celebrato con il rito abbreviato al giudice dell’appello è consentito disporre di ufficio i mezzi di prova ritenuti assolutamente necessari per l’accertamento dei fatti che formano oggetto della decisione, tanto più quando trattasi di prove sopravvenute alla sentenza di primo grado, e rilevato che le patti possono sollecitare i poteri di iniziativa probatoria del giudice dell’appello, riteneva assolutamente necessario per la decisione procedere all’audizione del collaborante Tr.Ro. al fine di acquisire dallo stesso ulteriori chiarimenti in merito ai soggetti dallo stesso indicati quali mandanti dell’omicidio oggetto del processo.

Come è noto, infatti, l’art. 603 c.p.p. reca diversità di previsione, a seconda che si tratti di prove preesistenti o concomitanti al giudizio di primo grado, emerse in un diverso contesto temporale o fenomenico, ovvero di prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio. Nel primo caso, il giudice d’appello deve disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale solo se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti; nel secondo, deve rinnovare l’istruzione, osservando i soli limiti del diritto alla prova e dei requisiti della stessa.

Alla luce dei richiamati principi risulta ugualmente destituita di fondamento la censura, invero ai limiti dell’ammissibilità, relativa al mancato accoglimento della richiesta di assunzione di prova nuova sopravvenuta a discarico (esame di B.C.) avanzata nell’interesse dell’ E. all’esito dell’esame del Tr..

Deve in primo luogo evidenziarsi che, da quanto si rileva dalla sentenza impugnata (pag. 23) e dagli atti, all’udienza del 4.12.2009 il Procuratore generale sollecitava la rinnovazione per l’esame del Tr., dello S. e del F., mentre la difesa dell’ E. sollecitava l’esame di L.N.; alla stessa udienza, come si è detto innanzi, la Corte di assise di appello disponeva la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale per esaminare il Tr., lo S. ed il F. e non riteneva necessario esaminare il L.; all’esito dell’esame del Tr., assunto nelle successive udienze del 21.12.2009 e del 25.1.2010, la difesa del ricorrente avanzava la richiesta di esaminare B. C. che la Corte rigettava.

Invero, il ricorrente si duole della genericità della motivazione dell’ordinanza con la quale l’esame del B. veniva ritenuto non necessario ai fini della decisione, tuttavia, la censura pecca sotto Il profilo della specificità, atteso che il ricorrente non Indica le ragioni della necessità e rilevanza della prova richiesta, limitandosi ad affermare che l’esame del collaboratore B. "evoca protagonismi e ruoli che al medesimo vengono attribuiti proprio in relazione ai fatti del processo da altri collaboratori e dallo stesso Tr.". Così che, non è consentito nella specie effettuare alcun controllo da parte di questa Corte in ordine alla invocata violazione degli artt. 603 e 495 c.p.p..

A ciò va aggiunto che se è vero che a fronte di una prova nuova, ex art. 495 c.p.p., la difesa ha diritto alla prova contraria, è vero altresì che, nella specie, l’esame del Tr. non costituiva prova nuova in senso stretto perchè – come ha evidenziato la Corte di merito – il predetto aveva già reso dichiarazioni ed era stato ritenuto necessario riesaminarlo al fine di assumere ulteriori chiarimenti in merito ai soggetti che aveva indicato come mandanti dell’omicidio del M..

1.4. Quanto alle censure sulla motivazione della decisione impugnata, deve essere ribadito che "la sentenza di appello, che riforma integralmente la sentenza assolutoria di primo grado, deve confutare specificamente, per non incorrere nel vizio di motivazione, le ragioni poste a sostegno della decisione riformata, dimostrando puntualmente l’insostenibllltà sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti ivi contenuti anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati" (Sez. 5, n. 42033, 17/10/2008, Pappalardo, rv. 242330).

Orbene, nella specie il percorso giustificativo della sentenza impugnata da conto in maniera compiuta e specifica delle ragioni poste a fondamento della riforma del giudizio di primo grado che viene analiticamente ripercorso per poi pervenire alle diverse conclusioni.

In particolare, con riferimento alla ritenuta pluralità delle fonti di conoscenza dei diversi dichiaranti deve rilevarsi come la Corte di appello dopo avere sottolineato che tutti i collaboratori hanno indicato concordemente in Tr.Ro. e nei i fratelli E.D. ed A. i mandanti dell’omicidio del M., ha affermato che, a differenza di quanto ritenuto dal primo giudice, i propalanti non avevano indicato come fonte comune di conoscenza dei fatti il Tr.. Ripercorso quanto riferito sul punto da V.C., + ALTRI OMESSI la Corte di appello ha rilevato che: V. C. ed i fratelli C. erano inseriti nel gruppo facente capo agli E. ed avevano partecipato direttamente alle vicende di quel periodo anche se avevano poi appreso circostanze e modalità dell’omicidio dal Tr.; dall’altra parte le dichiarazioni dei collaboratori Bi., Tr.Or. e Gi., affiliati al gruppo dei Rinzivillo cui partecipava anche la vittima, pur valutate con il necessario rigore trattandosi di gruppo avverso all’imputato, consentivano di suffragare quanto meno il contesto di scontro nel quale era maturato l’omicidio e la circostanza che anche nella fazione avversa si fosse diffusa la convinzione che il M. era stato ucciso per volere del Tr. e dei fratelli E..

Quanto alla valutazione delle dichiarazioni rese dal Tr., deve rilevarsi che nella sentenza impugnata non sono state tralasciate le propalazioni precedenti sulle quali era fondata la decisione del Gup. Invero, il quadro probatorio è stato valutato alla luce dell’esame approfondito delle circostanze riferite da Tr.Ro. nel corso dell’istruttoria svolta dalla Corte di appello – diffusamente ripercorse – evidenziando che si trattava di dichiarazioni, pur arricchite di particolari, sostanzialmente sovrapponibili a quelle rese dal Tr. in sede di interrogatorio al pubblico ministero nelle quali – a differenza di quanto sostenuto dal giudice di primo grado – il predetto aveva fatto esplicito riferimento ad E. A. nell’indicare i mandanti dell’omicidio. In particolare, la Corte di merito ha evidenziato come il Tr. avesse chiaramente riferito che il programma di eliminare il Morreale era stato valutato, seguito e condiviso oltre che da I.G., dai fratelli D. ed E.A. che, nutrendo rancore verso la vittima anche perchè non li sosteneva nella latitanza, avevano entrambi sollecitato l’omicidio della cui esecuzione avevano incaricato F. insieme al T..

Rilevanti sono state ritenute, poi, le dichiarazioni di Va.Ci., perfettamente collimanti con quelle di altri con riguardo al contesto ed alla individuazione dei mandanti dell’omicidio. La Corte di assise di appello ha evidenziato che il collaboratore era fonte autonoma, perchè riferibile a diversa area, ed autorevole per il ruolo che ricopriva nel mandamento di Vallelunga in ragione del quale aveva rapporti diretti con i fratelli E. che, peraltro, erano stati a lungo latitanti in quel territorio. Il giudice di seconde cure ha contraddetto in maniera specifica e logica le argomentazioni difensive rilevando che il Va. in più passaggi aveva riferito della presenza di entrambi i fratelli E. latitanti nel territorio di Vallelunga (pag. 57 ss.). Ha evidenziato, peraltro, che non potevano assumere alcun rilievo specifico le circostanze che il Va. quindici giorni prima della consumazione del delitto avesse incontrato soltanto E.D. e che, secondo l’informazione riferita dall’ I. al colonnello Ri., sette giorni dopo il fatto questi avesse incontrato il D.; del resto, il Tr. aveva chiarito che A. e E. D. conducevano insieme la latitanza, ma per ragioni di cautela soltanto uno, preferibilmente D. che era il maggiore, si recava agli incontri con gli altri affiliati. Ugualmente, la circostanza riferita dai collaboratori che i fratelli E. decidevano sempre insieme gli affari della cosca e che avessero trascorso la latitanza insieme non poteva ritenersi contraddetta – come aveva assunto il giudice di primo grado – dal fatto che E.A. era stato tratto in arresto in Germania nel gennaio 1999 mentre il fratello D. era stato rintracciato nella provincia di Enna nel 2008, atteso che evidentemente si deve fare riferimento alla latitanza dell’epoca dell’omicidio in oggetto (1995).

Ulteriore conforto è stato tratto, poi, dalle dichiarazioni del F.. La Corte di appello ha messo in evidenza che questi aveva confessato di aver fatto parte del gruppo di fuoco e nel 2009 (come da verbali prodotti ed acquisiti con il consenso delle parti) aveva fornito al pubblico ministero ulteriori elementi, poi precisati nelle dichiarazioni rese nel giudizio di appello nelle quali aveva affermato che quando il Tr. ed il L. nel 2007 lo avevano accusato di partecipazione all’omicidio si era determinato a confessare ma aveva concordato con il T. e con lo S. di non accusare anche E.A.; successivamente aveva, invece, deciso di riferire che effettivamente l’omicidio era stato voluto da entrambi i fratelli E., fornendo di tanto – ad avviso della Corte – una spiegazione credibile, spontanea ed attendibile perchè coerente con quanto riferito dagli altri collaboratori. Nè tale valutazione poteva ritenersi contraddetta da quanto emerso dall’esame dello S. il quale della vicenda non aveva conoscenza diretta ma attraverso il Ta. ed il F..

Dunque la motivazione della sentenza impugnata risulta ancorata alle circostanze di fatto emerse nel procedimento ed immune dai vizi denunciati dal ricorrente attraverso, per vero, censure in parte generiche e carenti sotto il profilo dell’autosufficienza.

Conclusivamente, il ricorso proposto da E.A. deve essere rigettato con la conseguente condanna del predetto al pagamento delle spese processuali.

2.1. Il primo motivo del ricorso proposto dal F. non è fondato. Invero, premesso che la graduazione della pena, anche rispetto agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen. (Sez. 3, n. 1182, 17/10/2007, Cilia, rv. 238851), la valutazione operata dalla Corte di assise di appello in ordine alla portata ed alla rilevanza della collaborazione del ricorrente, ai fini della incidenza della riconosciuta attenuante speciale di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8 sulla quantificazione della pena, deve ritenersi logica e coerente con il precedente percorso argomentativo in ordine alla pluralità degli elementi di prova acquisiti a carico dei mandanti dell’omicidio. Riguardata sotto tale profilo la questione in ordine all’epoca dell’inizio della collaborazione non appare dirimente ai fini della valutazione della rilevanza della stessa.

2.2. E’ inammissibile il dedotto vizio della motivazione della sentenza Impugnata in ordine alla affermata responsabilità del F. per il reato contestato al capo c).

Il ricorrente lamenta che alla luce di quanto riferito da coloro che avevano partecipato all’esecuzione materiale dell’omicidio del M., L.N. e lo stesso F., non può ritenersi sussistente sotto il profilo della qualificazione giuridica il reato di tentato omicidio in danno dei poliziotti, atteso che il correo R. per assicurarsi la fuga dopo l’omicidio aveva sparato in aria e non contro i due poliziotti casualmente intervenuti sul posto.

Invero, nei termini in cui è stata posta la censura è inammissibile essendo affatto diversa da quanto il F. aveva contestato con riferimento al capo c) nell’atto di appello in cui si doleva esclusivamente dell’attribuibilita del fatto ai sensi dell’art. 116 c.p. ritenendo erronea la valutazione del Gup secondo la quale il reato diverso commesso dal concorrente R. costituiva lo sviluppo logico e prevedibile del reato programmato, mentre, ad avviso dell’appellante, la decisione di attentare alla vita dei poliziotti era stata una iniziativa personale ed esclusiva del R. che non poteva essere attribuita al F..

2.3. E’ fondato, invece, il ricorso quanto alla estinzione per intervenuta prescrizione dei reati contestati al capo b) dell’imputazione. Nella specie deve applicarsi la disciplina della prescrizione di cui all’art. 157 c.p. come novellato dalla L. n. 251 del 2005, atteso che la sentenza di primo grado è intervenuta in data successiva, 3.6.2008, all’entrata in vigore della predetta legge. Pertanto, tenuto conto della quantificazione della pena operata per la continuazione relativamente ai reati di cui al capo b) sia nella sentenza di primo grado che in quella di appello, deve essere eliminata la pena di un anno di reclusione per la continuazione in ordine al capo b).

2.4. Infine, il motivo di ricorso proposto dal F. in relazione alla violazione del divieto di reformatio in peius nella rideterminazione della pena operata dalla Corte di appello a seguito del riconoscimento dell’attenuante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8, è fondato limitatamente all’aumento per la continuazione.

Infatti, il giudice di primo grado aveva determinato la pena inflitta al F. in anni venti di reclusione. La pena base per il reato più grave contestato al capo a) dell’Imputazione era stata, invero, determinata in anni ventuno di reclusione tenuto conto delle concesse circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata aggravante della premeditazione; detta pena era, quindi, stata aumentata per l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 ad anni ventotto di reclusione e ad anni trenta di reclusione per la continuazione con gli ulteriori reati contestati ai capi b) e c);

infine la pena di anni trenta di reclusione era stata ridotta ad anni venti di reclusione per la diminuente del rito abbreviato.

La Corte di appello non ha tenuto conto dell’aggravante della L. n. 203 del 1991, art. 7, ed ha determinato la pena base per il reato più grave di cui al capo a) in anni diciotto di reclusione, per effetto della diminuente di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8 sulla pena dell’ergastolo; quindi, ha ridotto la pena di anni tre di reclusione per le circostanze attenuanti generiche ed ha aumentato di tre anni di reclusione per la continuazione relativa ai reati contestati ai capi b) e c) – indicata in anni uno di reclusione per il capo b) ed anni due per il capo c) – pervenendo alla pena di anni diciotto di reclusione ridotta ad anni dodici di reclusione per la diminuente del rito abbreviato. Pertanto, la Corte di appello ha determinato in complessivi anni tre di reclusione la pena per la continuazione a fronte di complessivi anni due di reclusione inflitti dal giudice di primo grado violando il divieto di reformatio in peius, atteso che, peraltro, l’originario appello del pubblico ministero relativo alla concessione delle circostanze attenuanti generiche riconosciute al F. con la sentenza di primo grado era stato superato – come la stessa Corte di merito ha precisato in sentenza (p. 93) – dalle richieste del P.G. di udienza.

Deve, pertanto, essere rideterminata la pena inflitta per la continuazione nella misura più favorevole e, conseguentemente, eliminato un anno di reclusione – come determinata dalla stessa Corte d’appello – in relazione ai reati contestati al capo b) estinti per la prescrizione di cui si detto, residua un ulteriore anno di reclusione per la continuazione relativa al capo c).

Così che, la pena di anni quindici di reclusione, come innanzi indicata deve essere aumentata di un solo anno di reclusione per la continuazione residua relativa al reato di cui al capo c), per complessivi anni sedici di reclusione cui va applicata la riduzione per il rito abbreviato.

P.Q.M.

A scioglimento della riserva di cui all’udienza del 29.3.2011 così decide:

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di F.F. in relazione ai reati di detenzione e porto di armi (capo b) perchè estinti per prescrizione, eliminando la relativa pena di anni uno di reclusione; ridetermina la pena in anni quindici di reclusione, aumentata di anni uno di reclusione per la continuazione, e così complessivamente in anni sedici di reclusione.

Rigetta nel resto il ricorso del F..

Rigetta il ricorso di E.A. che condanna al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *